Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 luglio 2021, n. 19522

Rapporto di lavoro, Dequalificazione professionale,
Risarcimento danni, Liceità del patto di demansionamento
al fine di evitare il licenziamento, Consenso del lavoratore

 

Rilevato che

 

1. con sentenza 28 marzo 2017, la Corte d’appello di
Bologna condannava B.P.I. s.r.l. al risarcimento, in favore del dipendente
F.L., per danno da dequalificazione professionale nel periodo dal 1° gennaio
2006 al 1° aprile 2012 in misura di un terzo della retribuzione lorda, oltre
rivalutazione ed interessi legali, rigettava nel resto l’appello del lavoratore
e integralmente l’appello incidentale della società datrice avverso la sentenza
di primo grado, di sua condanna al risarcimento, in favore del predetto, del
danno per mancata crescita professionale, individuato nell’impossibilità di
accedere ai premi in misura di € 1.000,00 a semestre dal gennaio 2006
all’aprile 2012 oltre ad € 3.000,00 per il lungo arco di inattività, con
reiezione delle domande del lavoratore di risarcimento del danno morale, di
adibizione alla qualifica B2 in precedenza acquisita e di indennità sostitutiva
delle ferie;

2. a motivo della decisione, la Corte territoriale
escludeva la riconoscibilità della dequalificazione del lavoratore, per essere
stato utilizzato in mansioni proprie della qualifica E2 dal 2 aprile 2012, in
forza di un patto di dequalificazione accettato dal lavoratore con la lettera 5
aprile 2012, legittimo per conformità all’Accordo integrativo aziendale del 22
novembre 2011 e per la documentata finalità di evitargli la perdita del posto
di lavoro;

3. essa confermava poi, così rigettando l’appello
incidentale della datrice, la spettanza al lavoratore del risarcimento del
danno da dequalificazione professionale dal 1° gennaio 2006 al 1° aprile 2012,
siccome provato il suo mantenimento in una condizione di inattività totale;
peraltro, ne riconosceva l’insufficiente liquidazione, incrementandola alla
misura suindicata per la valutazione integrata della durata di oltre sei anni
del periodo di inattività, della mancata pretesa datoriale di esecuzione del
trasferimento dal settore procurement al settore warehouse (relativo ad ambito già esternalizzato, non
inerente il suo bagaglio professionale), rifiutato dal lavoratore e
dell’assenza di doglianze prima dell’accordo del 5 aprile 2012 tra le parti, in
ordine al mutamento di mansioni per il periodo successivo al 1° aprile 2012;

4. infine, la Corte felsinea ribadiva la prova
insufficiente del rivendicato danno non patrimoniale, individuato dal
lavoratore in riferimento “alla figura professionale ed alla personalità
morale;

5. con atto notificato il 28 settembre 2017, il
lavoratore ricorreva per cassazione con tre motivi, cui la società resisteva
con controricorso contenente ricorso incidentale articolato su due motivi, cui
il primo replicava con controricorso;

6. la società comunicava memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c.;

 

Considerato che

 

1. il ricorrente deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 2103, 2113, 1362 c.c. ed
omesso esame di un fatto decisivo, per la ravvisata legittimità di un patto di demansionamento senza alcun limite temporale, contrario
all’accordo aziendale 22 novembre 2011 che prevedeva una gestione comune con il
sindacato di un percorso di durata triennale in vista di una ricollocazione
professionale equivalente, accettato in questa prospettiva dal lavoratore, con
esclusione in ogni caso del consenso per effetto dell’azione giudiziale
promossa per denunciare il demansionamento subito
(primo motivo);

2. esso è inammissibile;

2.1. il motivo difetta innanzi tutto di specificità,
prescritta a pena di inammissibilità dall’art. 366,
primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., sotto il profilo
dell’omessa trascrizione (se non in modo marginale, e pertanto inidoneo,
rispettivamente: dal quinto al settimo alinea e dal secondo al quarto capoverso
di pg. 13 del ricorso) della lettera del lavoratore 5
aprile 2012 e dell’Accordo integrativo aziendale del 22 novembre 2011, da parte
del ricorrente che ha denunciato la non condivisa valutazione della Corte
territoriale (Cass. 7 giugno 2017, n. 14107; Cass. 5 agosto 2019, n. 20914) in
ordine all’esistenza del patto di demansionamento,
all’esito della lettura interpretativa dei suindicati documenti;

2.2. d’altro canto, il lavoratore ha formulato tale
critica senza neppure enunciare i canoni ermeneutici contrattuali violati, né
tanto meno specificare le ragioni né il modo in cui si sarebbe realizzata
l’asserita violazione (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 21 giugno 2017,
n. 15350): essendo l’interpretazione della Corte pure assolutamente plausibile
e, in quanto indagine di fatto riservata al giudice di merito congruamente
argomentata (per le ragioni esposte in particolare negli ultimi tredici alinea
di pg. 3, nei primi quattro e negli ultimi cinque di pg. 4 della sentenza), insindacabile in sede di
legittimità; vieppiù, per avere la parte meramente contrapposto la propria
interpretazione a quella giudiziale (Cass. 10 maggio 2018, n. 11254),
censurandone nella sostanza il risultato interpretativo in sé (Cass. 10
febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891);

