Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 luglio 2021, n. 20386

Lavoro, Mancata iscrizione al Fondo di Previdenza Telefonici
– Risarcimento danni da commisurare al trattamento di quiescenza, Accertamento

 

Rilevato che

 

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza n.849/2014
passata in giudicato, pronunciando in sede di riassunzione a seguito di rinvio
disposto con sentenza di questa Corte n. 4805/2012, in accoglimento della
domanda proposta da P.T. nei confronti di T.I. s.p.a., emetteva pronunzia di condanna
generica di quest’ultima al risarcimento del danno in favore del ricorrente –
per effetto della mancata iscrizione al Fondo di Previdenza Telefonici dal
febbraio 1992 – da commisurare al trattamento di quiescenza di cui il T.
avrebbe goduto ove fosse stato iscritto al predetto Fondo.

Con sentenza n. 6443/2015 la Corte d’Appello di
Roma, pronunciandosi in sede di autonomo giudizio di quantificazione promosso
dal T., 4 all’esito dell’espletamento di accertamento tecnico d’ufficio, in
riforma della decisione di primo grado, condannava la società T.I. al pagamento
in favore dell’appellante, della somma di euro 1.742.408,98.

Avverso tale pronuncia interpone ricorso per
cassazione la società soccombente affidato a tre* motivi ai quali resiste con
controricorso l’intimato.

Entrambe le parti hanno depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art.380 bis c.p.c.

 

Considerato

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 434 c.p.c. in relazione
all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Ci si duole che la Corte territoriale abbia omesso
di pronunciarsi sull’eccezione sollevata in secondo grado, circa
l’inammissibilità del gravame per mancata specificazione dei motivi ex art. 434
c.p.c.

2. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito
esposte.

Innanzitutto deve osservarsi che la ricorrente
avrebbe dovuto dedurre la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Ed invero, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi
di appello – così come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o
istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione
della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di
attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal
ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto
sostanziale ex art.360 c.p.c. n.3 o del vizio di motivazione ex art.360 c.p.c.,
n.5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia
preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo
giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando
adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica
deduzione del relativo “error in procedendo” – ovverosia della violazione
dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – la
quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in
tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame,
altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto
di appello.

La mancata deduzione del vizio nei termini indicati,
evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del
merito e impedendo il riscontro “ex actis” dell’assunta omissione, rende,
pertanto, inammissibile il motivo (cfr. Cass. 27/1/2006 n. 1755, Cass.
19/1/2007 n.1196, Cass. 27/10/2014 n.22759).

3. In ogni caso la censura è infondata.

Secondo l’insegnamento di questa Corte, ad integrare
gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa
statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il
provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto:
ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della
pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica
argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando
la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti
incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (vedi Cass.
13/8/2018 n. 20718, Cass. 13/10/2017 n.24155).

E tale è l’ipotesi in concreto ravvisabile, giacché
la disamina da parte dei giudici del gravame, nel merito, dei motivi di
appello, rappresenta un incedere argomentativo che presuppone logicamente e
giuridicamente, l’infondatezza delle doglianze poste a base della impugnazione
stessa (vedi al riguardo Cass. 6/12/2017 n.29191).

4. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa
applicazione dell’art.437, 421, 61, 191-194-196, 112, 115 414 c.p.c. e 2967
c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Ci si duole, in estrema sintesi, che il giudice del
gravame abbia ritenuto di rinnovare gli accertamenti peritali, invece di
procedere alla acquisizione di ogni elemento utile a ricostruire la posizione
previdenziale che in via di ipotesi sarebbe spettata al ricorrente. Si deduce
che il giudicante avrebbe utilizzato lo strumento della CTU per sopperire alle
carenze allegatorie del lavoratore, disponendo una illegittima inversione
dell’onus probandi, omettendo di pronunciarsi anche sulla nullità
dell’elaborato peritale stilato in prime cure e sulla eccezione di novità
formulata in relazione alle conclusioni rassegnate in appello.

5. Il motivo è privo di pregio.

Occorre premettere che secondo i principi
consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, ai quali va data continuità,
rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione
dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di
sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di
rinnovare, in parte o “in toto”, le indagini, sostituendo l’ausiliare
del giudice. L’esercizio di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità,
ove ne sia data adeguata motivazione, immune da vizi logici e giuridici (vedi
per tutte Cass. 24/1/2019 n.2103).

Nella specie, la Corte di merito ha disposto buon
governo della discrezionalità ad essa affidata nella gestione dello strumento
di indagine, conferendo l’incarico al nuovo CTU dott. C. onde verificare la
correttezza della precedente elaborazione peritale (non recepita dal primo
giudice del giudizio di quantificazione, per essere intervenuta nelle more la
pronuncia di Corte d’appello che la sentenza di condanna generica emessa il
21/6/2006 aveva allora riformato), individuando l’importo idoneo ad equiparare
il trattamento di quiescenza spettante al ricorrente, a quello che gli sarebbe
stato riservato qualora fosse stato iscritto al FPT, tenendo conto dei calcoli
elaborati dal precedente ausiliare.

