Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2021, n. 26294

Consulente del lavoro, Esercizio abusivo di una professione,
Assenza di apposito titolo e d’iscrizione al relativo albo professionale

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con il provvedimento in epigrafe indicato, la
Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo
emessa in data 19 ottobre 2017, con la quale il ricorrente è stato condannato
per il reato previsto dall’art. 348 cod. pen. (esercizio abusivo di una professione), per avere,
in qualità di legale rappresentante della società C.S.T. S.a.s. di M. S.,
svolto attività di consulente del lavoro, in particolare occupandosi di
adempimenti in materia lavoristica, in assenza di apposito titolo e
d’iscrizione al relativo albo professionale (in Treviglio in data 13 settembre
2013).

2. Con atto a firma del difensore di fiducia, S. M.
ha proposto ricorso, articolando un unico motivo per violazione di legge e
vizio della motivazione per avere la Corte di appello non tenuto conto della
speciale normativa prevista dall’art.
11 del decreto del Ministro delle Finanze n. 164 del 31 maggio 1999, in
materia di disciplina delle attività dei Centri di assistenza fiscale
(denominati CAF imprese), e dall’art.
1, comma 4, della legge 11 gennaio 1979, n.12, in materia di disciplina
delle attività di consulenza del lavoro svolta per i dipendenti delle imprese
artigiane e piccole imprese e le cooperative di dette imprese.

Si rappresenta che l’imputato ha svolto le
contestate attività di consulenza del lavoro come titolare di un Centro Servizi
terziario (CTS), costituito in forma di società in accomandita semplice,
facente capo all’associazione ALAR che fornisce servizi solo alle piccole
imprese associate, sia in quanto centro di assistenza fiscale (CAF imprese)
abilitato ex art. 11 d.m. Finanze n. 164/1999 e sia in quanto centro di
servizio di associazione di categoria ex art. 1, comma 4, I. 12/1979.

Ogni CTS costituisce un’articolazione, diffusa su
tutto il territorio nazionale, della stessa associazione ALAR, che è socia di
maggioranza assoluta (70%) di ciascuno di detti centri, come anche nel caso del
CTS di M. S., che ne è socio di minoranza.

Si obietta che erroneamente nel verbale ispettivo il
predetto CTS di M. S. è stato assimilato ad un semplice CED (Centro
elaborazione dati) di cui al comma
5 dell’art. 1 legge 12/1979 anziché ad un centro di servizi di cui al
citato comma 4 dello stesso articolo di legge, e che non è stato tenuto in
considerazione che tali CTS svolgono le loro attività esclusivamente a favore
delle imprese iscritte alla Associazione Lavoratori Artigiani e piccole e medie
imprese Riuniti (ALAR).

Si censura anche il riferimento alla circolare n. 17/2013 che si fonda su un
precedente erroneo della Corte di Cassazione (sentenza n. 367/2013 della Sesta
Sezione penale) che ha confuso le percentuali di possesso delle quote sociali
con le percentuali di ripartizione degli utili, essendo il socio accomandatario
titolare di una quota del 30% pur avendo una partecipazione agli utili del 99%,
ed essendosi esclusa per tale via l’esistenza del controllo da parte della
associazione Alar che detiene il 70% della quota di partecipazione, in
osservanza dell’art. 1, comma
4, della legge n. 12/79.

In particolare, si sostiene che la predetta
disposizione, in deroga alla esclusiva assegnazione ai professioni iscritti
nell’albo dei consulenti del lavoro, e con riferimento alle sole piccole
imprese e imprese artigiane ed alle loro cooperative, legittima l’affidamento
delle relative mansioni a servizi o a centri di assistenza fiscali (CAF)
istituiti dalle rispettive associazioni di categoria, prevedendo che tali
servizi possono ma non necessariamente essere svolti dalle predette
associazioni a mezzo di consulenti del lavoro anche se dipendenti delle
medesime associazioni.

In altre parole, le predette associazioni di piccole
imprese possono affidare le attività di consulenza del lavoro o ai CAF o a
centri servizi da esse istituiti, senza quindi che sia necessario il ricorso a
consulenti del lavoro iscritti nel relativo albo.

