Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 luglio 2021, n. 20819

Rapporto di lavoro, Personale di cabina degli aeromobili,
Accertamento del carattere discriminatorio della clausola contrattuale
relativamente ai criteri di assunzione dei dipendenti, nonché alle condizioni
di lavoro

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di Brescia, con la sentenza n.
328 del 2019, ha rigettato l’appello proposto dalla società R. DAC, nei
confronti della Federazione Italiana Lavoratori dei Trasporti – FILT CGIL di
Bergamo, avverso l’ordinanza n. 1586 del 2018, emessa tra le parti dal
Tribunale di Bergamo.

2. Espone il giudice di appello che la FILT CGIL di
Bergamo aveva convenuto in giudizio la società R. DAC, ai sensi del
procedimento speciale di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 e dell’art.
702- bis, cod. proc. civ., dinanzi al Tribunale di Bergamo, per ottenere
l’accertamento del carattere discriminatorio – e la correlata tutela legale
(risarcitoria e in forma specifica) – della clausola contrattuale, inserita nel
contratto di lavoro del personale di cabina degli aeromobili impiegato dalla
società e definita “Estinzione del contratto”.

Quest’ultima era volta ad impedire a detto personale
di cabina di effettuare interruzioni di lavoro o qualunque altra azione
sindacale, escludere che la società datrice di lavoro e le società di
mediazione contrattino e riconoscano qualunque sindacato dello stesso
personale, impedire azioni collettive di qualsiasi tipo, pena l’annullamento e
l’inefficacia del contratto e la perdita di qualunque incremento retributivo o
indennitario, o di cambio turno;

nonché della condotta della società e della prassi
aziendale di escludere qualsiasi rapporto con le organizzazioni  sindacali inibendo allo stesso personale
l’affiliazione collettiva e rivendicazioni collettive. R. non aveva rapporti
con le organizzazioni sindacali italiane e anche con le organizzazioni
sindacali degli altri Stati dell’Unione europea, e l’amministratore della
società aveva avallato pubblicamente tale prassi aziendale.

3. Il Tribunale di Bergamo ha accolto il ricorso, e
ha dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla
società in relazione alla suddetta clausola contrattuale e alle suddette
condotte, ordinando a R. DAC di pubblicare a proprie spese un estratto del
provvedimento sul C.S., in formato idoneo a garantire adeguata pubblicità, e
autorizzando il sindacato a provvedervi direttamente, in caso di
inottemperanza, con diritto di rivalsa. Il Tribunale ha condannato la società R.
DAC a pagare alla FILT CGIL di Bergamo la somma di euro 50.000,00 a titolo di
risarcimento danni.

4. Proposto appello, R. DAC chiedeva in via
pregiudiziale che fosse dichiarata la carenza di giurisdizione del giudice
italiano a favore del Tribunale del lavoro di Dublino, e la improcedibilità e
inammissibilità del ricorso; in via preliminare prospettava l’applicabilità
della legge irlandese alla presente fattispecie, e quindi ai rapporti tra essa
società e i dipendenti.

5. La Corte d’Appello, nella sentenza oggetto del
presente ricorso, ha premesso quanto segue.

La società R. DAC è una compagnia area che esercita
attività di trasporto aereo nel territorio europeo con sede legale in Irlanda.
La società ha sedi anche in Italia, in particolare presso l’aeroporto di Orio
al Serio, in Provincia di Bergamo.

Periodicamente vengono espletate selezioni per
l’assunzione del personale di bordo, in particolare di cabina, e queste
selezioni vengono espletate anche in Italia, sebbene il personale sia assunto
con contratto di lavoro irlandese.

Presso lo scalo di Orlo al Serio è presente una sala
briefing per la preparazione al volo, ove è solito recarsi il personale di
bordo per l’assegnazione dei voli con riferimento ai quali deve prestare
servizio. R. all’epoca dei fatti applicava un contratto collettivo stipulato ai
sensi della legge irlandese e con un sindacato irlandese, che conteneva la
seguente clausola rubricata “Estinzione del contratto”.

Il contenuto della clausola era il seguente:
“Questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di
cabina di R. contatti direttamente con il datore di lavoro e non effettui
interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura
sindacale. Se R. o la società di mediazione di lavoro saranno obbligate a
riconoscere qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il
contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento
retributivo o indennitario (allowance) o cambio turno concessi sotto la vigenza
del presente contratto sarà ritirato”.

Detto contratto era applicato presso tutte le basi
R., compresa quella di Orlo al Serio.

In particolare, per quanto riguardava gli equipaggi
che facevano capo alla base di Orlo al Serio veniva applicato il “Cabin
Crew Agreement for Crew Operating from BGY” che riportava tale clausola.

Non era poi contestato che la società all’epoca dei
fatti negasse qualsiasi rapporto con organizzazioni sindacali italiane e degli
altri Stati dell’Unione europea, e che l’amministratore delegato della società
avallasse pubblicamente questo tipo di politica anche in ragione delle
dichiarazioni effettuate nel corso dell’assemblea annuale degli azionisti.

6. Tanto premesso la Corte d’Appello ha posto a
fondamento della decisone le seguenti statuizioni.

6.1. Con riguardo alle censure proposte da R.
rispetto alla statuizione del Tribunale di Bergamo di sussistenza della
giurisdizione del giudice italiano (oggetto del primo motivo dell’appello), il
giudice di secondo grado ha affermato quanto segue.

La Corte d’Appello ha ritenuto che correttamente il
Tribunale ha affermato che doveva trovare applicazione l’art. 7, n. 2, del
regolamento UE 1215/2012, e non l’art. 21 del medesimo regolamento, come invece
invocato da R..

Ha affermato il giudice di appello che l’azione
esercitata da FILT CGIL di Bergamo attiene all’accertamento della natura
discriminatoria di alcune condotte poste in esser da R., collegate alle
condizioni di lavoro del personale che viene selezionato in Italia, per quanto
riguarda l’accesso al lavoro, e che ha come base quella di Bergamo-Orio al
Serio, per quanto attiene ai rapporti di lavoro già instaurati.

Il sindacato, pertanto agisce ai sensi dell’art. 5,
comma 2, del d.lgs. n. 216 del 2003, per contrastare effetti discriminatori che
si verificano in Italia.

Atteso che la giurisdizione anche nei confronti
dello straniero va determinata sulla base della domanda, l’azione svolta dal
sindacato ricade nella sfera di operatività dell’art. 7, n.2, del regolamento
UE n. 1215/2012, che prevede “Una persona domiciliata in uno Stato membro
può essere convenuta in un altro Stato membro” (…) “in materia di
illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del
luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”.

L’azione promossa dal sindacato non ha natura
contrattuale, come asserito dalla società, atteso che il sindacato agisce come
soggetto collettivo che non è legato da rapporti contrattuali con R..

Tale azione ha natura extracontrattuale non potendo
essere calata nell’ambito del singolo rapporto contrattuale, e le condotte
discriminatorie, i cui effetti pregiudizievoli si sono prodotti e si possono
produrre in Italia, rappresentate da FILT CGIL di Bergamo, integrano un
illecito civile che può portare alla rimozione degli effetti pregiudizievoli e
al risarcimento del danno.

La domanda va ricondotta all’art. 7, n. 2, del reg.
1215/2012, e la natura extracontrattuale della domanda esclude l’applicabilità
dell’art. 21 del medesimo regolamento, di talché la decisione del Tribunale di
Bergamo sul punto della giurisdizione non doveva essere riformata.

6.2. Con riguardo alle censure proposte da R. in
ordine all’affermazione del Tribunale di Bergamo di applicabilità della legge
italiana in luogo di quella irlandese (oggetto del terzo motivo dell’appello),
il giudice di appello ha affermato quanto segue.