E tale attività non era certo volta a supplire ad
eventuali carenze probatorie riconducibili agli oneri gravanti sulla parte
attrice, la quale aveva allegato alla domanda la documentazione inerente alla
posizione contributiva e pensionistica INPGI, indicando i parametri sui quali
impostare il conteggio, oltre al prospetto elaborato dal sindacato.

E’ bene ribadire al riguardo che i dati acquisiti
dal dott. C. erano stati allegati nel precedente grado di giudizio dalle parti,
in parte acquisiti dal CTU di primo grado, in parte attinti da documentazione
INPGI quanto al dettaglio contributi, in parte acquisiti dal medesimo ausiliare
nominato in grado di appello presso gli enti previdenziali, secondo le indicazioni
impartite dal Collegio giudicante.

Nell’ottica descritta va, quindi, rammentato che la
consulenza tecnica di ufficio, non essendo qualificatine come mezzo di prova in
senso proprio, perché volta a dare ausilio al giudice nella valutazione degli
elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche
conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente
apprezzamento del giudice di merito. Questi può affidare al consulente non solo
l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente
deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente
percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il
fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che
l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (vedi Cass. 3/7/2020
n.13736, Cass. 8/2/2019 n.3717, Cass. 22/1/2015 n. 1190 secondo cui in tema di
risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio
ed alle correlate indagini peritali funzione “pertipiente”, quando
essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia
in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui
dispone).

Alla luce delle esposte considerazioni, anche detto
secondo motivo non è meritevole di accoglimento.

6. Con il terzo motivo è denunciata violazione e
fajsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 416 c.p.c. e 2967 c.c.,
dell’art.9 1.1450/1956, e successive modifiche, deirart.5 1.58/1992, art.7 d.l.
n.503/1992, dell’art.l c.17 1.335/1995, art.12 1.153/1969 in relazione
all’art.360 comma primo n.3 c.p.c. nonché omesso esame di un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 comma
primo n.5 c.p.c.

Si addebita alla Corte di merito di aver aderito
alla relazione peritale stilata dal dott. C., violando le disposizioni in tema
di ammissione e valutazione delle prove ed omettendo di pronunciarsi su punti
decisivi della controversia ai fini del calcolo del risarcimento danno
pensionistico per violazione di norme speciali, oggetto di specifica
allegazione del consulente di parte dott. T.

7. Il motivo è inammissibile.

In base ai principi affermati in sede di
legittimità, da ribadirsi in questa sede, in tema di ricorso per cassazione, la
parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni
del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente
lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla
sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo
di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli
elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo
integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della
relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate,
al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di
motivazione (vedi ex plurimis, Cass. 17/7/2014 n. 16368, Cass. 22/2/2010 n.
4201).

E’ infatti orientamento costante che, in tema di
ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n.40 del
2006, il novellato art. 366 c.p.c., comma 1 n. 3-4-6, richiede la
“specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del
ricorso, e della sede processuale in cui siano collocati.

Il ricorrente per cassazione,» ove intenda dolersi
dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di
merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c. – di produrlo agli
atti e di indicarne il contenuto (confronta, tra le altre,Cass. 13/11/2018 n.
29093,. Cass. 4/10/2018 n.
24340, Cass. 2/8/2016 n. 16103).

Il primo onere va adempiuto indicando esattamente
nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il
documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o
riassumendo * nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di
uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.

Nella specie, i documenti richiamati nella critica
formulata (relazione di consulenza, note critiche del consulente di parte…)
non risultano trascritti nel loro contenuto, onde l’esposizione del motivo è
inosservante del principio di specificità che governa il ricorso per
cassazione, sotto tale decisivo profilo.

Di conseguenza, non sussistono i presupposti per lo
scrutinio del denunciato vizio di violazione di legge; né sussistono i
presupposti per la disamina del vizio motivo ai sensi dell’art. 360, comma 1,
n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., “con
modif., dalla l. n. 134 del 2012, nel quale non è inquadrabile la censura
concernente deficienze argomentative della decisione in punto di recepimento
delle conclusioni della CTU che esige, piuttosto, l’indicazione delle
circostanze secondo le quali quel recepimento, sulla base delle modalità con
cui si è svolto, si sia tradotto nell’omesso esame di un fatto decisivo,
oggetto di discussione fra le parti (vedi Cass. 26/7/2017 n. 18391). In tal
senso neanche è proponibile la prospettazione di un omesso esame su punto
decisivo della controversia, con riferimento alla “normativa che
disciplina la retribuzione imponibile ai fini del calcolo della pensione Fondo
Telefonici” (vedi pag.31 ricorso), giacché la disposizione richiamata
postula l’omesso esame di un fatto storico, decisivo, oggetto di discussione
fra le parti.

Ne deriva che, sotto tutti j profili delineati, la
censura deve essere disattesa.

8. In definitiva, alla stregua delle superiori
argomentazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata,
con distrazione in favore degli avv.ti A.C. e P.C.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da. parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità liquidate in euro
200,00 per esborsi ed euro 13.000,00 per compensi professionali, oltre spese
generali al 15% da distrarsi in favore degli avv.ti C. e C.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso articolo 13, se dovuto.

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