2.3. in ogni caso, essa ha esattamente applicato il
principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo
cui è valido il patto di demansionamento che, ai soli
fini di evitare un licenziamento, attribuisca al lavoratore mansioni, e
conseguente retribuzione, inferiori a quelle per le quali sia stato assunto o
che successivamente avesse acquisito, per la prevalenza dell’interesse del
lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c., qualora vi sia il suo consenso,
libero e non affetto da vizi della volontà e sussistano le condizioni che
avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell’accordo (Cass. 7 febbraio 2005, n. 2375

; Cass.
22 agosto 2006, n. 18269; Cass.
10 settembre 2013, n. 20716; Cass. 12 giugno
2015, n. 12253; Cass. 6
ottobre 2015, n. 19930; Cass. 26 febbraio 2019,
n. 5621);

2.4. nel caso di specie, la Corte territoriale ha in
fatto accertato la conclusione di un tale patto tra le parti nell’ambito di una
crisi aziendale comportante l’esigenza di una riduzione del personale,
tradottasi nel solo stabilimento di Ferrara ed entro la fine dell’anno 2012
nella cessazione di venti rapporti di lavoro subordinato per prepensionamenti e
adesione volontaria alla mobilità, nella ricollocazione di diciannove
dipendenti all’interno del medesimo stabilimento e di sette presso quello di
Rotterdam (così dal ventesimo al ventinovesimo alinea di pg.
4 della sentenza);

2.5. infine, è irrilevante, siccome non incidente
sulla libertà del consenso manifestato, l’omesso esame della sua revoca per
effetto dell’azione giudiziale promossa per denunciare il demansionamento
subito, pertanto non decisivo né risultante dedotto nei precedenti gradi, in
difetto del paradigma deduttivo prescritto dall’art.
360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053

; Cass. 11 aprile 2017, n.
9253);

3. nel rispetto del
criterio di pregiudizialità logico-giuridica, la società controricorrente
deduce, in via di ricorso incidentale, violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo,
per la mancata prova, a carico del lavoratore, della sua dequalificazione dal
1° gennaio 2006 al 1° aprile 2012 per essere stato mantenuto in una condizione
di inattività totale, avendo la Corte territoriale erroneamente assunto
l’incidenza soltanto sul quantum, e non anche sull’an
del demansionamento, delle circostanze che essa aveva
dedotto di imputabilità del demansionamento
denunciato al rifiuto del lavoratore di prendere servizio presso il magazzino
cui era stato destinato e del suo colpevole ritardo nel lamentarsene (dopo
sette anni), sintomatico di acquiescenza (primo motivo);

4. anch’esso è inammissibile;

4.1. non è configurabile il vizio di
violazione di legge denunciato, integrato dalla deduzione di un’erronea
ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta
recata da una norma di legge, implicante un problema interpretativo; nel caso
di specie, si tratta invece dell’allegazione di un’erronea ricognizione della
fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta
interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di
merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto
l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13
ottobre 2017, n. 24155; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340), ovviamente nei limiti
del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.,
qui non ricorrente;

4.2. quanto alle risultanze esterne
di causa, esse sono state valutate (con particolare riferimento a quelle
suindicate dedotte dalla società datrice: illustrate dal quinto all’undicesimo
alinea di pg. 6 della sentenza; nessuna peraltro
decisiva, proprio per la deduzione plurima, che esclude ex se la portata
risolutiva di ciascuna: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625) non soltanto nella loro
incidenza sul quantum e non sull’an del demansionamento, ma pure nel globale apprezzamento delle
complessive risultanze acquisite (a pg. 5 della
sentenza). Sicché, in esito ad esso la Corte territoriale ha accertato la
totale inattività del lavoratore procurata dal datore di lavoro, in particolare
in base alla sua mancata reazione disciplinare né organizzativa al rifiuto del
trasferimento e delle nuove mansioni da parte del lavoratore, neppure
assegnatario di obiettivi lavorativi, né destinatario di schede valutative:
così compiendo una “valutazione integrata degli elementi probatori”
(al quart’ultimo alinea di pg. 5 della sentenza)
scrutinati, traendone la prova dell’inattività del periodo di dequalificazione
in questione;

4.3. la Corte bolognese ha
pertanto esattamente applicato la regola di ripartizione dell’onere probatorio,
a norma dell’art. 2697 c.c., non invertito se non
quando il giudice lo abbia attribuito ad una parte diversa da quella onerata
secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza
tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia
la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti
(Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395);

4.4. sicché, nella sostanza, il
motivo si risolve in una contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento
in fatto della Corte d’appello, insindacabili in sede di legittimità, siccome
sostenuti da argomentazione congrua per le ragioni dette;