La Corte d’Appello ha disatteso la tesi di R. che
sosteneva la natura contrattuale o precontrattuale della propria presunta
responsabilità. In proposito, il giudice di appello ricorda il ruolo del
sindacato, soggetto collettivo portatore di un interesse proprio, e rileva che
il luogo dove si producono gli effetti dannosi è l’Italia.

L’art. 4, n.1, del regolamento CE n. 864/2007, sulla
legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali, dispone “Salvo se
diversamente previsto nel presente regolamento, la legge applicabile alle
obbligazioni extracontrattuali che derivano da un fatto illecito è quella del
paese in cui il danno si verifica, indipendentemente dal paese nel quale è
avvenuto il fatto che ha dato origine al danno e a prescindere dal paese o dai
paesi in cui si verificano le conseguenze indirette di tale fatto”.

Nel caso in esame si verteva nell’ambito di
un’obbligazione extracontrattuale da illecito civile, i cui effetti pregiudizievoli
si producevano in Italia. A ciò conseguiva che doveva trovare applicazione la
legge italiana e non quella irlandese.

6.3. Le seguenti argomentazioni sono svolte dal
giudice di appello sulle censure proposte dalla società R. rispetto
all’affermazione del Tribunale di Bergamo della sussistenza della
legittimazione attiva del sindacato ricorrente (oggetto del secondo e del
quarto motivo dell’appello).

La Corte d’Appello ha disatteso la prospettazione
della società datrice di lavoro, secondo cui, da un lato, il sindacato avrebbe
dovuto agire ai sensi  dell’art. 28 della
legge n. 300 del 1970; dall’altro, non essendo applicabile la legge italiana,
il sindacato era carente della legittimazione ad agire, non rappresentando i
lavoratori R., tutti assunti con contratto di lavoro irlandese, non essendo il
suddetto sindacato riconosciuto dalla società secondo la legge irlandese (sono
richiamati il Trade Union Act del 1941 e del 1971).

Il giudice di appello a fondamento della
legittimazione del sindacato richiama l’art. 5 del d.lgs. n. 216 del 2003, di
attuazione della direttiva 2000/78/CE, che attribuisce la legittimazione ad
agire alle organizzazioni sindacali qualificandoleome enti esponenziali di
interessi collettivi.

Ha affermato, altresì, che nella specie il sindacato
aveva agito ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, esperendo
un’azione del tutto differente da quella di cui all’art. 28 della legge n. 300
del 1970.

 6.4. Nel
merito, la Corte d’Appello di Brescia ha ritenuto sussistere la condotta
discriminatoria, e ha disatteso la prospettazione della società datrice  di lavoro (quinto motivo di appello) secondo
la quale: non vi sarebbe stata discriminazione diretta atteso che la clausola
in questione era inserita non nel contratto individuale ma in un accordo
collettivo validamente stipulato secondo la legge irlandese, e che l’estinzione
del contratto previsto dalla clausola si riferirebbe non al rapporto di lavoro
bensì all’accordo collettivo contenete la clausola e le agevolazioni ivi
previste;

non vi sarebbe stata discriminazione diretta ai
sensi degli artt. 2, comma 1, lettera a), e 3, comma 1, lettera a), del d.lgs.
n. 216 del 2003, in quanto essa società non avrebbe attuato alcuna politica di
assunzione discriminatoria, non avendo la clausola in questione alcuna forza
dissuasiva per determinati candidati dal presentare la candidatura, sì da
essere di ostacolo per l’accesso al lavoro;

non sarebbe conferente il richiamo delle sentenze
della CGUE, causa C- 18/12, Associatia Accept e causa C – 54/07, Feryn; non vi
sarebbe stata la prova di una politica di assunzione discriminatoria.

La Corte d’Appello nel disattendere le censure ha
affermato quanto segue.

L’art. 2, lettera a), del d.lgs. n. 216 del 2003,
che disciplina la discriminazione diretta, va interpretato in ragione della
direttiva 2000/78 CE,  tenuto conto della
sentenza della CGUE, causa 33/76, Rewe;

sono pertinenti alla fattispecie le sentenze CGUE
C-18/12 Associatia Accept e C-54/07 Feryn, dai cui principi discende che la
discriminazione diretta sussiste ogni qualvolta ad un certo comportamento possa
riconoscersi valenza discriminatoria a prescindere dal riscontro di singoli
effetti dannosi già concretamente realizzati; quindi la volontà di
discriminare, manifestata pubblicamente dal datore di lavoro, integra la
fattispecie discriminatoria, senza che sia condizionata dalla circostanza che
l’ordine sia stato eseguito; parte ricorrente aveva documentato come la società
negasse qualsiasi rapporto con le organizzazioni sindacali diverse dall’unico
sindacato irlandese; il modello della società era strutturato su una relazione
diretta con i lavoratori senza mediazioni ed interferenze da parte del
sindacato; in quest’ottica era costruita la clausola che, come affermava R.,
era contenuta nel contratto collettivo irlandese e che si riferiva ai benefici
previsti dal medesimo contratto collettivo in tema di turno di lavoro e di
incrementi retributivi o indennitari (in sostanza la clausola prevede la
perdita di questi benefici nel caso in cui il singolo lavoratore aderisca ad
uno sciopero o ad altre azioni sindacali, ovvero costringa la società a
riconoscere un sindacato e non tratti direttamente con il datore di lavoro);

tale clausola anche così ricostruita non perdeva
quell’effetto dissuasivo che il Tribunale le aveva riconosciuto nei confronti
dei lavoratori sindacalizzati sia che aspirino all’assunzione sia che siano già
dipendenti della società;

non poteva assumere rilievo il mancato inserimento
della clausola nei singoli contratti di lavoro atteso che la stessa è inserita
nel contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro, e ciò, quindi, la
rende operante ed efficace nei confronti del dipendente;

tale clausola era stata richiamata dalla società
nella lettera del 15 dicembre 2017, indirizzata al personale di cabina
assegnato a basi italiane,  contenente
l’invito a non aderire allo sciopero indetto dai sindacati italiani;

l’art. 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE,
come trasposto dall’art. 2, lettera a), del d.lgs. n. 216 del 2003, introduceva
il criterio della comparazione ipotetica, non richiedendo che fosse
identificabile un denunciante che asserisse in concreto di essere vittima di
tale discriminazione, ma fondandosi sulla potenzialità lesiva della condotta
medesima.

6.5. La Corte d’Appello ha disatteso anche il sesto
motivo di appello con cui la società datrice di lavoro contestava le
statuizioni del Tribunale sul riparto dell’onere della prova, deducendo che il
sindacato non aveva fornito nessun elemento, nemmeno di tipo statistico, idoneo
a far presumere l’esistenza di una politica discriminatoria nei confronti di
soggetti sindacalizzati, per cui non sarebbe scattato l’onere di offrire la
prova contraria.

La Corte d’Appello ha affermato che l’art. 28 della
legge n. 150 del 2011 non stabilisce un’inversione dell’onere della prova,
quanto una semplificazione dell’onere gravante sul soggetto che lamenta di
essere vittima della discriminazione. Nella specie, a fronte dell’adempimento
dell’onere della prova da parte del ricorrente incombeva sulla società provare
di non aver violato il principio della parità di trattamento, prova di cui non
vi era traccia.

Ha quindi confermato la condanna al risarcimento del
danno non patrimoniale, liquidato in via equitativa, in ragione della
significatività della lesione accertata, annoverandolo tra i cd. danni
punitivi.

7. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre R. DAC prospettando cinque motivi di ricorso.

8. Resiste con controricorso la Federazione Italiana
Lavoratori dei Trasporti- FILT CGIL di Bergamo.

9. Trova applicazione l’art. 23, comma 8-bis, del
decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla
legge 18 dicembre 2020, n. 176.