Si rileva che dopo la sentenza della Corte di
Cassazione sopra citata sono stati sollecitati chiarimenti interpretativi al
Ministero del Lavoro (rimasti senza risposta) e sono intervenute numerose
sentenze di merito che hanno sempre assolto in tutti i procedimenti penali che
ne sono sortiti i relativi imputati, mentre altri procedimenti si sono definiti
con l’archiviazione, evidenziandosi che quella impugnata è stata l’unica
sentenza di condanna.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è fondato.

La normativa che disciplina la materia dei centri di
assistenza fiscale e dei servizi di consulenza del lavoro affidati alle
cooperative delle imprese artigiane e delle piccole imprese non consente di
ricondurre l’attività di consulenza del lavoro svolta dai predetti centri nella
fattispecie di reato prevista dall’art. 348 cod. pen., non essendo richiesta per tale attività
l’iscrizione all’albo speciale dei consulenti del lavoro.

La diversa interpretazione seguita dalla Corte di
appello non appare corretta perché opera una indebita riduzione degli spazi di
autonomia che la legislazione in materia assegna alle piccole imprese ed alle
imprese artigiane con l’evidente intento di agevolare dette categorie
produttive al fine di ridurre i costi di gestione dei relativi servizi.

In particolare, vengono in rilievo l’art. 11 del decreto del Ministro
delle Finanze n. 164 del 31 maggio 1999, in materia di disciplina delle
attività dei Centri di assistenza fiscale (denominati CAF imprese), e l’art. 1, comma 4, della legge 11
gennaio 1979, n.12, in materia di disciplina delle attività di consulenza
del lavoro svolta per i dipendenti delle imprese artigiane e piccole imprese
attraverso le società di servizi costituite dalle cooperative di dette imprese.

Secondo la ricostruzione operata dai giudici di
merito, l’imputato ha svolto le contestate attività di consulenza del lavoro
come titolare di un Centro Servizi terziario (CTS), costituito in forma di
società in accomandita semplice, facente capo all’associazione ALAR che
fornisce servizi solo alle piccole imprese associate, sia in quanto centro di
assistenza fiscale (CAF imprese) abilitato ex art. 11 d.m.
Finanze n. 164/1999 e sia in quanto centro di servizio di associazione di
categoria ex art. 1, comma 4,
I. 12/1979.

È anche stato accertato che ogni CTS costituisce
un’articolazione, diffusa su tutto il territorio nazionale, della stessa
associazione ALAR, che è socia di maggioranza assoluta (70%) di ciascuno di
detti centri, come anche nel caso del CTS di M. S., che ne è socio di
minoranza.

Dalla lettura delle disposizioni richiamate si
evince chiaramente che gli adempimenti previdenziali e assistenziali dei
lavoratori delle imprese associate, possano essere curati da centri di servizio
istituiti dall’associazione di categoria, senza che rilevi la natura del
rapporto di lavoro che intercorre tra i soggetti incaricati di svolgere dette
attività e le associazioni di categoria.

Il quarto comma dell’art. 1 della legge n. 12/1979
prevede, infatti, una deroga alla esclusiva attribuzione a consulenti del
lavoro iscritti al relativo albo, ammettendo che tali mansioni con riguardo
alle piccole imprese ed alle imprese artigiane possano essere gestite da parte
delle cooperative cui aderiscono le predette categorie di imprese che possono
così delegare gli adempimenti in materia del lavoro a proprie cooperative, le quali
a loro volta possono avvalersi sia di consulenti del lavoro e sia di altro
personale comunque qualificato, selezionato sotto la propria responsabilità e
che opera sotto il controllo di dette associazioni.

È bene ricordare che in linea di principio le mansioni
di amministrazione della busta paga, dei rapporti con enti previdenziali, ed in
genere della contrattualistica di lavoro, sono rimesse al datore di lavoro che
deve occuparsene personalmente o per mezzo di propri dipendenti e sotto la
propria responsabilità.

Attesa la sempre maggiore complessità di detti
adempimenti, è stato opportunamente previsto in alternativa, ex art. 1 comma 1, legge n. 12/1979,
che il datore di lavoro possa delegare tali incombenze ad un consulente del
lavoro abilitato, iscritto nel relativo albo professionale nonché ad altre
figure professionali (professionisti iscritti negli albi degli avvocati e
procuratori legali, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali).

