Giurisprudenza – CORTE DI APPELLO MILANO – Sentenza 15 giugno 2021, n. 633

Diniego dell’agevolazione economica, cd. bonus asilo, ai soli
stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo, Carattere
discriminatorio della condotta, Parità di trattamento tra cittadini di paesi
terzi e cittadini degli stati membri

 

Motivi della decisione

 

Con ordinanza del 9.11.20 resa ex art. 28 D. Lgs
150/11 e TU Immigrazione 189/20 il giudice del lavoro del tribunale di Milano,
dichiarata la propria incompetenza territoriale in relazione alla posizione di
ASGI – Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione ritenendo competente il
tribunale di Torino avanti al quale rimetteva le parti, dichiarava il carattere
discriminatorio della condotta posta in essere dalla Presidenza del Consiglio
dei Ministri e da Inps consistente nel diniego dell’agevolazione economica di
cui all’art. 1 co. 355 L. 232/16 (cd. bonus asilo) ai soli stranieri titolari
di permesso di soggiorno di lungo periodo, ordinava agli stessi di cessare la
condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti riconoscendo
l’agevolazione economica in oggetto agli stranieri regolarmente soggiornanti
che avessero i requisiti prescritti dall’art. 1 co. 355 L. 232/16 come
integrato nel resto dal DPCM 17.2.17;

compensava per la metà le spese tra A.P.N. e L. e
gli enti resistenti e condannava INPS e la Presidenza del Consiglio dei
Ministri in solido al pagamento del residuo.

Il giudice accoglieva l’eccezione di incompetenza
territoriale del tribunale di Milano sollevata dalla Presidenza del Consiglio
dei Ministri osservando che ASGI aveva sede a Torino e che, secondo l’art. 28
D. Lgs 150/11, la competenza era del tribunale nel luogo in cui il ricorrente
ha il domicilio; respingeva l’istanza di sospensione del processo in attesa
della decisione della Corte di Giustizia atteso che la questione rimessa a tale
Corte riguardava un istituto diverso (assegno di natalità e di maternità) e
quindi non ricorrevano le condizioni di cui all’art. 295 cpc; respingeva
l’eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo a A.P.N. richiamando la
sentenza di questa Corte di Appello 617/2018; ravvisava la legittimazione ad
agire dell’interveniente L. alla luce di quanto previsto dagli artt. 2 e 4
della L. 67/2006; respingeva l’eccezione di carenza di giurisdizione sollevata
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in quanto, rispetto agli enti
convenuti, un comportamento discriminatorio poteva essere integrato anche
dall’emanazione di atti come il DPCM.

Nel merito riteneva privo di fondamento quanto
dedotto dalla ricorrente con riguardo al preteso contrasto del DPCM con l’art.
1 co. 355 L. 232/2016 rientrando la specificazione dei requisiti anche
soggettivi nella sfera di quanto demandato a esso dalla legge istitutiva del
beneficio mentre, esaminata la compatibilità o meno della disciplina introdotta
dal DPCM e dalla circolare Inps con l’ordinamento comunitario, riteneva la
sussistenza di una discriminazione per nazionalità a fronte del diverso
trattamento introdotto dagli atti in esame derivante dal possesso di un
determinato titolo di soggiorno e quindi in danno dei migranti regolarmente
presenti in Italia.

Inps (RG 1068/20) ha impugnato l’ordinanza per i
seguenti motivi:

1- non aver accolto l’istanza di sospensione del
giudizio o comunque di differimento dello stesso in attesa della pronuncia
della Corte di Giustizia Europea: Inps ripropone in questa fase analoga
richiesta ravvisando una condizione di sospensione necessaria del giudizio ex
art. 295 cpc;.

2- non aver accolto l’eccezione di inammissibilità
del ricorso ritenendo sussistente la legittimazione ad agire delle associazioni
ricorrenti, l’interesse ad agire delle stesse e la legittimazione passiva
dell’istituto. Osserva che nel caso di specie non si verte in materia di tutela
di diritti umani e di libertà fondamentali in quanto il “bonus asilo nido”
fuoriesce e non è collegato ai bisogni primari della personalità e che quindi
alcun valido riferimento può essere fatto all’art. 43 D.Lgs 286/1998.

In particolare rileva: (i) che non possono dirsi
soddisfatte le condizioni di cui agli artt. 4 e 4bis D. Lgs 215/2003 in quanto
tali norme presuppongono che vi sia un soggetto, persona fisica, direttamente
interessato dall’atto discriminatorio in nome e per conto o a sostegno del
quale le associazioni possono intervenire mentre nel caso di specie le
associazione sono le uniche parti attive del giudizio; (ii) che nessuna
legittimazione può essere rinvenuta sulla base del D.Lgs 215/2003 non
rientrando la prestazione in oggetto tra le prestazioni previdenziali, sociali
o di sicurezza sociale, o tra le prestazioni essenziali finalizzate alla
conservazione dell’integrità fisica o al sostentamento; (iii) che l’art. 3 co.
2 D. Lgs 215/03 precisa che “il presente decreto legislativo non riguarda le differenze
di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni
nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso
all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi
e degli apolidi nel territorio dello stato né qualsiasi trattamento, adottato
sulla base della legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti
soggetti”; (iv) che infine non ricorre la condizione per l’azione collettiva
stante la non individuabilità in modo diretto e immediato delle persone lese
dalla discriminazione. In punto a carenza di interesse ad agire delle
associazioni rileva che manca un interesse concreto e attuale all’azione
derivante da una lesione ravvisabile solo in capo al soggetto richiedente la prestazione

3- avere il giudice erratamente configurato come
discriminatorie le limitazioni soggettive previste dal DPCM e di riflesso dalla
circolare dell’Inps. Osserva che “la prestazione, così come concepita dal
legislatore, costituisce un bonus ovvero una sorta di “rimborso spesa”, diretto
a sostenere le famiglie mediante un ristoro delle spese sostenute, limitando
l’intervento nell’ambito del territorio nazionale. Lo strumento attraverso il
quale il legislatore ha ritenuto di dover realizzare lo scopo prefissato è
stato individuato, appunto, nella corresponsione di una somma di denaro
quantificata in base alla condizione economica del nucleo familiare di
appartenenza del genitore richiedente. Stante gli elementi costitutivi della
provvidenza sopra richiamati la medesima non rientra de plano né tra le
prestazioni poste a tutela della sicurezza sociale (ai sensi del regolamento
883) né tra quelle di assistenza sociale”.