5. la stessa ricorrente incidentale
deduce quindi la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1227 c.c. e l’omesso esame di un fatto
decisivo, per non avere la Corte territoriale tenuto conto delle circostanze
che essa aveva dedotto, ancorché ritenute incidenti soltanto (non già sull’an, ma) sul quantum del danno da demansionamento:
di rifiuto del lavoratore di prendere servizio nel nuovo ufficio di
destinazione e colpevolmente in ritardo nel lamentare la dequalificazione, tali
da configurare un suo concorso colposo nella causazione del danno alla
professionalità (secondo motivo);

6. il ricorrente principale deduce
invece la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2056, 2087, 2103, 2697 c.c., 115, 116 c.p.c., per
la non adeguata motivazione della rideterminazione in via equitativa del
medesimo danno, senza tener conto della gravosità e durata della completa
inattività lavorativa, secondo i criteri ordinariamente indicati dalla
giurisprudenza di legittimità (secondo motivo);

7. i due motivi, congiuntamente
esaminabili, per ragioni di stretta connessione, sono infondati;

7.1. è noto, in punto di diritto, che
in tema di liquidazione equitativa del danno da demansionamento,
sia sindacabile in sede di legittimità, come violazione dell’art. 1226 c.c. e, nel contempo, come
ipotesi di assenza di motivazione, di “motivazione apparente”, di
“manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione
perplessa od incomprensibile”, la valutazione del giudice di merito che
non abbia indicato, nemmeno sommariamente, i criteri seguiti per determinare
l’entità del danno e gli elementi su cui abbia basato la sua decisione in
ordine al quantum (Cass. 20 giugno 2019,
n. 16595
); potendo, d’altro canto, il giudice del
merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente
motivato, desumere l’esistenza del danno da dequalificazione professionale, di
natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore,
determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico –
giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli
elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa
pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e
alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre
2014, n. 19778
);

7.2. alla luce dei suenunciati principi, la Corte territoriale ha proceduto,
con argomentazione congrua, esente da vizi logici giuridici, alla liquidazione
del danno da professionalità per demansionamento,
sulla base della totale inattività del lavoratore nel periodo in oggetto, pur
tenuto conto delle circostanze prospettate dalla società datrice, incidenti sul
quantum del demansionamento, in relazione alla sua
durata senza che la stessa “abbia mai preteso l’esecuzione della
disposizione di trasferimento che il sig. Longhi aveva rifiutato” né che
“quest’ultimo … abbia mai lamentato alcunché prima dell’accordo perfezionato
tra le parti in data 5 aprile 2012” (ragioni illustrate al secondo
capoverso di pg. 6 della sentenza);

7.3. non è, infine,
configurabile il vizio motivo (mascherato dalla formulazione di violazione di
norme di legge, in realtà insussistente per le ragioni illustrate sub punto
4.1. ) dedotto dal ricorrente in via principale di insufficienza di motivazione
alla luce del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
(Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 11 aprile 2017, n. 9253), avendo poi la Corte
esaminato, come detto, le circostanze di cui la ricorrente incidentale lamenta
l’omesso esame, neppure peraltro integrante fatto decisivo, per quanto sopra
ritenuto e comunque da scrutinare in concorso con gli altri elementi alla base
della liquidazione equitativa del danno;

8. il ricorrente
principale deduce infine violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2056, 2087, 2103, 2697 c.c., 115, 116 c.p.c., per
la negazione, in difetto di sufficiente prova, del danno morale, invece
riscontrato dalle circostanze della dequalificazione, come anche conosciute
all’interno e all’esterno dell’azienda, con i conseguenti riflessi sulla
personalità del lavoratore, sulle sue abitudini di vita e sulla salute, non
essendo poi state valorizzate la circostanza dell’assunzione di un collega nel
settore procurement, cui in precedenza era stato
adibito il primo, evidentemente discriminato nella sua professionalità e
neppure quella del mancato godimento di ferie (terzo motivo);

9. anch’esso è infondato;

9.1. in tema di dequalificazione
professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si
verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono
oggetto di tutela costituzionale, da accertare in base alla persistenza del
comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio
professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle
istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento
di declassarlo o di svilirne i compiti (Cass. s.u. 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. 20 aprile 2018, n. 9901);

9.2. la relativa prova
spetta al lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per
testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e
concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività
lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata
del demansionamento o la diversa e nuova collocazione
lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. 15 ottobre
2018, n. 25743
; Cass. 3 gennaio 2019, n. 21; Cass. 2 ottobre 2019, n. 24585);

9.3. ebbene, la Corte
territoriale ha esattamente applicato i principi di diritto di individuazione
del danno non patrimoniale risarcibile (all’ultimo capoverso, primi otto 

alinea di pg. 6 della sentenza), avendo escluso che il lavoratore
abbia offerto, come suo onere, una prova pertinente: e ciò sulla base di un
argomentato ragionamento motivo (ai primi dodici alinea di pg.
7 della sentenza); sicché, la contestazione di un tale ragionamento probatorio
non può trovare spazio in sede di legittimità;

10. per le suesposte
ragioni entrambi i ricorsi principale e incidentale devono essere rigettati,
con la compensazione delle spese di giudizio tra le parti e raddoppio del
contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali
(conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20
settembre 2019, n. 23535);

 

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 luglio 2021, n. 19522
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: