Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 luglio 2021, n. 19378

Stato passivo dell’amministrazione straordinaria, Ammissione
al passivo in prededuzione, Indennità supplementare al trattamento di fine
rapporto, Accordo sindacale, Risoluzione del rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, Speciale ipotesi di trasferimento dei lavoratori, attraverso il
licenziamento e la successiva riassunzione, lndennità supplementare dovuta
soltanto nell’ipotesi di una effettiva cesura nel rapporto, Mancata ricollocazione
come fatto impeditivo della pretesa azionata, Allegazione e prova a carico
della procedura

 

Fatti di causa

 

1. Con decreto del 12 giugno 2015, il Tribunale di
Roma ha rigettato l’opposizione proposta da M.G. avverso lo stato passivo
dell’amministrazione straordinaria dell’A.S. S.r.l., avente ad oggetto
l’ammissione al passivo in prededuzione di un credito di Euro 151.399,00, a
titolo di indennità supplementare al trattamento di fine rapporto prevista
dall’accordo sindacale del 27 aprile 1995 in caso di risoluzione del rapporto
di lavoro a tempo indeterminato motivata dalle situazioni di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, da amministrazione
straordinaria ai sensi della legge 3 aprile 1979,
n. 95 o messa in liquidazione nei casi previsti dal codice civile.

Premesso che non era stata contestata
l’applicabilità dell’accordo sindacale, riferibile anche all’amministrazione
straordinaria dell’A.S., per effetto della trasfusione della relativa
disciplina nel d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270
(come modificato dal d.l. 23 dicembre 2003, n. 347,
convertito in legge 18 febbraio 2004, n. 39 e
dal d.l. 28 agosto 2008, n. 134, convertito in
legge 27 ottobre 2008, n. 166), e rilevato che
il ricorrente, assunto a tempo indeterminato con la qualifica di dirigente e
con rapporto di lavoro soggetto alla disciplina del CCNL per i dirigenti
dell’industria, era stato licenziato a seguito della chiusura dell’attività
produttiva dell’azienda, collocata in amministrazione straordinaria, il
Tribunale ha osservato che l’art. 5,
comma 2-ter, del d.l. n. 347 del 2003 prevede, in deroga ai principi
civilistici, una speciale ipotesi di trasferimento dei lavoratori, realizzabile
anche attraverso il licenziamento e la successiva riassunzione, nella quale il
licenziamento costituisce soltanto una modalità di trasferimento del
lavoratore, e non può quindi assumere quei profili di illegittimità che
costituiscono il sostrato della disciplina negoziale dettata dall’accordo
sindacale.

Ritenuto pertanto che l’indennità supplementare è
dovuta soltanto nell’ipotesi in cui si verifichi, nell’ambito delle fattispecie
indicate dall’accordo, una effettiva cesura nel rapporto di lavoro, il
Tribunale ha affermato che incombe al lavoratore che ne chiede la
corresponsione l’onere di fornire la prova della mancata riassunzione,
precisando che a tal fine non assume rilievo la circostanza che il dipendente
sia rimasto disoccupato, ma che egli non sia stato ricollocato nell’ambito
della medesima procedura di amministrazione straordinaria.

Quanto poi alla prededucibilità del credito,
premesso che la scelta di proseguire il rapporto di lavoro, implicandone la
necessità ai fini della continuazione dell’attività d’impresa, comporta
l’applicabilità del regime giuridico ed economico che lo caratterizza, in virtù
del quale al dirigente è dovuta un’indennità parametrata a quella di preavviso
che matura soltanto a seguito della interruzione del rapporto, il Tribunale ha
affermato che escludere la collocazione in prededuzione, in virtù della natura
indennitaria del credito, equivarrebbe a disapplicare una parte del contratto
collettivo senza che lo autorizzi alcuna disposizione, nonché a trascurare la
valutazione di costi e benefici che la procedura è tenuta a compiere nel
momento in cui è chiamata a scegliere se proseguire o meno il rapporto di
lavoro. Ha aggiunto che escludere la prededucibilità significherebbe negare la
possibilità di regolazione del credito in sede concorsuale, trattandosi di un
credito che sorge interamente al momento della cessazione del rapporto di
lavoro, e quindi successivamente all’apertura della procedura.