Non trattandosi di una misura previdenziale o
assistenziale, essa rimane esclusa dal contesto della disciplina comunitaria
richiamata dal giudice e dalle relative pronunce giurisprudenziali. Inoltre
nella struttura e nella ratio dell’istituto de quo è immanente che la sua
erogazione venga disciplinata, in modo non irragionevole, in correlazione alla
presenza stabile del genitore richiedente sul territorio. In altri termini, la
prestazione, che non ha all’evidenza carattere di mezzo atto a rimediare a
situazioni di particolare urgenza o a particolari necessità relative a diritti
fondamentali della persona, posta la sua natura di rimborso e ristoro delle
spese affrontate dalla famiglia per il servizio asilo nido, può legittimamente
essere riconosciuta dal legislatore subordinatamente a condizioni e criteri
rispondenti a ragionevolezza come è avvenuto con il DPCM qui contestato che ha
indicato quale criterio necessario un collegamento territoriale duraturo nel
rispetto delle indicazioni della legge.

In conclusioni rileva che “la circolare censurata
appare certamente legittima e conforme al DPCM attuativo ed entrambi appaiono
comunque legittimi e coerenti non solo con la voluntas legis espressa dal
legislatore con la norma di cui all’art. 1, comma 355, della L. n. 232/2016, ma
anche con il fondamentale canone costituzionale di ragionevolezza sopra citato.
In sostanza e per quanto detto si ritiene che un’interpretazione della lettera
della norma, sulla base della ratio del beneficio in parola, richieda un
congruo radicamento del soggetto nella realtà economico-produttiva del paese
come correttamente previsto dal decreto attuativo che postula la necessità del
permesso di soggiorno di lungo periodo per i cittadini extra UE cui la
circolare INPS ha dato necessariamente esecuzione amministrativa”;

4- aver ritenuto di “rimuovere” la condotta
giudicata discriminatoria ordinando di cessare la condotta discriminatoria
attraverso l’estensione dell’agevolazione economica agli stranieri regolarmente
soggiornanti che abbiano gli ulteriori requisiti prescritti dall’art. 1 comma
335 L. 232/2016 come integrato dal DPCM 17/02/17. Osserva che pur essendo
consentito al giudice ordinario adito in sede di azione antidiscriminazione
l’adozione di provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti – e non già gli
atti – non può di certo ritenersi ammissibile una pronuncia giurisdizionale che
esorbiti dal potere assegnato al giudice ordinario, al quale non può certo
richiedersi, neppure ai fini che qui interessano, la rimozione e/o
l’annullamento dell’atto amministrativo “incriminato” né l’adozione di un nuovo
provvedimento con contenuto giudizialmente già predeterminato.

Chiede pertanto la riforma dell’ordinanza con il
rigetto delle domande avanzate nel ricorso di primo grado.

Nel giudizio si è costituita la Presidenza del
Consiglio dei Ministri proponendo appello incidentale per i seguenti motivi:

1- aver respinto l’eccezione di difetto di
giurisdizione del giudice ordinario affermando che “un comportamento
discriminatorio può essere integrato anche dall’emanazione di atti come il DPCM
per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la circolare per Inps”: osserva
che l’art. 44 D. Lgs 286/1998 in base al quale le associazioni agiscono
riconosce la giurisdizione del GO solo nel caso in cui l’amministrazione o un
privato pongano in essere esclusivamente comportamenti discriminatori e non atti
normativi o provvedimenti; inoltre nel caso di specie nessun diritto soggettivo
viene in rilievo essendo ravvisabili solo interessi legittimi dove la pretesa
del privato può essere soddisfatta solo nei limiti in cui l’interesse pubblico
attribuito alle cure dell’amministrazione lo consente.

2- aver ritenuto ammissibile l’intervento adesivo di
L.: osserva che questa non era portatrice di un proprio interesse
giuridicamente rilevante non essendo state esplicitate le conseguenze dirette o
indirette del giudicato che l’intervento aveva l’obiettivo di evitare e che la
pretesa di evitare che persone disabili straniere potessero essere escluse dal
beneficio in esame è da ritenersi un interesse di mero fatto.

3- aver ritenuto la legittimazione attiva delle
associazioni ASGI, L. e A.P.N.: osserva che L. è legittimata ad agire
unicamente in relazione alle discriminazioni di cui ai co. 2 e 3 L. 67/2006
ovvero quelle inerenti alla discriminazione delle persone con disabilità e tale
non è il caso in esame; inoltre le associazioni non hanno dedotto con
sufficiente chiarezza gli elementi minimi per apprezzare la natura collettiva
dei comportamenti discriminatori denunciati;

4- non avere accolto l’eccezione di inammissibilità
del ricorso per tardività affermando che il DPCM, contenendo una disciplina
generale, pur contestata per aver introdotto una discriminazione collettiva,
non era soggetto al termine di impugnazione di 60 giorni: osserva al contrario
che il DPCM in questione aveva un contenuto non solo generale e astratto come i
provvedimenti normativi ma si rivolgeva a una categoria determinata di soggetti
di cui ledeva direttamente gli interessi per cui avrebbe dovuto essere
impugnato entro il termine di decadenza di 60 giorni,

5- aver ritenuto il potere giurisdizionale in ordine
alla disapplicazione del DPCM 17.2.17: osserva che nel caso in esame non si
trattava di una mera disapplicazione incidentale in quanto i ricorrenti
pretendevano che il giudice ordinario operasse una disapplicazione principale
cosicché l’atto, considerato fonte diretta della lesione, fosse posto nel
nulla; richiesta non accoglibile in quanto al GO non è attribuita la cognizione
di controversie aventi come oggetto principale la legittimità di provvedimenti
amministrativi;

6- aver ravvisato una discriminazione per
nazionalità non esistente atteso che si trattava di un incentivo posto a
sostegno della famiglia e che esigenze di bilancio, di contenimento della spesa
pubblica e di selezione di soggetti più legati al territorio nazionale come i
soggiornanti di lungo periodo rappresentavano giustificazioni idonee a
sorreggere la scelta legislativa effettuata in un sistema in cui le risorse
pubbliche sono sempre più limitate e considerato che il requisito del
radicamento territoriale poteva fungere da ragionevole criterio selettivo in
relazione a provvidenze, quale il bonus per la frequenza di asili nido o per
l’assistenza di figlio disabile, non correlate a situazioni di bisogno o di
disagio e quindi dirette a soddisfare finalità eccedenti il nucleo intangibile
dei diritti fondamentali della persona;

7- aver ravvisato la discriminazione delle persone
con disabilità atteso che il beneficio viene erogato non solo a favore dei
bambini che frequentano l’asilo e sono disabili ma anche in favore dei minori
che, a causa della loro disabilità grave, non possono frequentare l’asilo e
necessitano di assistenza domiciliare.