Il quarto comma del medesimo art. 1 della citata legge n.
12/1979 fa un’eccezione per le piccole imprese e quelle artigiane che
possono organizzarsi in cooperative per gestire, attraverso delle associazioni
di categoria, gli adempimenti in materia fiscale e di lavoro, tramite centri di
servizi gestiti da dette associazioni, o tramite i centri di assistenza fiscale
(CAF) istituiti sempre da tali associazioni ex art. 11 d.m.
delle Finanze n. 164 del 31 maggio 1999 che ne regola le forme di
costituzione.

La surrichiamata disposizione della legge
professionale dei consulenti del lavoro stabilisce, infatti, testualmente al
comma 4 che “Le imprese considerate artigiane ai sensi della L. 25 luglio 1956, n. 860 nonché le altre piccole
imprese, anche in forma cooperativa, possono affidare l’esecuzione degli
adempimenti di cui al primo comma a servizi o a centri di assistenza fiscale
istituiti dalle rispettive associazioni di categoria. Tali servizi possono
essere organizzati a mezzo dei consulenti del lavoro, anche se dipendenti dalle
predette associazioni”.

Giova anche considerare che secondo la
giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato in sede giurisdizionale,
Sezione Sesta; sentenza n. 243 del 2 marzo 1999), è pacificamente ammesso che
le piccole imprese possano, ai sensi dell’art. 1, quarto comma, della legge
11 gennaio 1979, n.12, affidare gli adempimenti in materia di lavoro,
previdenza ed assistenza sociale, anziché ai consulenti del lavoro, ai servizi
istituiti dalle rispettive associazioni di categoria.

Quanto alle forme organizzative, il citato art. 11 d.m.
n. 164/99 prevede che dette cooperative di imprese e le relative
associazioni che abbiano istituito un Centro di assistenza fiscale (CAF),
possano per lo svolgimento dell’attività di assistenza fiscale, avvalersi di
una società di servizi il cui capitale sociale sia posseduto, a maggioranza
assoluta, dalle associazioni o dalle organizzazioni che hanno costituito il CAF
o dalle organizzazioni territoriali di quelle che hanno costituito i CAF,
ovvero sia posseduto interamente dagli associati alle predette associazioni e
organizzazioni.

2. Nel caso in esame tali condizioni risultano
pacificamente osservate.

L’imputato è risultato, infatti, essere socio al 30%
della S.a.s. nella veste di socio accomandatario, mentre l’altro socio al 70% è
risultato essere l’ALAR, quale socio accomandante, ovverosia l’associazione
rappresentativa delle imprese piccole e artigiane che ne fanno parte e che ha
istituito, nella forma di una società di capitali un CAF legittimamente autorizzato
a svolgere per conto delle imprese associate sul territorio nazionale oltre
agli adempimenti fiscali anche quelli in materia di lavoro.

Quindi è errato affermare che l’associazione ALAR
non potesse affidare le mansioni di assistenza dei datori di lavoro a dei
soggetti giuridicamente distinti, ma solo a propri dipendenti.

È la legge stessa che ammette che dette attività
possono essere svolte o da centri di servizi che sono gestiti direttamente
dalle associazioni con propri dipendenti o da società di servizio costituite
per tale scopo dalle stesse associazioni di categoria, senza che sia richiesto
che i soggetti adibiti a tali servizi siano consulenti del lavoro, ossia
soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 8 della legge n. 12/1979.

3. Quindi, alla stregua della normativa vigente in
materia, non vi sono ragioni per ritenere che i centri di servizio gestiti
dalle associazioni attraverso la costituzione di società di servizio debbano
obbligatoriamente avvalersi di consulenti del lavoro iscritti all’albo.

Non solo non sono previste limitazioni all’utilizzo
di società di servizi all’uopo costituite da dette associazioni, ma con
riferimento ai centri di assistenza fiscale, che pure possono essere adibiti
per le categorie produttive in esame alla cura degli adempimenti in materia di
lavoro, devono ritenersi valide le disposizioni adottate con il regolamento
ministeriale di attuazione per la istituzione dei centri di assistenza fiscale
di cui all’art. 11 D.M. delle
Finanze n. 164 del 31 maggio 1999.