Il Procuratore Generale depositava conclusioni
scritte con cui chiedeva il rigetto del ricorso.

10. A seguito di richiesta della parte ricorrente il
ricorso è stato trattato con discussione orale.

11. La ricorrente ha depositato memoria in
prossimità dell’udienza.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione
dell’art. 360, primo comma, n. 1, cod. proc. civ.: carenza di giurisdizione del
giudice italiano.

1.1. Assume la ricorrente che la giurisdizione deve
essere determinata in base all’art. 21 del regolamento UE n. 1215/2012, che
stabilisce la regola per stabilire la giurisdizione con riguardo alle
controversie in materia di lavoro, e non in base all’art. 7, punto 2, del
medesimo regolamento, che regola gli illeciti civili dolosi o colposi.

1.2. Erroneamente, la Corte d’Appello ha qualificato
la responsabilità del datore di lavoro in termini di responsabilità da atto
illecito, poiché aveva agito in giudizio il sindacato, che non era legato da
rapporto di lavoro con la società, a tutela di un interesse collettivo.

1.3. Ad avviso della ricorrente andava considerato
che la presunta condotta discriminatoria riguardava la collettività dei
lavoratori, ed era ontologicamente legata ai rapporti di lavoro dei dipendenti,
dal momento che la discriminazione sarebbe avvenuta con riferimento ai criteri
di assunzione dei dipendenti medesimi, nonché alle condizioni di lavoro degli
stessi.

 Il sindacato
agiva per una discriminazione fatta valere non nei propri confronti ma nei
confronti dei lavoratori (seppure considerati collettivamente) ed agiva nei
confronti della società in quanto datrice di lavoro. Anche laddove il giudice
di appello affermava che il sindacato agiva per la violazione della libertà
sindacale e i principi di uguaglianza e di parità di trattamento, era evidente
che si riferiva a libertà e principi che riguardavano non il sindacato ma i
lavoratori.

1.4. In ogni caso il luogo in cui l’evento dannoso
era avvenuto o poteva avvenire non era l’Italia.

Il personale in questione presta attività
prevalentemente a bordo degli aeromobili, che ai sensi della Convenzione
conclusa a Chicago il 7 dicembre 1944, relativa all’aviazione civile
internazionale, costituiscono territorio irlandese. Inoltre, i dipendenti di R.
hanno con l’Irlanda il collegamento più stretto.

Le comunicazioni e in generale la gestione dei rapporti
di lavoro sono stati tenuti solo ed esclusivamente dall’Irlanda. I contratti di
lavoro si  perfezionano presso la sede
legale di R. a Dublino, e i dipendenti sono pagati su conti correnti irlandesi
per tutta la durata del rapporto di lavoro e sottostanno alle regole della
Irish Ayiation Authority.

Né il luogo di servizio coincide con il luogo della
base di prestazione di servizio (CGUE, sentenza del 14 settembre 2017, cause
riunite C-168/16 e C- 169/16, Nogueira; sentenza Corte Suprema di Giustizia della
Comunità Valenciana (TSJCV) n. 33/2018). Dunque è privo di rilievo sia che il
personale viene selezionato in Italia sia che abbia come base di riferimento
quella di Bergamo, Orio al Serio.

2. All’esame del motivo va premesso quanto segue.

2.1. La questione posta con riguardo alla competenza
internazionale dell’autorità giurisdizionale italiana deve essere esaminata
alla luce del regolamento UE n. 1215/2012, concernente la competenza
giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia
civile e commerciale, come interpretato dalla CGUE, che si fonda su criteri
speciali alternativi al foro generale costituito dallo Stato di domicilio del
convenuto (art. 4). In proposito si può ricordare che secondo la costante
giurisprudenza eurounitaria, poiché il regolamento n. 1215/2012 abroga e
sostituisce il regolamento n. 44 del 2001 che ha, a sua volta, sostituito la
Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza
giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale,
come modificata dalle successive convenzioni relative all’adesione dei nuovi
Stati membri a tale Convenzione, l’interpretazione fornita dalla CCGU circa le
disposizioni di questi ultimi strumenti giuridici vale anche per il regolamento
n. 1215/2012, quando tali disposizioni possono essere qualificate come
«equivalenti» (ex aliis, CGUE, sentenza 28 febbraio 2019, causa C-579/17,
Gradbengtyo Korana, punto 45).

Va altresì ricordato che il considerando n. 7 del
regolamento CE n. 864/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’Il
luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (Roma
II), che verrà in rilievo nel prosieguo quanto alla legge applicabile,
stabilisce che: “Il campo d’applicazione materiale e le disposizioni del
presente regolamento dovrebbero essere coerenti con il regolamento (CE) n.
44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000 (…) e con gli strumenti relativi
alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali”.

2.2. La determinazione dell’ambito della
giurisdizione italiana rispetto a quella di un giudice di un diverso Stato UE,
e dunque l’applicazione dei criteri di cui al Regolamento UE n. 1215 del 2012,
ha come presupposto (si v., Cass., S.U., sentenza n. 2360 del 2015, chiamata a
fare applicazione dei criteri della predetta Convenzione del 1968), così come
nel caso in cui si debba statuire sul riparto della giurisdizione tra giudici
nazionali, la determinazione della domanda (art. 386 cod. proc. civ.).

2.3. A tal fine, come questa Corte ha più volte
affermato nel regolare il riparto della giurisdizione tra i giudici nazionali
(si v., ex multis, Cass., S.U., ordinanze n. 28978 del 2020, n. 20350 del 2018,
n. 784 del 2021) rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il
“petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto
in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e
soprattutto in funzione della “causa petendi”, ossia della intrinseca
natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con
riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti
costituiscono manifestazione.

2.4. Tale principio deve essere specificato con
riguardo all’applicazione dei criteri di competenza dettati dal regolamento UE
n. 1215 del 2012.

Occorre considerare che la CGUE ha più volte
affermato (ex aliis, CGUE, sentenza 25 marzo 2021, causa C-307/19, Obala i
lu&ce d.o.o.; CGUE sentenza, 24 novembre 2020, causa C-59/19, Wikingerhof
GmbH & Co. KG) che le regole di competenza speciale previste dalle
disposizioni del regolamento n. 1215 del 2012, al fine di garantire, per quanto
possibile, l’uguaglianza e l’uniformità dei diritti e degli obblighi che
derivano da tale regolamento per gli Stati membri e per le persone interessate,
devono essere interpretate in modo autonomo, facendo riferimento, da un lato,
agli obiettivi e all’impianto sistematico di detto regolamento e, dall’altro,
ai principi generali desumibili da tutti gli ordinamenti giuridici nazionali.

Pertanto, le nozioni che di volta in volta vengono
in rilievo, quali con riguardo alla fattispecie in esame «materia civile e
commerciale» (art. 1, par.1), «materia contrattuale» (art. 7, n. 1, lettera a),
«materia di illeciti civili dolosi o colposi» (art. 7, n. 2), contratto (artt.
20 e 21), non possano essere intese come un semplice rinvio alla qualificazione
del rapporto giuridico dedotto dinanzi all’autorità giurisdizionale nazionale
fornita dal diritto nazionale applicabile, ma occorre che l’autorità
giurisdizionale adita, verifichi se le pretese dell’attore rientrino,
indipendentemente dalla loro qualificazione nel diritto nazionale, nella
materia contrattuale oppure, al contrario, nella materia degli illeciti civili
dolosi o colposi, principalmente alla luce del sistema e degli obiettivi del
medesimo regolamento (v., in tal senso, CGUE, sentenza del 13 marzo 2014,
C-548/12, Brogsitter, punto 18; cfr. Cass., S.U., ordinanze n. 6456 del 2020,
n. 26145 del 2017).