Conclude quindi chiedendo di dichiarare il difetto
di giurisdizione e di legittimazione attiva delle associazioni e di rigettare
nel merito le domande avversarie ovvero, in subordine, di circoscrivere i
soggetti beneficiari al soli stranieri titolari di permesso di lavoro e di
carta blu.

Si sono costituite altresì A.P.N. e L..

A.P.N. chiede la conferma della sentenza opponendosi
a tutti i motivi proposti da Inps ed eccependo l’inammissibilità e tardività
dell’appello incidentale della Presidenza del Consiglio. Su questo secondo
punto osserva che la statuizione del giudice riguardava due atti distinti: il
DPCM 17.2.2017 e la Circolare INPS 27/2020; che, per quanto i due atti non
fossero stati espressamente richiamati nel dispositivo, era evidente che
l’ordine si riferisse agli atti di competenza di ciascuno, così come
l’accertamento che ne era il presupposto; che l’ordine e l’accertamento
riguardanti il DPCM non erano stati impugnati tempestivamente dalla Presidenza
del Consiglio dei Ministri (unica legittimata a farlo) che lo ha fatto solo con
impugnazione incidentale tardiva depositata il 19.1.2021; che pertanto
l’interesse all’impugnazione del DPCM derivava dalla sua originaria soccombenza
e non dalla intervenuta impugnazione dell’INPS e che essendo decorso il termine
di cui all’art. 702 quater cpc, la decisione relativa al carattere
discriminatorio del DPCM (in parte qua) e all’ordine di rimozione deve
ritenersi definitiva e passata in giudicato per quanto riguardava la sua
posizione.

L. ribadisce la propria legittimazione a intervenire
e il proprio interesse ad agire. Osserva che la limitazione del godimento del
beneficio del c.d. bonus asilo nido ai soli stranieri lungo soggiornanti doveva
essere considerata anche una discriminazione inerente la disabilità incidente
sulla categoria di soggetti da lei tutelati e sottolinea come negare il bonus
asilo nido alle famiglie straniere regolarmente soggiornanti ma prive del
permesso di lungo periodo oltre a colpire in maniera negativa direttamente
tutti i bambini stranieri arrivati da poco tempo in Italia, mette in una
condizione di particolare svantaggio soprattutto i bambini stranieri con
disabilità, i quali subiscono gli effetti maggiormente discriminanti dal non
poter usufruire di questo contributo a causa della loro notoria condizione di
maggiore fragilità.

Chiede pertanto il rigetto dell’appello di Inps e
dell’appello incidentale di Presidenza del Consiglio.

Con un separato ricorso (RG 1145/20) ASGI ha
impugnato l’ordinanza censurando la dichiarata incompetenza territoriale nei
suoi confronti. Osserva che le due associazioni (ASGI e ANP) non avevano
proposto due diverse domande connesse per l’oggetto e per il titolo, ma avevano
proposto, congiuntamente, un’unica domanda consistente nell’accertamento di un
unico “comportamento amministrativo”, posto in essere dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri con il DPCM 17.2.2017 e dall’INPS con la circolare n. 27
del 14.2.2020 in violazione dei diritti di un medesimo soggetto (l’insieme dei
cittadini stranieri privi di un determinato titolo di soggiorno) e rileva che
la competenza territoriale ex art. 28 co. 2 D.Lgs 150/11, in caso di azione
collettiva, va ritenuta derogabile quanto meno in forza di un’interpretazione
costituzionalmente e comunitariamente orientata proponendo in subordine
eccezione di legittimità costituzionale.

Nel merito l’Associazione richiama quanto già
esposto nel ricorso di primo grado in punto a illegittimità della limitazione
in base al titolo di soggiorno per contrasto con la norma istitutiva del cd.
“bonus asili nido” che ne prevedeva l’erogazione in relazione ai “nati a
decorrere dal 1.1.2006”, senza indicare alcun requisito connesso alla cittadinanza
o al titolo di soggiorno e demandando al DPCM l’adozione delle “disposizioni
necessarie per l’attuazione” tra le quali tuttavia non potevano ricomprendersi
le limitazioni poi introdotte.

Ribadisce altresì il contrasto con la direttiva
2011/98 UE e con l’art. 14 direttiva 2009/50 UE nonché la violazione della
Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità

Chiede la riforma della sentenza e l’accoglimento
delle domande di cui al ricorso di primo grado.

Ha resistito la Presidenza del Consiglio dei
Ministri riproponendo con appello incidentale i motivi già esposti nel giudizio
di appello introdotto da Inps e insistendo sull’incompetenza territoriale del
giudice adito con riferimento alla censura sollevata da ASGI. Osserva che
l’art. 28 D. Lgs 150/2011 prevede la competenza territoriale del luogo del
domicilio dell’attore, competenza da ritenersi funzionale e inderogabile come
osservato dalla Suprema Corte nel caso di azioni collettive (Cass. 2441/13) e
che il testo normativo non prevede alcuna distinzione tra azioni individuali e
collettive.

Si è costituita altresì Inps riproponendo le
medesime osservazioni già svolte nel suo ricorso in appello.

All’udienza, riuniti i giudizi di appello (RG
1068/20 e RG 1145/20) essendo stati proposti contro la medesima ordinanza, la
causa era discussa e decisa come da dispositivo riportato in calce.

A) L’appello proposto da Inps non può trovare
accoglimento per le ragioni che seguono.

Sospensione del giudizio

Deve preliminarmente essere respinta l’istanza di
sospensione del giudizio ( già correttamente respinta in primo grado e
riproposta in questa fase) in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia
Europea non essendo ravvisabili le condizioni di cui all’art. 295 cpc. Alla
Corte di Giustizia è stato chiesto di chiarire se la normativa italiana che
subordina alla titolarità del permesso per soggiornanti UE di lungo periodo la
concessione agli stranieri degli assegni di natalità e di maternità era
compatibile con l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE che
prevede il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e con l’art. 12
paragrafo 1 lett.e) della direttiva 2011/98/UE sulla parità di trattamento tra
cittadini di paesi terzi e cittadini degli stati membri.