Ciò proprio in considerazione del fatto che il più
volte citato comma 4 dell’art.
1 della legge professionale, prevede che in alternativa ai centri di
servizio gestiti dalle associazioni possono essere create strutture
delocalizzate dei Caf-imprese che fanno capo alla cooperativa di imprese che si
avvalgono di tale opportunità.

Quel che rileva è solo che tali servizi siano svolti
per le sole imprese artigiane o piccole imprese associate, trattandosi di una
deroga al regime obbligatorio dell’albo professionale che non ammette
ovviamente ampliamenti nella gestione dei servizi di consulenza che non possono
essere svolti per imprese diverse da quelle associate e rappresentate dalle
cooperative di categoria ma per le sole tipologie di impresa considerate dalla
legge (piccole imprese ed imprese artigiane).

È errato anche ritenere, nel caso di specie, che il
CTS dell’imputato non operasse per conto di un CAF abilitato, atteso che il
citato art. 11 d.m. 164/99 ammette che le attività di consulenza ed
assistenza fiscale possono essere svolte anche da società di servizi
partecipate dalla associazione che ha costituito il CAF e che ha ricevuto
l’autorizzazione ministeriale a svolgere detta attività.

Ed è altrettanto errato il riferimento alla
necessità che l’operatore professionale incaricato dalle associazioni di categoria
in esame sia un dipendente dell’associazione stessa.

La normativa esaminata non impone che i centri di
servizio siano gestiti dalle associazioni di categoria attraverso propri
dipendenti, ma solamente che detti centri siano controllati dalle associazioni
da cui sono stati costituiti.

In ordine alla forma societaria, ove si tratti di
centri istituiti da una associazione che abbia a sua volta provveduto a
costituire un CAF, non deve confondersi la forma societaria prescritta per la
costituzione del CAF (ex art.
33, comma 1, d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, in base al quale è richiesta la
forma di società di capitali) con la forma organizzativa richiesta per le
società di servizio che operano per conto del CAF.

Per quest’ultime l’art. 11 del d.m.
164/99 cit,, norma regolamentare attuativa della
normativa di settore ex art. 40 d.l. 241/1997, prevede che dette società di servizio
siano controllate dalla associazione di categoria, ma non impone alcuna forma
societaria, sempre che operino nell’ambito dell’organizzazione del CAF
autorizzato, costituito nella forma di una società di capitali.

A tale riguardo la norma del cit. art. 11 d.m.
164/1999 stabilisce che per lo svolgimento dell’attività di assistenza
fiscale, il CAF può avvalersi di una società di servizi il cui capitale sociale
sia posseduto, a maggioranza assoluta, dalle associazioni o dalle
organizzazioni che hanno costituito il CAF.

È poi previsto al comma 2 che le attività delle
società di servizio di cui al comma 1, sono effettuate “sotto il diretto
controllo del CAF che ne assume la responsabilità”.

Pertanto, la responsabilità dell’attività svolta
dalle società di servizio, così strutturate, ricade direttamente per legge sul
CAF e di conseguenza sulla società di capitali istituita a tale fine, e ciò
anche se il singolo operatore che cura l’attività di consulenza fiscale e del
lavoro per conto del centro di servizi sia socio di una società di persone e
non già dipendente dell’associazione.

Il controllo della società di servizio è assicurato
attraverso la previsione che il socio di maggioranza sia la stessa cooperativa
che ha istituito il CAF.

Mentre la responsabilità del CAF-società di
capitale, che si avvale delle società di servizio dislocate sul territorio,
deriva direttamente dalla normativa di legge (ex art.
1, co.2, d.m. 164/1999) e prescinde dall’entità
del capitale sociale della società di servizi, che potendo essere anche una
società di persone non assume rilievo ai fini della garanzia patrimoniale che
grava in via diretta sul Caf, che, invece, in quanto costituito in forma di
società di capitale è soggetto alla normativa più rigorosa posta a tutela della
garanzia patrimoniale per i debiti societari.

Si tratta, in definitiva, di un sistema normativo
complesso che per quanto interessa l’aspetto penale non si presta ad essere
interpretato nel senso di ritenere che il socio della società di servizio, cui
è stato affidato lo svolgimento delle attività di consulenza del lavoro –
prescindendo dalle competenze in materia fiscale – possa essere ritenuto
responsabile del reato di abusivo esercizio della professione di consulente del
lavoro.