2.5. Alla luce dei suddetti principi va esaminato il
primo motivo di ricorso.

2.6. Il motivo di ricorso nel denunciare la carenza
di giurisdizione, si articola in due profili di censura.

Il primo riguarda la qualificazione della domanda
effettuata dalla Corte d’Appello, venendo prospettato che la stessa non ha
carattere extracontrattuale, ma contrattuale. Il secondo attiene alla ritenuta
erronea applicazione dell’art. 7 del reg. UE n. 1215/2012 in luogo dell’art. 21
del medesimo regolamento, sia perché assumerebbe precipuo rilievo il rapporto
di lavoro, sia in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa su
aeromobili immatricolati in Irlanda.

2.7. Il primo profilo di censura non è fondato.

2.8. Occorre rilevare che il sindacato ha agito in
giudizio per l’accertamento del carattere discriminatorio e la correlata tutela
legale della clausola del contratto collettivo aziendale “Cabin Crew
Agrement for Crew Operating from BGY”, stipulato ai sensi della legge
irlandese e con un sindacato irlandese, che regola il rapporto di lavoro del
personale di cabina degli aeromobili, definita “Estinzione del
contratto”, che prevede: “Questo accordo rimarrà in vigore per tutto
il tempo che il personale di cabina di R. contratti direttamente con il datore
di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra
azione di natura sindacale. Se R. o le società di mediazione di lavoro saranno
obbligate a riconoscere qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in
questo caso il contratto dovrà intendersi annullato inefficace e qualunque
incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio turno concessi sotto
la vigenza del presente contratto sarà ritirato”, nonché della condotta
della società o delle prassi aziendali di escludere qualsiasi rapporto con le
organizzazioni sindacali, inibendo allo stesso personale l’affiliazione
collettiva e rivendicazioni collettive.

2.9. La Corte d’Appello ha qualificato la domanda
proposta dalla FILT CGIL di Bergamo quale domanda extracontrattuale di
accertamento della discriminazione diretta in ragione di alcune condotte (il
rilievo del contratto collettivo aziendale “Cabin Crew Agreement for Crew
Operating from BGY” nei contratti individuali di lavoro, la negazione di
rapporti con le organizzazioni sindacali italiane ed europee, l’avallo
dell’amministratore delegato della società a tale politica, tra l’altro con
dichiarazioni in sede di assemblea annuale degli azionisti) poste in essere
dalla società R., relative all’accesso e alle condizioni di lavoro del
personale che viene selezionato in Italia e che ha come base quella di
Bergamo-Orlo al Serio.

2.10. Osserva il Collegio che tale clausola,
“Estinzione del contratto”, che spiegava effetto rispetto ai
contratti individuali di lavoro stipulati tra il personale di cabina e R.,
oltre a declinarsi nell’ambito dell’autonomia negoziale e del rapporto di
lavoro, ricade anche sull’autonomia collettiva e sulle relazioni sindacali in
quanto, poiché condiziona l’assunzione, le condizioni di lavoro e la permanenza
in servizio del lavoratore, incide sulla libertà sindacale sia individuale che
collettiva.

Di talché, come affermato dalla Corte d’Appello, va
esclusa la natura contrattuale dell’azione promossa dal sindacato per
l’accertamento del carattere discriminatorio delle condotte poste in essere
dalla società datrice di lavoro, tra cui l’applicazione della suddetta
clausola, lesive del diritto di libertà sindacale.

2.11. Anche il secondo profilo di censura non è
fondato, e va affermata la sussistenza della giurisdizione del giudice
italiano.

2.12. Va rilevato che ai sensi dell’art. 20, della
Sezione 5 “Competenza in materia di contratti individuali di lavoro”,
del reg. 1215/2012, sono due le condizioni che devono sussistere perché trovino
applicazione i criteri di cui all’art. 21 del regolamento medesimo, invocato
dalla ricorrente: da un lato, deve esistere un “contratto individuale di
lavoro” inter partes; dall’altro, l’azione deve essere relativa a tale
“contratto”.

2.13. La CGUE con la sentenza 25 febbraio 2021,
causa C-804/19, BU (nel richiamare CGUE, sentenze 10 settembre 2015, causa
C-47/14, H.F.E. e a.; 11 aprile 2019, causa C-603/17, B. e H.) ha affermato che
la nozione di “contratto individuale di lavoro”, di cui all’articolo
20 del regolamento n. 1215/2012, deve essere interpretata in modo autonomo al
fine di garantire l’applicazione uniforme delle norme sulla competenza
stabilite da tale regolamento in tutti gli Stati membri, e che tale nozione
presuppone un vincolo di subordinazione del lavoratore nei confronti del datore
di lavoro, dato che la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la
circostanza che una persona sia obbligata a svolgere, per un certo periodo di
tempo, a favore di un’altra e sotto la sua direzione, prestazioni in
contropartita delle quali ha il diritto di percepire una retribuzione (v., per
analogia, CGUE, sentenze 10 settembre 2015, C-47/14, H.F.E. e a., punti 40 e
41; 11 aprile 2019, C-603/17, B. e H., punti 25 e 26).

Di talché la qualificazione della domanda operata
correttamente dalla Corte d’Appello con riguardo all’ordinamento nazionale anche
ai fini della determinazione della giurisdizione, è coerente con le indicazioni
della CGUE per l’applicazione uniforme delle norme sulla competenza.

Ed infatti, anche alla luce della giurisprudenza
unionale non è ravvisabile tra le parti in causa alcun contratto di lavoro.

Atteso, dunque, che si verte in ipotesi di
responsabilità extracontrattuale, trova applicazione l’art. 7, par. 2, del reg.
n. 1215/2012, secondo cui “una persona domiciliata in uno Stato membro può
essere convenuta in un altro Stato membro (…) in materia di illeciti civili
dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui
l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”.

2.14. Quanto al criterio di collegamento relativo
all’aeromobile e alla nazionalità dello stesso, invocato dalla ricorrente
sempre nel primo motivo di ricorso, si osserva che lo stesso si sostanzia nel
richiamo di principi afferenti l’individuazione della legge applicabile ai
rapporti di lavoro con elementi di internazionalità con riguardo ad obbligazioni
contrattuali, e lo stesso trova riferimento normativo nella Convenzione di Roma
del 19 giugno 1980 (v, art. 6, par. 2, lett. a), nonché nel regolamento n. 593
del 2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I, v.
art. 8), che ha recepito la Convenzione di Roma in forma di strumento
dell’Unione.

2.15. Di talché il carattere extracontrattuale
dell’azione esperita dal sindacato esclude la rilevanza del suddetto profilo di
censura che, peraltro, non si confronta con la giurisprudenza della CGUE
(sentenza 15 marzo 2011, C.- 29/2010, Heiko Koelzsch), che, escludendo ogni
automatismo, chiede al giudice del rinvio di tener conto di tutti gli elementi
che caratterizzano l’attività del lavoratore, dovendo stabilire in particolare
in quale Stato si trovi il luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le
sue missioni di trasporto, riceve le istruzioni sulle sue missioni e organizza
il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano gli strumenti lavorativi.

Ciò, in quanto vi è la necessità di garantire
un’adeguata tutela al lavoratore in quanto parte contraente più debole; quindi
il criterio del Paese dell’esecuzione abituale del lavoro deve formare oggetto
di un’interpretazione ampia ed essere inteso nel senso che si riferisce al
luogo in cui o a partire dal quale il lavoratore esercita effettivamente le
proprie attività professionali e, in mancanza di un tale centro di affari, al
luogo in cui il medesimo svolge la maggior parte delle sue attività.