Non si ravvisa tra questo contenzioso e quello in
oggetto alcuna pregiudizialità tale per cui debba farsi dipendere la
definizione di questa controversia dalla decisione dei giudizi pendenti avanti
alla Corte di Giustizia attinenti a due distinte provvidenze.

Legittimazione e interesse ad agire di ASGI, A.P.N.
e L.

Vanno altresì respinte le censure sollevate in punto
a sussistenza della legittimazione e dell’interesse ad agire delle Associazioni
(ASGI, A.P.N. e L.)

Non pare dubitabile che la discriminazione lamentata
sia una discriminazione per nazionalità considerato che la differenziazione di
trattamento che le associazioni contestano è basata sul titolo di soggiorno e
quindi sulla nazionalità.

Considerato che la maggior parte dei migranti
presenti in Italia sono cittadini non comunitari appare evidente che il
criterio della nazionalità, apparentemente neutro, viene di fatto ad assumere
un connotato discriminatorio determinando uno svantaggio per tali soggetti.

Ciò posto, in punto a legittimazione ad agire delle
associazioni il Collegio richiama i precedenti di questa Corte (tra cui nr.
110/15, 617/18) il cui orientamento ha trovato conferma nelle sentenze della
Corte di Cassazione nr.11165/17, 11166/17 e 28745/2019. Le motivazioni svolte
da Inps invero non appaiono idonee a intaccare la convincente elaborazione
svolta nei precedenti citati.

In particolare con la sentenza 28745/2019 la Suprema
Corte ha ribadito che: “gli enti e associazioni iscritti nell’elenco di cui
all’art 5 D. Lgs 215/2003 hanno legittimazione attiva non solo nelle controversie
in materia di discriminazione basate sulla etnia e razza ma anche in quelle
basate sulla nazionalità. La legittimazione degli enti collettivi in materia di
discriminazione costituisce infatti una regola generale, funzionale
all’esigenza di apprestare la tutela attraverso un rimedio di natura inibitoria
a una serie indeterminata di soggetti per contrastare il rischio di una lesione
avente natura diffusiva e che perciò deve essere per quanto possibile prevenuta
e circoscritta nella sua portata offensiva; conseguentemente non sarebbe
ammissibile un’interpretazione delle norme che per il solo fattore della
nazionalità escluda tale legittimazione che è invece prevista per tutti gli
altri fattori”.

Costituirebbe invero una vistosa eccezione il
mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo a un ente
esponenziale in caso di discriminazione collettiva per il fattore nazionalità.
Un’eccezione che non è giustificabile, alla luce del fatto che esso risulta
fattore discriminatorio parimenti vietato in ogni campo della vita sociale
(lavorativa ed extralavorativa) ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione.

Né l’esclusione prevista dall’art. 3 co. 2 D.Lgs 215
citato, ribadita da Inps che sostiene che la legittimazione processuale a
esperire l’azione collettiva costituirebbe un’eccezione consentita solo per le
fattispecie tassativamente previste dall’ordinamento e non sarebbe quindi
suscettibile di interpretazione analogica, può costituire argomento
ostativo:”si tratta di una disposizione di carattere generale diretta a
delimitare, sulla base della previsione della direttiva da cui deriva (art.3
co.2 Direttiva 2000/43/CE), il campo di applicazione dell’intervento normativo
allo scopo di riservare allo Stato la regolazione sostanziale del trattamento
dello straniero. Essa però, ad avviso del collegio, non interferisce in alcun
modo con le regole processuali in materia di discriminazioni di cui qui si
discorre, anche a fronte delle specifiche disposizioni presenti nel medesimo
testo di legge. Le “differenze di trattamento basate sulla
nazionalità” di cui si discute alla luce della disposizione in oggetto,
presente nel D. Lgs.215/2003 non potrebbero comunque giustificare trattamenti
illeciti e oscurare le esigenze di protezione nascenti da discriminazioni collettive
per nazionalità (già disciplinate dall’ordinamento), che lo stesso testo
normativo riconosce esplicitamente e alle quali intende volgere la tutela
processuale ivi regolata.”

Le associazioni in questione, in base all’art. 5
dello stesso D. Lgs 215, sono quelle iscritte nell’elenco approvato con decreto
ministeriale (previsto appunto dall’art.5 del d.lgs. 215/2003) per le finalità
programmatiche che le contraddistingue; tali associazioni, in base all’art. 52
del DPR 349/1999, devono essere qualificate dallo svolgimento di “attività
a favore degli stranieri immigrati” e dallo “svolgimento di attività
per favorire l’integrazione sociale degli stranieri” (non quindi
testualmente in relazione alla razza o etnia).

Affermare che esse possano agire in giudizio solo
per le discriminazioni per razza o etnia e non per il fattore della nazionalità
che serve a qualificarle, non è solo palesemente illogico, ma introdurrebbe un
ulteriore difetto di coordinamento tra norme di diverso livello, in quanto
porterebbe a ipotizzare che la legittimazione ad agire per un certo tipo di
discriminazioni (razza o etnia) sia stata conferita a enti che si occupano di
un fattore di discriminazione che viene ritenuto dall’ordinamento del tutto
differente, di diverso contenuto e rilevanza (come appunto la nazionalità
straniera).

Quanto poi alla censura mossa all’ordinanza nella
parte in cui ha ritenuto sussistente il presupposto di cui all’art. 3 co. 3 D.
Lgs 215/2003 il collegio osserva che destinatari della circolare Inps in
questione sono indistintamente tutti gli stranieri che possono beneficiare del
bonus in esame nel momento in cui si trovano nelle condizioni previste dalla
legge per poterne usufruire. L’azione collettiva svolta dalle associazioni ha
come oggetto la rimozione a monte di un atto “potenzialmente discriminatorio”
nei confronti di soggetti difficilmente identificabili, come tale pertanto essa
risponde perfettamente alla ratio di cui alla norma sopra indicata.

Per quanto poi attiene la specifica legittimazione a
intervenire nel giudizio di L., censurata dall’appellante, si osserva che si
tratta di associazione che promuove e difende i diritti delle persone con
disabilità e opera per rimuovere ogni ostacolo che impedisce la piena
inclusione sociale e il pieno sviluppo umano delle persone con disabilità in
attuazione del dettato dell’articolo 3 della Costituzione e della Convenzione
delle Nazioni Unite dei diritti delle persone con disabilità, ratificata dallo
Stato Italiano con Legge n. 18 del 3/3/2009.