4. Per quanto sopra esposto, non può essere accolta
ma deve anzi essere qui disattesa e superata anche la diversa interpretazione
seguita nell’unico ed isolato precedente di legittimità (Sez. 6, n. 97256 del
21/02/2013, Trovanelli, Rv. 254591), che aveva affermato il principio opposto
secondo cui “sussistono gli estremi del reato di esercizio abusivo di una
professione laddove la gestione dei servizi e degli adempimenti in materia di
lavoro, previdenza ed assistenza sociale venga curata, non da dipendenti di
un’associazione di categoria, cui l’art. 1 comma 4 della legge n. 12
del 1979 eccezionalmente riconosce la possibilità di quella gestione, ma da
un soggetto privo del titolo di consulente del lavoro, ovvero non iscritto al
relativo albo che sia socio di una società solo partecipata da una di quelle
associazioni di categoria”.

Si tratta di una interpretazione che confonde il
piano della responsabilità amministrativa e civile dell’operatore che sia socio
di una società di servizio partecipata e controllata da una associazione di
categoria con quello della responsabilità penale per esercizio abusivo della
professione di consulente del lavoro.

La responsabilità civile e amministrativa che grava
sull’operatore ed eventualmente sulle associazioni di categoria nel caso di
errori imputabili ad una consulenza del lavoro svolta in modo inappropriato non
giustifica la tesi secondo cui, in ragione della limitata consistenza
patrimoniale delle associazioni di categoria, si dovrebbe ritenere inoperante
la deroga al regime dell’obbligatorio affidamento dei servizi di assistenza in
materia di lavoro ad un consulente iscritto all’albo, con la conseguente
affermazione di responsabilità per esercizio abusivo della professione di
consulente del lavoro.

Non si tratta, invero, nella fattispecie di evitare
l’aggiramento delle norme stabilite a tutela dell’interesse a che possano
essere garantite determinate prestazioni professionali solo da soggetti che
hanno un minimo di standard di qualificazione.

Quanto, piuttosto, di salvaguardare gli interessi
dei piccoli imprenditori, trattandosi di servizi che vengono delegati per
volontà degli stessi soggetti tutelati dalla normativa che regola la
professione di consulente del lavoro grazie alla facoltà loro consentita di
avvalersi di servizi gestiti in forma di assistenza cooperativistica con
l’evidente intento di favorire quelle categorie di imprese che, per le loro ridotte
dimensioni e caratteristiche socio-economiche, potrebbero essere esposte a
costi non sostenibili per curare dette onerose incombenze di carattere
amministrativo.

L’opposto principio oltre a pregiudicare tale
legittimo interesse si pone in contraddizione con la deroga prevista al comma 4 dell’art. 1 legge
professionale all’obbligo per le piccole imprese e le imprese artigiane di
rivolgersi a consulenti iscritti all’albo per lo svolgimento delle relative
incombenze attinenti la materia del lavoro, privandole della facoltà loro
concessa di organizzare tali servizi attraverso proprie cooperative di
categoria.

La necessità che dette cooperative si avvalgono solo
di propri dipendenti comporterebbe degli oneri economici evidentemente non
sopportabili, ove non si consentisse a queste di avvalersi di forme
organizzative differenti per regolare i rapporti con i predetti operatori,
fermo restando il solo limite della necessità di un controllo degli operatori affidato
alle cooperative stesse e la conseguente responsabilità per la selezione di
personale professionalmente competente.

5. In conclusione, l’unico spazio per ravvisare il
reato di esercizio abusivo della professione di consulente del lavoro in questo
ambito rimane quello ristretto alla diversa casistica della utilizzazione di
tale sistema operativo oltre l’ambito delle piccole imprese e le imprese
artigiane associate.

Ed in linea con tale orientamento va ricordato che
la circolare Min. Lavoro n. 20 del 21.8.08
raccomanda agli ispettori del lavoro di verificare che i Centri di Servizio
svolgano la loro attività esclusivamente per le imprese associate e iscritte.

Nel caso di specie, non essendovi alcuna questione
sotto tale specifico profilo circa l’ambito di operatività del Centro di
Servizio Territoriale Alar, facente capo all’odierno ricorrente, deve disporsi
l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non
sussiste.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il
fatto non sussiste.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2021, n. 26294
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