La sentenza CGUE del 14 settembre 2017, cause
riunite C-168/16 e C- 169/16, Nogueira, richiamata dalla ricorrente, conferma
tale assunto, atteso che nell’affermare (con riguardo all’art. 19, punto 2,
lettera a, del reg. n. 44/2001), che “Per quanto riguarda il personale di
volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione, la nozione «luogo in
cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività» non può essere
equiparata alla nozione di «base di servizio»”, ha comunque dato rilievo a
tale ultimo dato quale elemento che può avere un ruolo significativo
nell’individuazione degli indizi, che consentono di determinare il luogo a
partire dal quale i lavoratori svolgono abitualmente la loro attività e,
pertanto, la competenza di un giudice che potrà conoscere di un ricorso
presentato dai medesimi.

2.16. Né è equiparabile alle decisioni della CGUE,
che garantisce l’interpretazione e l’applicazione uniformi del diritto
dell’Unione europea, la giurisprudenza di altra Corte Suprema (sentenza della
Corte Suprema Nazionale Valenziana, citaata dalla ricorrente).

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 4 del regolamento n. 864 del 2007.

Deduce la ricorrente che, vertendosi in fattispecie
di presunta responsabilità contrattuale e non extracontrattuale da fatto
illecito, dovrebbe trovare applicazione il regolamento n. 593 del 2008, con la
conseguenza che dovrebbe trovare applicazione la legge che, in base a tale
normativa, risulti applicabile ai rapporti di lavoro tra R. e i suoi
dipendenti.

Ciò, in ragione del principio generale affermato
dall’art. 3 del citato regolamento, tenuto conto della libera ed espressa
scelta delle parti. Ma anche a non voler considerare l’art. 3, troverebbe
applicazione l’art. 8, comma 1, reg. n. 593 del 2008, atteso che non si può
ritenere che i lavoratori svolgano la propria attività abitualmente in Italia,
ma sul territorio irlandese o comunque in molti Paesi europei che sorvolano e
ove atterrano. Alla stessa conclusione si giungerebbe anche in ragione del
comma 3 dell’art. 8, in quanto i contratti dei lavoratori sono stipulati a
Dublino. E in ogni caso, come previsto dal comma 4, i lavoratori non hanno un
rapporto più stretto con l’Italia che con Dublino.

4. Il secondo motivo di ricorso non è fondato.

4.1. Nell’esaminare la censura vengono in rilievo i
già citati Convenzione di Roma, reg. n. 593 del 2008 (cd. Roma I) sulla legge
applicabile alle obbligazioni contrattuali, a cui rimanda l’art. 57 della legge
n. 218 del 1995, e il reg. n. 864 del 2007 (cd. Roma II), che trova
applicazione per le obbligazioni extracontrattuali in materia civile e
commerciale, applicabile ratione temporis.

In ragione di quanto già esposto nella trattazione
del primo motivo di ricorso, circa la natura extracontrattuale dell’azione
esperita dalla FILT CGIL di Bergamo, deve trovare applicazione il reg. n. 864
del 2007.

Occorre in proposito considerare che la CGUE (si v.,
sentenza 21 gennaio 2016, Causa C-475/14, Ergo Insurance e Gjensidige Baltic)
ha stabilito che – nell’interpretare gli ambiti rispettivi di applicazione dei
regolamenti Roma I e Roma II – le nozioni di «obbligazione contrattuale» e di
«obbligazione extracontrattuale» in essi contenute, occorre tener conto non
solo dell’obiettivo di coerenza nell’applicazione reciproca degli stessi, ma
anche del regolamento Bruxelles I (ora reg. n. 1215/12), il quale, in
particolare al suo articolo 5, già sopra esaminato, opera una distinzione tra
la materia contrattuale e la materia degli illeciti civili dolosi o colposi.

Trova, dunque, applicazione la legge italiana in
quanto, come affermato dalla Corte d’Appello, in ragione dell’accertamento
svolto, gli effetti pregiudizievoli si producono o si potrebbero produrre in
Italia, e l’art. 4 del reg. n. 864 del 2007 stabilisce “salvo se
diversamente previsto nel presente regolamento, la legge applicabile alle
obbligazioni extracontrattuali che derivano da un fatto illecito è quella del
paese in cui il danno si verifica, indipendentemente dal paese nel quale è avvenuto
il fatto che ha dato origine al danno e a prescindere dal paese o dai paesi in
cui si verificano le conseguenze indirette di tale fatto”.

5. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione
dell’art. 2, comma 1, lettera a), e dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 216 del
2003, e falsa applicazione dei principi comunitari espressi nelle sentenze CGUE
Feryn e Associatia Accept richiamate dalla Corte d’Appello, violazione
dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011

5.1. Assume la ricorrente la violazione dell’art. 2,
comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 216 del 2003, nella parte in cui la Corte
d’Appello ha affermato che nel concetto di discriminazione diretta definito da
tale norma possa rientrare anche la discriminazione per motivi sindacali, con
conseguente possibilità di invocare i rimedi previsti dall’art. 28 del d.lgs.
n. 150 del 2011. Ciò, in quanto la suddetta norma, non menzionando l’adesione
ad un sindacato, ha un ambito  più
limitato rispetto a quello ritenuto dalla Corte d’Appello, come si può dedurre
anche dalla direttiva n. 78/2000 (artt. 2 e 1).

Né l’affiliazione sindacale può essere inclusa tra
le convinzioni personali  di cui al
citato art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003, e all’art. 2 della suddetta
direttiva.

Ulteriore conferma si rinviene nell’art. 13 del TCE,
ora art. 19 TFUE, che ha costituito la base per l’emanazione della direttiva n.
78/2000, e cha ha elencato in modo tassativo i motivi di discriminazione contro
cui l’Unione europea può legiferare, di talché l’Unione non ha alcuna
competenza in materia di diritto di associazione, diritto di sciopero e
serrata.

Inoltre l’art. 15 della legge n. 300 del 1970, nel
vietare atti discriminatori nei confronti dei lavoratori, tiene distinta la
motivazione sindacale da tutte le altre elencate al secondo comma, tra cui vi
sono anche le convinzioni personali.

Pertanto, ad avviso della ricorrente, nella
definizione di discriminazione non può ritenersi compresa la discriminazione
per motivi sindacali, non potendola far rientrare all’interno delle convinzioni
personali, come invece assunto dalla Corte d’Appello.

5.2. Erroneamente la Corte d’Appello aveva disatteso
l’eccezione di inammissibilità ed improcedibilità dell’azione del sindacato,
atteso che non rientrando la discriminazione lamentata in quella prevista dal
legislatore, lo stesso non poteva esperire l’azione prevista dall’art. 28 del
d.lgs. n. 150 del 2011, ma al massimo quella prevista dall’art. 28 della legge
n. 300 del 1970.

5.3. Inoltre, le condotte censurate in ogni caso non
avevano ad oggetto  l’adesione sindacale
in quanto tale, bensì la partecipazione dei lavoratori ad un eventuale
sciopero, fattispecie che si collocava al di fuori delle convinzioni personali
ed estranea all’ambito applicativo dell’art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003.

5.4. La ricorrente, quindi, ripercorre le decisioni
della CGUE, Associatia Accept e Feryn, rilevandone l’estraneità alla
fattispecie in esame.

6. Il motivo non è fondato.

6.1. Nell’esaminare le censure occorre considerare
la relazione intercorrente tra diritti fondamentali e divieto di
discriminazione.

La direttiva 2000/78, adottata dopo l’ampliamento
delle competenze comunitarie per contrastare le discriminazioni fondate sulla
religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze
sessuali, ha rafforzato il nesso che sussiste tra eguaglianza e dignità umana
nella tutela contro le discriminazioni.

L’inclusione nel TCE (art. 13, ora art. 19 TFUE) di
fattori di discriminazione diversi dal genere, tra cui alcuni, quali la
religione e le convinzioni personali, non immutabili o oggettivi, infatti, ha
contribuito a favorire un allargamento di tipo universalistico della tutela
antidiscriminatoria, come posto in evidenza dalla dottrina.