La sua legittimazione ad agire si fonda
sull’espressa legittimazione riconosciuta agli Enti iscritti nell’apposito
elenco tenuto dal Ministero alla luce della previsione dell’art. 4 L. 67/2006
che stabilisce “1. Sono altresì legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 3
in forza di delega rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata
autenticata a pena di nullità, in nome e per conto del soggetto passivo della
discriminazione, le associazioni e gli enti individuati con decreto del
Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e
delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità
dell’organizzazione. 2. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 possono
intervenire nei giudizi per danno subìto dalle persone con disabilità e
ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti
lesivi degli interessi delle persone stesse. 3. Le associazioni e gli enti di
cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire, in relazione ai comportamenti
discriminatori di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 2, quando questi assumano
carattere collettivo”.

Quanto all’interesse a intervenire esso va ravvisato
nella rilevanza che le limitazioni introdotte dai provvedimenti in esame sono
in grado determinare anche nei confronti di famiglie straniere con bambini con
disabilità che, solo in ragione della mancanza di uno specifico titolo di
soggiorno, verrebbero a sopportare un ulteriore ingiustificato trattamento
differenziato.

Legittimazione passiva di Inps

Va respinta la censura mossa in ordine all’eccepito
difetto di legittimazione passiva di Inps.

La tesi secondo la quale l’istituto non avrebbe
legittimazione passiva in quanto vincolato a rispettare norme di legge
esistenti non è condivisibile. Va ribadito che allorché queste violano, con la
loro applicazione, l’obbligo di parità di trattamento fissato dall’Unione
Europea, viene posto in essere un comportamento discriminatorio di cui viene
chiamato a rispondere l’agente.

La tesi sostenuta dall’istituto è contraddetta
peraltro dal fatto che nel caso di specie nella circolare in oggetto il diritto
al bonus è stato esteso ai titolari di protezione internazionale e ai familiari
di cittadini italiani che il DPCM non aveva considerato; scelta che evidenzia
la consapevolezza della necessità di dover intervenire al fine evitare un
diverso ingiustificato trattamento tra due categorie aventi diritto a un
medesimo trattamento.

Il fatto che lo stesso istituto non abbia ritenuto
invece di estendere il beneficio agli stranieri non in possesso di permesso di
soggiorno UE è conseguente a una sua specifica valutazione e non rileva con una
carenza di legittimazione passiva

Contenuto discriminatorio della circolare 27/2020

L’art.1 co. 355 L. 232/16 introduce una prestazione
economica a sostegno del reddito delle famiglie per il pagamento di rette
legate alla frequenza di asili nido pubblici e privati e a sostegno di forme di
assistenza familiare in favore di bambini con meno di tre anni affetti da gravi
patologie croniche rimandando a un DPCM di stabilire, entro trenta giorni dalla
data di entrata in vigore della legge, le disposizioni necessarie per
l’attuazione del presente comma

Con DPCM del 17/02/2017 si è stabilito che:

“1. Ai fini del presente decreto si intende per
«genitore richiedente»: il genitore in possesso dei requisiti di cui al comma
2, che, relativamente al beneficio di cui all’art. 3, sostiene l’onere della
retta e che, relativamente al beneficio di cui all’art. 4, sia convivente con
il figlio.

2. Il genitore richiedente deve essere in possesso
dei seguenti requisiti:

a) cittadinanza italiana, oppure di uno Stato membro
dell’Unione europea oppure, in caso di cittadino di Stato extracomunitario,
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni;

b) residenza in Italia”.

Infine con la circolare Inps n. 27/2020 è stata
confermata la necessità per gli stranieri del permesso di soggiorno UE per
soggiornanti di lungo periodo, pur estendendo l’ambito di applicazione del
beneficio oggetto di causa ai rifugiati politici e a coloro che godono di
protezione sussidiaria.

Sostiene Inps che il bonus in esame si configura
come una sorta di “rimborso spesa diretto a sostenere le famiglie mediante un
ristoro delle spese sostenute, limitando l’intervento al territorio nazionale”
e che esso è individuato nella corresponsione di una somma di denaro
quantificata in base alla condizione economica del nucleo familiare di
appartenenza del genitore richiedente con la conseguenza che esso non rientra
né tra le prestazioni poste a tutela della sicurezza sociale ai sensi del
regolamento 883/2004 né di quelle di assistenza sociale.

La tesi non è condivisibile

La Direttiva n. 2011/98/UE, all’art. 12, prevede
che:

“i lavoratori di cui al paragrafo 1, lettere b) e c)
beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro
in cui soggiornano per quanto concerne: (…) c) i settori della sicurezza
sociale come definiti dal regolamento CE 883/2004”.

Il citato paragrafo 1, alle lettere b) e c),
menziona:

“b) i cittadini dei paesi terzi che sono stati
ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del
diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare (…); c) i
cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini
lavorativi”.

Il Regolamento 883/2004, al quale l’art. 12 sopra
riportato fa rinvio per la definizione dei settori della “sicurezza sociale”,
contempla quelli “contributivi e non contributivi” compresi nell’elenco di cui
al primo comma del medesimo art. 3, che indica alla lettera j) le “prestazioni
familiari”.

L’art. 1 del Regolamento definisce quali prestazioni
familiari “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i
carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e
degli assegni di nascita o di adozione menzionati nell’allegato 1”, dove
l’espressione “compensare i carichi familiari” deve essere interpretata,
secondo quanto affermato dalla CGUE, con riferimento a un contributo pubblico
al bilancio familiare destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal
mantenimento dei figli (cfr. CGUE 19.9.13 causa C-216/12 e C-217/12).

Alla luce delle citate disposizioni, è certamente
possibile qualificare la prestazione in esame come rientrante nell’ambito delle
prestazioni familiari atteso che presuppone l’esistenza di un nucleo familiare,
composto quanto meno da un genitore e da un minore di età inferiore a 3 anni,
interviene nei primi tre anni di vita del bambino quando il bilancio familiare
subisce un evidente aggravamento, è correlata all’ ISEE familiare che misura la
ricchezza del nucleo familiare e può essere chiesta indifferentemente dalla
madre o dal padre riguardando la famiglia nel suo insieme.