3. Avverso il predetto decreto il G. ha proposto
ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, illustrati anche con
memoria. L’A.S. ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente
denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 4 e 5 del d.l. n. 347 del 2003
e dell’accordo sindacale del 27 aprile 1995, censurando il decreto impugnato
per aver ritenuto che il licenziamento senza preavviso motivato dalla
cessazione dell’attività imprenditoriale non costituisse prova sufficiente
della risoluzione del rapporto di lavoro. Premesso che l’art. 5 cit. riguarda soltanto i
dipendenti che contestualmente alla risoluzione del rapporto di lavoro siano
stati riassunti presso l’azienda cessionaria, afferma di non rientrare in tale
fattispecie, non essendo mai stato riassunto dalla C., subentrata all’A.S..
Precisato che tale circostanza è comprovata dall’intervenuto versamento da
parte della amministrazione straordinaria dell’indennità sostitutiva del
preavviso, che non è dovuta in caso di ricollocazione del lavoratore licenziato
presso altra impresa, sostiene inoltre che l’indennità supplementare risponde
ad una funzione arbitrale, configurandosi come un onere economico posto a
carico della impresa che intenda licenziare il dipendente senza che questi
possa impugnare il licenziamento.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la
violazione e la falsa applicazione degli artt. 4 e 5 del d.l. n. 347 del 2003,
dell’art. 2118 cod. civ. e dell’accordo
sindacale del 27 aprile 1995, ribadendo che la prova della mancata riassunzione
da parte della società cessionaria era costituita dall’avvenuto versamento
dell’indennità sostitutiva del preavviso, dovuta esclusivamente in caso di
licenziamento. Precisato che l’accordo sindacale non prevede alcuna distinzione
tra le diverse ipotesi di licenziamento, afferma che l’indennità supplementare,
avente la medesima finalità di quella di preavviso e calcolata con modalità
identiche, dev’essere erogata al momento del licenziamento senza preavviso del
dirigente, nelle ipotesi tassativamente indicate dall’accordo, senza che
assumano alcun rilievo le vicende lavorative successive.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la
violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697
cod. civ., censurando il decreto impugnato nella parte in cui, pur avendo
ritenuto che il licenziamento costituisca condizione necessaria e sufficiente
per l’acquisto del diritto all’indennità supplementare, ha posto a suo carico
la prova della mancata riassunzione da parte della C.. Rilevato che, secondo lo
stesso decreto, il licenziamento con garanzia di riassunzione costituisce
un’ipotesi eccezionale, che esclude l’applicabilità dell’accordo sindacale,
sostiene che la prova della riassunzione avrebbe dovuto essere posta a carico
dell’amministrazione straordinaria, che aveva proposto la relativa eccezione.
Precisato di essere stato licenziato soltanto successivamente all’inizio
dell’attività della C., afferma comunque che l’onere probatorio avrebbe dovuto
essere ripartito in base al criterio della vicinanza della prova.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la
violazione e la falsa applicazione degli artt. 420
e 421 cod. proc. civ. e degli artt. 98 e 99 del r.d. 16 marzo
1942, n. 267, nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per
il giudizio, osservando che, nel ritenere non provata la mancata riassunzione
da parte dell’impresa cessionaria, il decreto impugnato ha posto a suo carico
una prova negativa, riguardante una circostanza non contestata da parte della
convenuta e dalla stessa non documentata, senza tenere conto della produzione
in giudizio dell’estratto contributivo dell’INPS, dal quale emergeva la totale
assenza di versamenti da parte della C., e senza sentirlo liberamente in ordine
ai fatti di causa.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la
nullità del decreto impugnato per violazione e falsa applicazione dell’art. 111, sesto comma, Cost., dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e
dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ.,
rilevando la grave illogicità e contraddittorietà della motivazione, nella
quale il Tribunale, pur avendo ricollegato il diritto all’indennità al
licenziamento ed avendone riconosciuto la prededucibilità, ha posto a suo carico
l’onere di provare la mancata riassunzione.