L’intervenuto rafforzamento della tutela
antidiscriminatoria quale garanzia dei diritti fondamentali costituisce,
dunque, elemento di lettura della direttiva n. 78/2000, recepita
nell’ordinamento nazionale dal d.lgs. n. 216 del 2003, nel senso che i diritti
in materia di lavoro e sindacali, riconosciuti dall’ordinamento unionale e
nazionale, devono potersi svolgere in condizioni di parità, e devono essere
tutelati da violenze, mobbing e altri atti o condotte lesive, senza che possano
assumere rilievo i suddetti fattori.

6.2. Con riguardo al primo profilo di censura,
dunque, va rilevato che l’espressione “convinzioni personali” deve
essere interpretata in tale contesto, come formula di chiusura del sistema, nel
senso che le opinioni del lavoratore, che possono riguardare temi diversi tra
cui anche l’esercizio dei diritti sociali (associazione sindacale, sciopero),
anche con una proiezione dinamica e fattuale (adesione ad una associazione
sindacale, esercizio del diritto di sciopero), non possono legittimare una
condotta discriminatoria, che cioè non consenta al lavoratore di esercitare in
situazione di parità i propri diritti.

In tal senso depone anche l’evoluzione dell’art. 15
della legge n. 300 del 1970.

Lo stesso, ab origine, sancisce la nullità di
qualsiasi patto od atto diretto a “subordinare l’occupazione di un
lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione
sindacale ovvero cessi di farne parte” e a “licenziare un lavoratore,
discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti,
nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della
sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno
sciopero”.

Tale norma, a seguito della modifica introdotta dal
d.lgs. n. 216 del 2003, prevede, altresì, che la suddetta sanzione si applica
ai patti o atti diretti  a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di
handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni
personali.

Nell’espressione “convinzioni personali”,
richiamata dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. n. 216 del 2003, caratterizzata
dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera
dei rapporti sociali, va quindi, riconnpresa la discriminazione per motivi
sindacali (si. v, Cass., sentenza n. 1 del 2000).

6.3. Tale assunto trova piena conferma nel quadro
delle garanzie poste in materia dalla Costituzione e dall’Ordinamento unionale.
La libertà sindacale è tutelata dall’art. 39, primo comma, Cost., nella sua
duplice valenza individuale e collettiva, e ha il suo necessario complemento
nell’autonomia negoziale (si v., Corte cost., sentenze n. 120 del 2018, n.
178  del 2015 n. 697 del 1988, n. 34 del
1985).

Poiché l’esercizio della libertà di associazione sindacale
sancita dal primo comma dell’art. 39 Cost. è possibile solo in un contesto
democratico (Corte cost., sentenza n. 120 del 2018), la libertà sindacale ha
come generico e generale presupposto l’esercizio delle libertà individuali di
riunione, di associazione e di manifestazione del pensiero (artt. 17, 18 e 21
Cost.), e ben può costituire oggetto di “convinzioni personali”, nel
senso che l’organizzazione sindacale è libera per definizione in un ordinamento
democratico, in quanto risultante dalla libera iniziativa dei soggetti
interessati.

Dunque, l’esercizio dei diritti riconducibili alla
libertà sindacale è una delle possibili declinazioni delle “convinzioni
personali” che non possono costituire fattore di discriminazione.

6.4. Anche in sede europea la libertà sindacale è
oggetto di promozione e riconoscimento.

Sul piano del diritto unionale, occorre ricordare
che l’art. 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
elevata a rango di diritto primario (art. 6, par. 1, TUE), enuncia il diritto
di libertà di associazione a tutti i livelli e segnatamente, tra gli altri, in
campo sindacale, con il corollario del 
diritto di ogni persona “di fondare sindacati insieme con altri e
di aderirvi per la difesa dei propri interessi”.

L’art. 28 CDFUE, inoltre, sancisce il diritto di
negoziazione e di azioni collettive dei lavoratori e dei datori di lavoro.

6.5. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo
(CEDU) dedica l’art. 11 alla libertà di riunione ed associazione, che ha ad
oggetto tra l’altro “il diritto di partecipare alla costituzione di
sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi”.

Sull’art. 11, la CEDU è intervenuta con le sentenze,
Grande Camera, 12 novembre 2008, caso Demir e Baykara c. Turchia (ricorso n.
34503/97), quinta sezione, 2 ottobre 2014, casi “Matelly c. Francia”
(ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n.
32191/09), terza sezione, 21 aprile 2015, Junta Rectora Del Ertzainen Nazional
Elkartasuna (ER.N.E.) c. Spagna (ricorso n. 45892/09).

6.6. A ciò va aggiunto che i diritti fondamentali,
garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali
(art. 6, par. 3, del TUE), e che l’art. 52, par. 3, della CDFUE prevede che
laddove la stessa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla
CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti
dalla suddetta convenzione, salvo una protezione più estesa.

6.7. Il diritto di associazione sindacale è,
altresì, promosso dalla Carta sociale europea -CSE- (v. artt. 19 e 24), che
costituisce il naturale completamento sul piano sociale della CEDU, dal rilievo
attribuito al “dialogo sociale” dall’art. 151 del TFUE, e dall’ art.
152, par. 1, del TFUE, che riconosce e promuove il ruolo delle parti sociali.

6.8. Dunque, come ricordato dalla Corte
costituzionale con la sentenza n.  178
del 2015, numerose fonti europee, nonché internazionali, quali le Convenzioni
OIL, evidenziano il nesso funzionale che lega un diritto a esercizio
collettivo, quale è la contrattazione e dunque l’attività sindacale di cui è
espressione, con la libertà sindacale dei lavoratori, offrendo un chiaro
argomento per la ricomprensione nella nozione di “convinzioni
personali”, che  non possono
costituire fattore di discriminazione, delle convinzioni sindacali.

6.9. Va, quindi esaminato, l’ulteriore profilo di
censura del terzo motivo di ricorso, che riguarda la legittimazione del
sindacato a promuovere l’azione art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, rispetto
alle condotte in questione. Ai sensi della direttiva n. 78/2000, art. 2, par.
2, lettera a), ” sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di
uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno
favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una
situazione analoga”.

Tale disposizione richiama l’attenzione sulla
disciplina dei mezzi di tutela  che
nell’assetto europeo sono riconosciuti alle persone che si ritengono lese, o
alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche, per conto o a
sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, che,
“conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni
nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della
presente direttiva siano rispettate”.

Il legislatore europeo (art. 9 della dir. 2000/78)
si limita ad imporre agli Stati membri di garantire, a favore degli enti
esponenziali delle collettività che il diritto antidiscriminatorio si propone
di tutelare, la legittimazione ad avviare procedure giurisdizionali, senza
tuttavia sancire una autonoma legittimazione ad agire.

I soggetti collettivi pur essendo legittimati a
partecipare al giudizio per conto e a sostegno della persona lesa, e dunque ad
esercitare in qualche modo l’iniziativa giudiziale a tutela di un interesse
collettivo, non sono posti nelle condizioni di poter svolgere concretamente
tale ruolo, in quanto l’esperibilità dell’azione collettiva è condizionata
espressamente al consenso della vittima.

Tuttavia, l’art. 8 della direttiva n. 78/2000, nel
dettare “requisiti minimi” prevede: “Gli Stati membri possono
introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di
trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella presente
direttiva.  (…) L’attuazione della
presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del
livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati
membri nei settori di applicazione della presente direttiva”.

Tale facoltà ha trovato piena conferma nella
giurisprudenza della CGUE.