Né può assumere alcun rilievo il fatto che la
prestazione faccia riferimento a una specifica voce di costo quale è
l’iscrizione all’asilo nido

Peraltro già in passato la CGUE, con sentenza del
21.6.17 causa C-449/16 (così come nella sentenza del 24.10.2013 causa C-177/12)
aveva affermato che la qualificazione della singola prestazione ai fini in
questione deve operarsi avendo riguardo ai relativi “elementi costitutivi”
quali “le sue finalità” e i “presupposti per la sua attribuzione e che
prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a
determinati criteri obiettivi riguardanti segnatamente le loro dimensioni, il
loro reddito e le loro risorse di capitale prescindendo da ogni valutazione
individuale e discrezionale delle esigenze personali e destinate a compensare i
carichi familiari devono essere considerate prestazioni di sicurezza sociale”.

Del resto lo stesso istituto appellante osserva che
il bonus in oggetto è “misura meramente finalizzata a sostenere le famiglie”
che usufruiscono dell’asilo nido o che si attivano presso il loro domicilio a
fronte di determinate fragilità.

La prestazione qui in esame rientra sicuramente in
tale categoria perché è erogata sulla base di criteri predeterminati e dunque
ricade nell’ambito di applicazione del Regolamento 883/04 e, conseguentemente,
dell’art. 12 direttiva 2011/98.

La norma sovranazionale, laddove prevede che i
lavoratori di cui al paragrafo 1 lett. b) e c) (quale pacificamente è l’odierna
appellante) “beneficiano dello stesso trattamento” riservato ai cittadini dello
Stato membro in cui soggiornano, appare all’evidenza chiara e incondizionata,
risultando pertanto dotata di efficacia diretta e di portata auto esecutiva nel
senso che trova ingresso nell’ordinamento interno senza necessità di alcuna
norma di recepimento e si colloca, per la gerarchia delle fonti normative, al
di sopra della legislazione nazionale imponendone la disapplicazione in caso di
contrasto. Ne consegue che la disposizione nazionale la quale ponga lo
straniero lavoratore in una posizione di svantaggio rispetto al cittadino
italiano riveste un’illegittima portata discriminatoria.

Il contenuto discriminatorio della circolare Inps in
esame emerge comunque anche sotto il profilo del contrasto con la norma di
legge istitutiva.

L’art. 1 comma 355 L.232/2016 ha previsto
l’erogazione del bonus a favore dei “nati a decorrere dal 1.1.2006”, senza
indicare alcun requisito connesso alla cittadinanza o al titolo di soggiorno e
demandando al DPCM l’adozione delle “disposizioni necessarie per l’attuazione”.

L’art. 1 del DPCM 17.2.2017 ha invece introdotto la
limitazione ai soli titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo e la
successiva circolare INPS 27/2020 ha confermato detta limitazione, ammettendo
tuttavia alla prestazione, in difformità rispetto al DPCM, anche i familiari di
cittadini UE e i titolari di protezione internazionale.

Sia il DPCM sia la circolare si pongono pertanto in
conflitto con la disposizione legislativa atteso che la previsione del
legislatore era nel senso di una prestazione riconosciuta a tutti i residenti,
mentre il DPCM e la circolare Inps hanno ristretto la platea dei beneficiari
del bonus, derogando alla disposizione di legge.

La delega era contenuta nei limiti di ciò che era
“necessario per l’attuazione” della norma di legge con evidente riferimento a
modalità concrete di esecuzione ma con altrettanto evidente esclusione della
possibilità di introdurre limiti in ragione della cittadinanza o del titolo di
soggiorno.

Così facendo il DPCM e la circolare Inps si sono
arrogati il potere di imporre in sede amministrativa condizioni o requisiti che
la legge non ha né previsto né disciplinato, di introdurre modifiche a una
norma di fonte primaria e di restringere, di conseguenza, la platea delle
destinatarie del beneficio.

Nello specifico l’illegittimità della condotta
dell’Istituto è ravvisabile proprio nell’aver voluto emettere circolari che
attribuiscono alla legge un contenuto diverso da quello espresso dal
legislatore.

Così facendo Inps non solo con una propria circolare
ha derogato alla norma di legge disponendo diversamente da quanto prescritto da
quest’ultima ma lo ha fatto introducendo disposizioni evidentemente
discriminatorie per nazionalità in quanto, ancorando la possibilità di ottenere
il beneficio a una condizione quale il possesso del permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo, ha introdotto una differenza di trattamento
non giustificata da alcuna ragionevole e oggettiva finalità.

Sostiene infine l’Istituto che dal riferimento
all’imponibile fiscale è possibile evincere, implicitamente, la volontà del
legislatore di collegare il riconoscimento della provvidenza al radicamento dei
destinatari nella comunità produttiva statale con un minimo di stabilità.

Premesso che tale interpretazione non appare
sorretta da alcun elemento concreto avendo in realtà il legislatore scelto di
non circoscrivere in alcun modo la platea dei destinatari, anche volendo
ritenere che sia stato introdotto il requisito del “radicamento sul territorio”
in quanto il destinatario deve essere soggetto fiscale in Italia, il beneficio
non può che essere riconosciuto a tutti i nuclei familiari che, in quanto
residenti sul territorio nazionale, sono tenuti agli obblighi fiscali
indipendentemente dal possesso di un permesso di soggiorno ordinario o di un
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

La tesi sostenuta da Inps peraltro si scontra con il
fatto che, stando alla circolare, il bonus verrebbe comunque riconosciuto ai
cittadini non comunitari in possesso dello status di rifugiato politico e
protezione sussidiaria benché a essi non sia consentito richiedere il permesso
UE per lungo periodo e benché nei loro confronti non pare potersi ravvisare un
pari radicamento sul territorio.

La natura discriminatoria della circolare in esame
emerge anche in relazione alla posizione di stranieri con minori di tre anni
affetti da disabilità, come evidenziato da L..

Si osserva che la prestazione in oggetto,
normalmente corrisposta a fronte del pagamento della retta per il nido, può
essere corrisposta anche in assenza di questa, quale forma di “supporto presso
la propria abitazione in favore dei bambini al di sotto dei tre anni affetti da
gravi patologie croniche”. La previsione quindi è estesa allorquando la
disabilità comporti l’impossibilità del bambino a frequentare l’asilo nido così
da ostacolarne la “piena ed effettiva partecipazione nella società su una base
di uguaglianza con gli altri” (come affermato all’art. 1 della Convenzione ONU
sui diritti delle persone con disabilità – ratificata dall’Italia con L.
1/2009).