6. Così riassunti i motivi d’impugnazione, va
innanzitutto disattesa l’eccezione d’improcedibilità del ricorso per
inosservanza dell’art. 369, secondo comma, n. 4
cod. proc. civ., sollevata dalla difesa della controricorrente in relazione
alla mancata produzione in giudizio del testo integrale dell’accordo collettivo
invocato dal ricorrente a sostegno della domanda di ammissione al passivo.

Come ripetutamente affermato da questa Corte,
l’onere imposto dalla predetta disposizione dev’essere infatti inteso,
conformemente al principio di strumentalità delle forme processuali e nel
rispetto dell’art. 111 Cost., letto in coerenza
con l’art. 6 della CEDU, in
funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi
ragionevoli, e può quindi ritenersi adempiuto anche mediante la riproduzione,
nel corpo dell’atto d’impugnazione, della sola norma contrattuale sulla quale
si basano principalmente le doglianze proposte, a condizione che nei precedenti
gradi di giudizio sia stato prodotto il testo integrale del contratto
collettivo e nell’elenco degli atti depositati, posto in calce al ricorso, sia
inclusa la richiesta, presentata alla cancelleria del giudice che ha
pronunciato la sentenza impugnata, di trasmissione del fascicolo d’ufficio che
lo contiene (cfr. Cass., Sez. I, 6/06/2019, nn. 15415, 15416 e 15417;
31/05/2019, n. 14940; Cass., Sez. lav., 7/07/2014,
n. 15437).

Tali condizioni, volte a fornire a questa Corte
tutti gli elementi necessari per consentirle di verificare l’esattezza
dell’interpretazione del contratto collettivo risultante dalla sentenza
impugnata, devono ritenersi nella specie puntualmente rispettate, avendo il
ricorrente riportato, a corredo delle proprie censure, il testo della norma
contrattuale invocata, ed avendo accluso al ricorso la copia dell’istanza
presentata alla Cancelleria del Tribunale per ottenere la trasmissione del
fascicolo d’ufficio, recante il testo integrale dell’accordo.

7. Il primo ed il terzo motivo del ricorso, da
esaminarsi congiuntamente in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente
connesse, sono peraltro fondati.

In tema di rapporto di lavoro dei dirigenti
d’azienda, questa Corte ha infatti affermato che l’indennità supplementare al
trattamento di fine rapporto, prevista dall’accordo interconfederale del 27
aprile 1995, dev’essere riconosciuta al dipendente nel caso in cui il
licenziamento sia obiettivamente causato da ristrutturazione, riorganizzazione,
riconversione o crisi aziendale, non risultando necessario che ad esso consegua
un’effettiva cesura nel rapporto di lavoro e che il dipendente versi, pertanto,
in uno stato di disoccupazione (cfr. Cass., Sez.
lav., 30/09/2019, n. 24355). Premesso che l’indennità in questione fa
riferimento «a casi speciali, ai casi cioè in cui l’assetto aziendale, per le
varie causali indicate, viene radicalmente modificato così da coinvolgere una
pluralità di dirigenti della stessa impresa, con conseguente necessità di
sopperire alle relative emergenze occupazionali, giacché […] i dirigenti non
rientrano nell’ambito di operatività né della cassa integrazione né
dell’indennità di mobilità» (cfr. Cass., Sez.
lav., 7/01/2019, n. 142), è stato chiarito che, ai fini del riconoscimento
della stessa, «ciò che rileva, sul piano del diritto, è l’effettiva ragione del
recesso datoriale e il rapporto di derivazione causale di esso rispetto alle
fattispecie (ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi
aziendale) individuate dall’accordo, al di là della motivazione che il datore
di lavoro abbia formalmente adottato» (cfr. Cass.,
Sez. lav., 4/01/2019, n. 86). Pertanto, il dirigente licenziato a seguito
di ammissione dell’impresa alla procedura di amministrazione straordinaria che
intenda far valere il diritto all’indennità supplementare è tenuto a provare
soltanto che il recesso del datore di lavoro ha avuto causa concreta nella
situazione di crisi aziendale, e non anche che lo stesso non è stato seguito
dalla riassunzione, né di trovarsi in stato di disoccupazione, configurandosi
la mancata ricollocazione come un fatto impeditivo della pretesa azionata, la
cui allegazione e prova sono a carico della procedura (cfr. Cass., Sez. lav.,
14/08/ 2020, n. 17159; 7/01/2019, n. 142).