Nella sentenza 25 aprile 2013, Associatia Accept,
causa C-81/12 (si. cfr., sentenza CGUE, sentenza 23 aprile 2020, causa
C-507/18, NH, Cass., sentenza n. 28646 del 2020), ma prima con riguardo alla
direttiva 43/2000, nella già citata sentenza Feryn, ha statuito che l’articolo
9, par. 2, della direttiva 2000/78 non osta in alcun modo a che uno Stato
membro, nella propria normativa nazionale, riconosca alle associazioni aventi
un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale direttiva il diritto
di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare
gli obblighi derivanti dalla direttiva stessa senza agire in nome di una
determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile.

L’assenza di un denunciante identificabile, dunque,
non può indurre a concludere per l’assenza di qualsivoglia discriminazione
diretta, poiché l’effettiva realizzazione degli interessi protetti dalla
legislazione comunitaria promozione di una partecipazione più attiva sul
mercato del lavoro-presuppone un ampliamento della nozione di discriminazione
diretta, tale da superare la necessità di una vittima identificabile.

6.10. La direttiva 78/2000 ha avuto attuazione con
il d.lgs. n 216 del 2003.

L’art. 5, comma 1, del citato d.lgs. 216, come
modificato dall’articolo 8-septies del d.l. n. 59 del 2008, conv. con mod.
dalla legge n. 101 del 2008, nel ripercorrere quanto stabilito dalla direttiva
prevede che “Le organizzazioni sindacali (…), in forza di delega (…),
sono legittimate ad agire (…) in nome e per conto o a sostegno del soggetto
passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile
il comportamento o l’atto discriminatorio”.

Tuttavia, in modo coerente con l’art. 8 della dir.
78/2000, l’art. 5, comma  2, del medesimo
d.lgs., prevede che i soggetti di cui all’art. 5, comma 1, tra cui vi sono le
organizzazioni sindacali, sono altresì legittimati ad agire nei casi di
discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e
immediato le persone lese dalla discriminazione.

Dunque, la disciplina nazionale, in conformità al
portato delle sentenze Feryn e Accept, va oltre le prescrizioni minime previste
dalla normativa europea e riconoscete a quegli stessi organismi, e per quanto
qui rileva alle organizzazioni sindacali, un potere di agire in giudizio per
contrastare le discriminazioni collettive sul lavoro a prescindere dal consenso
e in assenza di una vittima.

6.11. Il sindacato, quindi, in ragione delle
ricadute della clausola  “Estinzione
del contratto”, oltre che delle condotte poste in essere da R. al di fuori
dei rapporti contrattuali, ha agito legittimamente iure proprio e a titolo
extracontrattuale, per la tutela di interessi omogenei individuali, sia pure
non riferibili nella specie a vittime immediatamente o direttamente
identificabili della discriminazione, che sono rilevanti per la collettività,
atteso l’interesse di quest’ultima nel suo insieme a che non siano posti in
essere nei rapporti di lavoro, anche con riguardo all’accesso e alla
risoluzione, comportamenti discriminatori diretti che possono pregiudicare il
corretto e buon funzionamento del mercato del lavoro nel complesso, a cui
concorre il leale e corretto svolgimento delle relazioni sindacali, e il
conseguimento di obiettivi di politica sociale.

6.12. Infine, va esaminata la censura relativa alla
sussistenza della condotta discriminatoria.

La Corte d’Appello ha affermato il carattere
discriminatorio delle condotte poste in essere dalla società datrice di lavoro.

6.13. La discriminazione diretta si configura ove si
dimostri che il trattamento sarebbe stato diverso se non fosse stato per il
fattore di rischio (v., sentenza CGUG, 8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker,
laddove si afferma che “se la responsabilità di un datore di lavoro per
infrazione al principio della parità di trattamento fosse subordinata alla
prova della colpa e all’assenza di qualsiasi causa esimente contemplata dal
diritto nazionale vigente, l’effetto utile di questi principi sarebbe
notevolmente ridotto”).

6.14. Correttamente, in ragione dei principi
esposti, il giudice di secondo grado ha affermato che in ragione del carattere
collettivo della discriminazione,  andava
verificata la potenzialità lesiva delle condotte piuttosto che le conseguenze
lesive delle stesse.

Ha quindi accertato che: la società negava qualsiasi
rapporto con le organizzazioni sindacali diverse dall’unico sindacato irlandese
e ciò non solo in Italia, ma anche negli Stati membri dell’Unione europea; i
criteri organizzativi, per come pubblicizzati dalla stessa società e per come
risultava dalle ricerche universitarie prodotte dal sindacato ricorrente, erano
strutturati su una relazione diretta con i lavoratori, senza mediazioni e
interferenze da parte del sindacato; in quest’ottica veniva costruita la
clausola contrattuale denunciata dal ricorrente originario come
discriminatoria; che la clausola in questione fosse efficace era provato dalla
lettera del 12 dicembre 2017 con cui la società datrice di lavoro invitava
tutto il personale di cabina assegnato a basi italiani a non aderire allo
sciopero indetto dai sindacati italiani.

Come affermato dalla Corte d’Appello la circostanza
che la clausola fosse contenuta in un contratto collettivo non escludeva
quell’effetto dissuasivo, che già il Tribunale aveva riconosciuto, nei
confronti dei lavoratori che svolgevano o erano interessati a partecipare
all’attività sindacale. Ciò, sia che questi aspirassero all’assunzione presso
la società, sia che fossero già dipendenti della società stessa. Nel primo
caso, infatti, l’esistenza della clausola contrattuale non poteva non
distogliere dal candidarsi al posto di lavoro il lavoratore che fosse stato
iscritto a un sindacato, o che comunque intendeva aderire ad iniziative
sindacali.

Nel secondo caso, il carattere dissuasivo della
clausola era palese, poiché il singolo dipendente qualora avesse inteso aderire
ad un sindacato o ad azioni sindacali nel corso del rapporto di lavoro, sarebbe
incorso in un trattamento, dal punto di vista economico e delle modalità di
svolgimento della prestazione lavorativa, non favorevole.

Anche in relazione alla politica della società
appellante, il giudice di appello, alla luce delle risultanze istruttorie, ha
accertato una condotta in contrasto con il divieto di discriminazione.

6.15. Pertanto, alla luce dell’ accertamento di
fatto svolto, la Corte d’Appello correttamente, in applicazione dei principi
enunciati dalla CGUE e dalla giurisprudenza di questa Corte, ha ritenuto che
non vi erano dubbi che la politica di gestione del rapporto di lavoro da parte
della società datrice di lavoro, per quanto riguardava l’attività sindacale,
come pubblicizzata la stessa società, fosse una politica discriminatoria sia
sul fronte dell’accesso al lavoro,  sia
sul fronte del trattamento deteriore, rispetto ai colleghi di lavoro, in corso
di rapporto di lavoro.

7. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.: la nullità della sentenza
per violazione della disposizione in merito all’onere della prova di cui
all’art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, e dell’art. 2697, cod. civ.

7.1. La Corte d’Appello, ad avviso della società
ricorrente, avrebbe ribaltatote le regole dell’onere della prova, ponendolo
interamente a carico di essa ricorrente, atteso che la FILT CGIL di Bergamo non
aveva dato prova in  merito a comportamenti
o dichiarazioni del datore di lavoro o dati statistici tali da far presumere
una politica assuntiva discriminatoria da parte della società. Il giudice di
secondo grado aveva fatto errata applicazione dei principi contenuti nella
sentenza CGUE Feryn, secondo cui il datore di lavoro deve provare che le
dichiarazioni discriminatorie sono rimaste mere dichiarazioni non seguite da
una effettiva politica assuntiva discriminatoria.

Nel caso di specie non vi era stata alcuna
dichiarazione da parte di R. in merito alla volontà di escludere una determinata
categoria di  persone, né alcuna
allegazione in merito era stata fornita in giudizio.

Pertanto, la Corte d’Appello aveva errato nel
ritenere che la società fosse gravata dall’onere di fornire la prova della
mancata discriminazione, e nel ritenere provata per tale motivo la
discriminazione nel caso di specie.