Rilevato che l’art. 3 della citata Convenzione vieta
ogni discriminazione in danno del disabile, mentre l’art. 28 impone agli stati
aderenti di garantire “i tipi di assistenza per i bisogni derivanti dalla disabilità
che siano appropriati e a costi accessibili”, nonché di garantire “l’accesso
all’aiuto pubblico per sostenere le spese collegate alle disabilità…” emerge
che l’esclusione di determinate famiglie di disabili, pur regolarmente
residenti, solo perché prive di un determinato titolo di soggiorno costituisce
un’ingiustificata disparità di trattamento e dunque discriminazione;
discriminazione in questo caso duplice in quanto relativa sia alla nazionalità
sia alla disabilità essendo escluse tutte e solo famiglie con figli disabili.

In conclusione, l’individuazione dei requisiti fatta
da Inps va qualificata come discriminatoria escludendo dal beneficio, per
ragioni di nazionalità e senza alcuna ragionevole motivazione, una parte dei
cittadini stranieri residenti in Italia per i quali ricorrono le condizioni
previste dall’art. 1, comma 355 L. 232/2016.

La stessa si configura come discriminazione
indiretta così come riportato dall’art. 43 del D. Lgs. 286/98 secondo il quale
“costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o
indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza
basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le
convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di
distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio,
in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in
campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della
vita pubblica”.

In ogni caso compie un atto di discriminazione: “…
c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti
di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla
formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero
regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di
straniero o di appartenente a una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità,…”.

Modalità di rimozione della condotta discriminatoria

Va respinto altresì l’ultimo motivo di censura in
punto a modalità fissate dal giudice per la cessazione della condotta ritenuta
discriminatoria atteso che, ai sensi dell’art. 28 D, Lgs 150/11 il giudice deve
intervenite adottando ogni provvedimento utile alla rimozione della
discriminazione e al ripristino del diritto; cosa che nel caso in esame non
poteva che essere soddisfatta riconoscendo l’agevolazione economica agli
stranieri regolarmente soggiornanti, che abbiano gli ulteriori requisiti
prescritti.

B) In relazione agli appelli incidentali proposti
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri si osserva quanto segue.

Va respinta l’eccezione di inammissibilità
dell’appello incidentale proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri
nell’ambito del giudizio apertosi a seguito dell’appello avanzato da Inps.

Come ripetutamente affermato dalla Corte di
Cassazione l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela
della reale utilità della parte, ove l’impugnazione principale metta in
discussione l’assetto di interessi derivanti dalla sentenza cui la parte non
impugnante aveva prestato acquiescenza, atteso che l’interesse a impugnare
sorge, anche nelle cause scindibili, dall’eventualità che l’accoglimento
dell’impugnazione principale modifichi tale assetto giuridico. (Cass. n.
23396/2015, n.1879/2018, n.14596/2020, n 25285/2020).

Nel caso di specie è vero che l’ordinanza impugnata
si pronunciava su due atti distinti, il DPCM 17.2.17 e la circolare Inps nr.
27/2020 e che il giudice dichiarava il carattere discriminatorio della condotta
posta in essere da ciascun resistente ordinando a ciascun soggetto di cessare
la condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti, ciascuno per quanto di
sua competenza. Ma è indubbio che con il suo appello Inps ha rimesso in discussione
l’intero provvedimento e che l’impugnazione incidentale della Presidenza del
Consiglio pur riguardando un capo della decisione diverso da quello oggetto del
gravame principale è strettamente connessa a quest’ultimo con la conseguenza
che la decisione su di esso viene direttamente a incidere altresì sul DPCM che
è l’atto prodromico sulla base del quale era emessa la circolare INPS.

Ciò posto, l’appello incidentale della Presidenza
del Consiglio va accolto nella parte in cui censura il rigetto dell’eccezione
di carenza di giurisdizione del GO sollevata in primo grado.

Il DPCM 17.2.17 invero è un atto normativo
regolamentare con un contenuto generale e astratto rispetto al quale il giudice
ordinario non ha il potere di disporre direttamente il suo annullamento o di
ordinarne la modifica indicandone il contenuto. Nel caso di specie gli
originari ricorrenti non chiedevano al giudice di operare una disapplicazione
dell’atto amministrativo ritenuto illegittimo ma di accertarne la illegittimità
in quanto discriminatorio e di ordinare alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri di modificarne il contenuto nei termini indicati nell’ordinanza così
da garantire l’accesso alla prestazione, a parità di condizioni con i cittadini
italiani, a tutti i cittadini stranieri regolarmene soggiornanti.

Sotto questo profilo va pertanto ritenuta la carenza
di giurisdizione rimanendo di conseguenza assorbite tutte le ulteriori censure
sollevate dalla Presidenza del Consiglio.

C) In relazione all’appello promosso da ASGI deve trovare
accoglimento la censura proposta in punto a incompetenza territoriale.

Non appare condivisibile la tesi svolta
nell’ordinanza impugnata nella parte in cui viene escluso che la competenza
territoriale in esame possa essere derogata operando un’analogia con ipotesi di
litisconsorzio facoltativo attivo quale quella di più lavoratori che agiscono
davanti al medesimo giudice per ottenere un determinato trattamento
pensionistico.

Come ben osservato dall’appellante infatti le
situazioni non sono sovrapponibili.

In questo secondo caso i diversi lavoratori
richiedono ciascuno per sé un diverso “bene della vita” e prospettano la
possibilità del simultaneus processus stante una connessione tra le cause di
ciascuno di essi “per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono”; la
decisione invocata tuttavia, anche se basata sulla soluzione della medesima
questione di diritto, attribuirà a ciascun lavoratore il trattamento specifico
da lui richiesto.

Nel caso in esame invece le due associazioni (A.P.N.
e ASGI) non hanno proposto due diverse domande connesse per l’oggetto e per il
titolo, ma hanno proposto, congiuntamente, un’unica domanda consistente
nell’accertamento di un unico comportamento (la limitazione all’accesso del
bonus asilo nido prevista dal DPCM 17.2.2017 e dalla circolare INPS 27/2020)
posto in essere in violazione dei diritti di parità previsti dal diritto
nazionale e dal diritto dell’UE di un medesimo soggetto (l’insieme dei
cittadini privi di un determinato titolo di soggiorno).