Tali principi, che il Collegio condivide ed intende
ribadire anche in questa sede, non risultano applicati nel decreto impugnato,
il quale, pur avendo rilevato che a) il ricorrente era stato assunto a tempo
indeterminato da A.S. con la qualifica di dirigente, b) il rapporto di lavoro era
soggetto al CCNL per i dirigenti dell’industria, c) la società era stata posta
in amministrazione straordinaria, e d) il rapporto era stato unilateralmente
risolto dal commissario straordinario «a seguito della chiusura dell’attività
produttiva dell’azienda collocata in amministrazione straordinaria», ha
ritenuto che la prova di tali circostanze non fosse sufficiente ai fini del
riconoscimento dell’indennità supplementare, ma occorresse anche quella di
un’effettiva cesura del rapporto di lavoro, e cioè della mancata ricollocazione
del dipendente nell’ambito della medesima procedura di amministrazione
straordinaria, ponendo il relativo onere a carico del dipendente. A sostegno di
tale conclusione, il Tribunale ha evidenziato il carattere derogatorio della disciplina
dettata dall’art. 5, comma 2-ter del
d.l. n. 347 del 2003 rispetto ai principi civilistici che regolano le
vicende circolatorie dell’impresa, sostenendo che la stessa prevede una
speciale ipotesi di trasferimento dei lavoratori, realizzabile anche attraverso
il licenziamento e la successiva riassunzione, nell’ambito della quale il
licenziamento non può assumere neppure potenzialmente quei profili di
illegittimità che costituiscono il presupposto della disciplina dettata
dall’accordo interconfederale.

Quest’ultima affermazione, postulando che
l’indennità supplementare trovi normalmente giustificazione nell’illegittimità
del licenziamento e sia volta ad evitarne l’impugnazione da parte del
dipendente, si pone peraltro in contrasto con l’osservazione di questa Corte
secondo cui «la disposizione di cui all’accordo Interconfederale non va […]
vista nell’ottica dell’azienda, che viene onerata proprio nei casi in cui il
recesso è sicuramente giustificato, ma nell’ottica dei dirigenti, che rimangono
disoccupati. I casi infatti sono quelli del licenziamento intimato ai dirigenti
con la motivazione della ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione
ovvero crisi aziendale, situazioni non solo allegate ma comprovate dal decreto
del Ministro del Lavoro, che le verifica per decidere se concedere o no, ai
dipendenti non dirigenti, la cassa integrazione guadagni straordinaria […].
Invero ogni istituto legato alla concessione della cassa integrazione
straordinaria presuppone necessariamente il coinvolgimento di una pluralità di
persone, ivi compresi i dirigenti, che in tal caso, secondo la previsione
dell’accordo interconfederale, ricevono tutela non dallo Stato, e neppure, per
esso, dall’Ente previdenziale, ma direttamente a carico del datore, attraverso
l’erogazione della prevista indennità» (cfr. Cass., Sez. lav., 15/07/2009, n.
16498).

6. Il decreto impugnato va pertanto cassato,
restando assorbiti gli altri motivi d’impugnazione, con il conseguente rinvio
della causa al Tribunale di Roma, che provvederà, in diversa composizione,
anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso,
dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa il decreto impugnato, e rinvia al
Tribunale di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche
sulle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 luglio 2021, n. 19378
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