8. Il motivo non è fondato.

8.1. Le direttive in materia (direttiva n. 2000/78,
così come le n. 2006/54 e n. 2000/43), come interpretate della Corte di
Giustizia, ed i decreti legislativi di recepimento impongono l’introduzione di
un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio
gravante sull’attore, prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di
fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia
avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare
l’insussistenza della discriminazione, (cfr., Cass. n. 23338 del 2018, Cass. n.
25543 del 2018).

L’interessato deve provare il fattore di rischio, il
trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a
soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio,
deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che rende
plausibile la discriminazione; il datore di lavoro deve dedurre e provare
circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e
concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto
dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri
nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si
fosse trovato nella stessa posizione, (cfr. Cass. n. 14206 del 13, CGUE,
sentenza 17 luglio 2008, causa C-303/06, Colemann, citata sentenza 10 luglio
2008, causa C-54/07, Feryn, sentenza 16 luglio 2015, causa C- 83/14, Chez).

8.2. Non si tratta, dunque, di una vera e propria
inversione dell’onere probatorio, bensì di un’agevolazione in favore del
soggetto che lamenti la discriminazione e che potrebbe trovarsi in una
situazione di difficoltà a  dimostrare
l’esistenza degli atti discriminatori, soprattutto nei casi di coinvolgimento
di una pluralità di lavoratori, e di tali principi la Corte d’Appello ha fatto
corretta applicazione con riguardo all’adempimento dei rispettivi oneri
probatori delle parti.

9. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art.
28, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, in combinato disposto con l’art. 56,
comma 2, del d.lgs. n. 216 del 2003, nonché dell’art. 1226 cod. civ.

È censurata la statuizione che ha condannato la
società al risarcimento del danno non patrimoniale, liquidato in via equitativa
in euro 50.000. Il sindacato aveva agito ai sensi dell’art. 5, comma 2, del
d.lgs. n. 216 del 2003, a fronte di una discriminazione collettiva, e pertanto
non poteva esservi condanna al risarcimento del danno, ex art. 28 – applicabile
solo nel caso dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 216 del 2003 – perché in tale
ipotesi non vi era alcun danno, seppure non patrimoniale, da ristorare.

Nel caso di specie il sindacato aveva agito in
proprio, pertanto la condanna al risarcimento non era giustificata. Né la
fattispecie di cui all’art. 28, comma 5, poteva annoverarsi ai danni puntivi ai
sensi della sentenza Cass., S.U. n. 16601 del 2017.

Erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto che
il semplice richiamo al danno punitivo potesse esonerarla da qualsiasi
accertamento in merito alla sussistenza del danno e alla sua quantificazione,
divenendo quindi la determinazione effettuata non equitativa ma arbitraria.

Tale liquidazione sarebbe stata fatta sia in
violazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2001, sia dei principi cardine
dell’ordinamento in materia di risarcimento del danno.

10. Il motivo non è fondato, in quanto il
dispositivo è conforme al diritto; tuttavia, ai sensi dell’art. 384, quarto
comma, cod. proc. civ., la motivazione deve essere corretta quanto alla
affermazione della Corte d’Appello della riconducibilità del risarcimento del
danno non patrimoniale in questione ai cd. danni punitivi.

10.1. Il sindacato quando agisce, come nel caso di
specie, iure proprio a  tutela di
interessi omogenei individuali di rilevanza generale, può chiedere ed ottenere
il risarcimento del danno non patrimoniale, come previsto dall’art. 28, comma
5, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui dispone che il giudice,
l’altro, può condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non
patrimoniale.

Come già affermato dalla giurisprudenza di
legittimità, proprio con riguardo al danno non patrimoniale, il pregiudizio
risarcibile nei confronti di un ente collettivo si identifica con la lesione
dell’interesse, diffuso o collettivo, del quale esso è portatore e garante e
coincide, sul piano obiettivo, con la violazione delle norme poste a tutela
dell’interesse medesimo, senza che si possa distinguere, a tali fini, tra
l’evento lesivo e la conseguenza negativa, in quanto dall’attività di tutela
degli interessi coincidenti con quelli lesi o posti in pericolo deriva, in capo
all’ente esponenziale, una posizione di diritto soggettivo che lo legittima
all’azione risarcitoria (Cass., sentenza n. 22885 del 2015).

10.2. La Corte territoriale ha correttamente fatto
applicazione del disposto di cui all’art. 28, comma 5, d.lgs. 150 del 2011,
riconoscendo al sindacato il risarcimento del danno non patrimoniale in ragione
dell’accertamento che la politica dissuasiva di R., compagnia aerea molto nota,
aveva avuto un’ampia risonanza mediatica, era stata mantenuta a lungo e
lungamente reiterata, ed aveva avuto perciò un contenuto fortemente
scoraggiante dell’impegno sindacale che l’organizzazione appellata tendeva a
promuovere.

10.3. Erroneamente, tuttavia, la Corte d’Appello ha
ricondotto tale danno nell’alveo dei cd. danni punitivi, di cui alla sentenza
di questa Corte, S.U., n. 16601 del 2017.

Va, in proposito osservato che l’art. 17 della
direttiva 2000/78 sancisce: «Gli Stati membri determinano le sanzioni da
irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della presente
direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione.
Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere
effettive, proporzionate e dissuasive (…)».

La sentenza CGUE Feryn, ha indicato (par. 39) quali
possibili misure da adottare in caso di discriminazione la “concessione di
un risarcimento dei danni in favore dell’organismo che ha avviato la procedura
giurisdizionale”.

Dunque, il rimedio alla discriminazione deve
rispondere ai requisiti stabiliti dal diritto unionale, e deve essere
effettivo, proporzionale, dissuasivo (si cfr., sia pure pronunciata in un
diverso ambito, la sentenza Cass., S.U., n. 5072 del 2016, che ha affermato
l’esigenza di misure di contrasto dell’abusivo ricorso al termine nei contratti
di lavoro, in contrasto con la direttiva 999/70/CE, che siano non solo
proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e dissuasive, esigenza quale
si ricava dalla normativa europea nella ricostruzione operatane dalla Corte di
giustizia).

Il principio di effettività è funzionale a garantire
il raggiungimento degli scopi perseguiti dall’Unione europea nel singolo
settore di intervento ed è sancito nell’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE,
dove si prevede: “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali
necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori
disciplinati dal diritto dell’Unione”.

Dal punto di vista soggettivo, il principio di
effettività rafforza i diritti riconosciuti dalle direttive ai singoli cittadini
dell’Unione sul piano sostanziale e processuale (art. 47 CDFUE).

Il principio di effettività, pertanto ha anche la
funzione di anticipare la soglia della tutela apprestata fino al punto in cui
non vi siano vittime della discriminazione reali ma solo potenziali.

Di talché, il risarcimento del danno non
patrimoniale che viene qui in rilievo si caratterizza per una connotazione
dissuasiva, che esula dai cd. danni punitivi, soprattutto laddove si consideri
che la discriminazione collettiva rileva anche in assenza di un soggetto
immediatamente identificabile.

10.4. Si osserva, infine che la determinazione
equitativa di un importo a titolo di risarcimento, nel caso ex art. 28 d.lgs.
n. 150 del 2011, è questione di fatto, che non può essere proposta in sede di legittimità
se non sotto il profilo del vizio di motivazione, qui nemmeno lamentato (Cass.,
sentenza n. 28646 del 2020).

È consolidato infatti l’orientamento secondo cui
l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di
liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di
legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto
dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito.

11. Il ricorso deve essere rigettato.

12. Le spese del giudizio di legittimità seguono la
soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

13. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1- quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in euro 9,000,00 per compensi professionali, euro 200,00
per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1- quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 luglio 2021, n. 20819
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