L’art. 28 comma 2 d.lgs. n. 150/2011 introduce un
foro esclusivo che è tuttavia derogabile atteso che le ipotesi di
inderogabilità sono espressamente previste dalla legge.

Peraltro la derogabilità del foro risponde alla
volontà del legislatore di favorire il ricorrente discriminato così da
consentirgli di agire nel luogo per lui più accessibile.

La connessione oggettiva consente di realizzare il
simultaneus processus a condizione che venga in considerazione una competenza
territoriale derogabile ma l’art. 33 c.p.c sembra limitare gli effetti
derogativi della connessione alle sole ipotesi di «cause proposte contro più
persone».

Come osservato nell’ordinanza del 18.7.16 del
Tribunale di Brescia (confermata dalla Corte di Appello di Brescia con sentenza
337/19), che il collegio richiama condividendone lo sviluppo, “se la
disposizione (art 28 D. Lgs 150/2011) fosse interpretata alla lettera, nel caso
di specie si avrebbe una proliferazione di cause – aventi il medesimo oggetto –
in tribunali diversi, in ragione dell’impossibilità di cumulare i giudizi in
presenza di un litisconsorzio attivo.

La soluzione contrasta con evidenti ragioni di
economia processuale e favorisce possibili conflitti di giudicati sulla
medesima questione sostanziale.

Trattandosi di diritti fondamentali – il principio
di uguaglianza è sancito dall’art. 3 Cost. e trova riscontro nell’art. 14 CEDU –
l’esigenza di evitare che la stessa condotta sia ritenuta

discriminatoria da un giudice e legittima da un
altro è massima.

È allora ragionevole ritenere che, in presenza di
una connessione oggettiva, più attori possano agire nei confronti del medesimo
soggetto autore della discriminazione, selezionando, quale foro, quello del
domicilio di uno dei ricorrenti”.

Tanto più laddove, come nel caso in esame, la
connessione che consente il simultaneus processus, non è impropria, per
identità di questioni, bensì propria, perché la lesione lamentata dalle
associazioni discende da una condotta unitaria.

La situazione appare del tutto assimilabile a quella
in tema di foro del consumatore dove la norma regolante la competenza
territoriale è stata dettata dall’intento di favorire la proposizione di azioni
in forma collettiva finalizzate a una concentrazione di controversie
individuali davanti a un unico giudice allo scopo di realizzare economia
processuale e conformità di giudicato.

Anche in questo caso l’affermazione della
derogabilità della competenza in caso di pluralità di associazioni è
finalizzata a una concentrazione di controversie individuali con identica causa
petendi e petitum davanti a un unico giudice allo scopo di realizzare economia
processuale e conformità di giudicato.

In tal senso non appare convincente la sentenza nr.
24419/13 della Corte di Cassazione (richiamata dall’Avvocatura dello Stato) ove
pur ribadendo che la derogabilità della competenza territoriale in tema di foro
del consumatore “è stata dettata da casi di proposizione dell’azione in forma
collettiva finalizzata a una concentrazione delle controversie individuali
davanti a un unico giudice allo scopo di realizzare economia processuale e
conformità del giudicato”, non viene spiegato perché analogo principio non
possa essere affermato in un ambito assolutamente equiparabile quale quello in
esame.

Un’interpretazione dell’art. 28 cpc nei termini
sopra esposti appare pertanto in tal modo conforme ai principi costituzionali e
comunitari consentendo di assicurare un uguale trattamento processuale tra
situazioni analoghe.

Superata la questione preliminare, nel merito ASGI
ripropone le domande avanzate in primo grado ma non esaminate dal giudice in
quanto ritenute assorbite dalla decisione assunta sulla competenza
territoriale.

Tali domande devono ritenersi fondate alla luce di
quanto sopra esposto relativamente al contenuto discriminatorio della circolare
Inps e che qui si intende integralmente richiamato

In conclusione e in conseguenza di quanto esaminato,
l’ordinanza impugnata va parzialmente riformata nei termini di cui al
dispositivo.

Stante la soccombenza di A.P.N. Avvocati per niente,
ASGI Associazione studi giuridici sull’immigrazione, L. Lega per i diritti
dalle persone con disabilità nei confronti della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, le stesse vengono condannate in solido al pagamento in suo favore
delle spese del doppio grado nella misura di complessivi € 6.000,00 (di cui €
3.000,00 per il primo grado ed 3.000,00 per l’appello) oltre accessori e spese
generali.

Inps, stante la soccombenza, viene condanna al
pagamento delle spese del doppio grado (così rideterminando anche quelle del
primo grado) a favore di A.P.N. Avvocati per niente e ASGI Associazione studi
giuridici sull’immigrazione nella misura complessiva di 6.000,00 (di cui €
3.000,00 per il primo grado ed € 3.000,00 per l’appello) oltre accessori e
spese generali e a favore di L. Lega per i diritti dalle persone con disabilità
nella misura complessiva di 6.000,00 (di cui € 3.000,00 per il primo grado ed €
3.00,00 per l’appello) oltre accessori e spese generali con distrazione a
favore dei procuratori costituiti.

Si intendono compensate le spese tra Inps e
Presidenza del Consiglio dei Ministri

 

P.Q.M.

 

In parziale riforma dell’ordinanza del giudice del
lavoro del tribunale di Milano del 10.11.20 (RG 3219/20):

dichiara la competenza territoriale del tribunale di
Milano in relazione alle domande avanzate da ASGI;

dichiara la carenza di giurisdizione del giudice
ordinario in ordine alle domande avanzate nei confronti della Presidenza del
Consiglio dei Ministri

conferma le restanti statuizioni di merito
dell’ordinanza impugnata in relazione alle domande avanzate nei confronti di
Inps;

condanna A.P.N. Avvocati per niente, ASGI
Associazione studi giuridici sull’immigrazione, L.L. per i diritti dalle
persone con disabilità al pagamento delle spese del doppio grado a favore della
Presidenza del Consiglio dei Ministri nella misura complessiva di € 6.000,00;

condanna Inps al pagamento delle spese del doppio
grado a favore di A.P.N. Avvocati per niente e ASGI Associazione studi
giuridici sull’immigrazione nella misura complessiva di € 6.000,00 oltre
accessori e spese generali e a favore di L.L. per i diritti dalle persone con
disabilità nella misura complessiva di € 6.000,00 oltre accessori e spese
generali con distrazione a favore di procuratori costituiti

Giurisprudenza – CORTE DI APPELLO MILANO – Sentenza 15 giugno 2021, n. 633
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