Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 settembre 2021, n. 25732

Licenziamento per giusta causa, Illegittimità,
Reintegrazione nel posto di lavoro, Accertamento della diffusione di un virus
nella rete aziendale

Fatti di causa

 

1. Con ricorso ai sensi dell’art. 1 comma 47 della legge 28 giugno
2012, n. 92, P.C. impugnava dinanzi al Tribunale di Roma il licenziamento
per giusta causa intimatole il 29 gennaio 2016 dalla Fondazione Accademia
Nazionale di S.C. chiedendo che ne fosse accertata l’illegittimità e fosse
disposta la sua reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della legge 20 maggio
1970 n. 300 e sue successive modificazioni. All’esito della fase sommaria
il Tribunale rigettava il ricorso. In sede di opposizione veniva invece
dichiarata l’illegittimità del recesso e disposta la reintegrazione della
lavoratrice nel posto di lavoro.

2. In seguito all’accertamento della diffusione di
un virus nella rete aziendale l’amministrazione del sistema informatico della
Fondazione aveva eseguito un accesso sul computer della lavoratrice, appurando
che nella cartella di download del disco fisso della C. era presente un file
scaricato che aveva propagato il virus che, partito dal computer aziendale in
uso alla lavoratrice, aveva iniziato a propagarsi nella rete della Fondazione,
criptando i files all’interno di vari dischi di rete, rendendo gli stessi
illeggibili e quindi inutilizzabili. In occasione dell’intervento venivano in
rilievo numerosi accessi – da parte della lavoratrice – a siti che all’evidenza
erano stati visitati per ragioni private, per un tempo lungo, tale da integrare
una sostanziale interruzione della prestazione lavorativa.

3. Con lettera del 30.11.2015 alla C. veniva
contestato, per il periodo 16.10.2015-16.11.2015:

a) L’impiego di mezzi informatici messi a
disposizione dal datore di lavoro per l’esecuzione della prestazione lavorativa
a soli fini privati ed in violazione delle disposizioni impartite in ordine
all’utilizzo degli stessi nonché dei più elementari doveri di diligenza,
correttezza e buona fede nell’esecuzione della prestazione;

b) la sostanziale interruzione in tutto il periodo
di riferimento della prestazione lavorativa, visti tempi e quantità di
navigazione per fini privati;

c) l’aver causato con il suo operato gravi danni al
patrimonio aziendale sia per la perdita dei dati sia per l’impossibilità degli
uffici della Fondazione di accedere alle cartelle elettroniche danneggiate per
tutto il tempo necessario al ripristino del sistema;

d) La recidiva, tenuto conto dell’evenienza che, a
fronte della contestazione disciplinare datata 26.11.2013, prot. n. 10323, le
era stata applicata, in data 19.12.2013, prot. n. 1539, la sanzione del
licenziamento per giusta causa, successivamente convertita in via transattiva
in sospensione dal servizio.

4. Assunte le giustificazioni della lavoratrice, si
giungeva al citato licenziamento.

5. Adita dalla lavoratrice con ricorso presentato ex
art. 145 d.lgs. n. 196/2003,
l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, con delibera
12.10.2016, ordinava alla Fondazione di astenersi dall’effettuare qualsiasi
ulteriore trattamento dei dati acquisiti dalla cronologia del browser G.C. del
computer aziendale in uso alla ricorrente e relativi al periodo
16.10.2015-16.11.2015, “… eccettuata la mera conservazione degli stessi
ai fini della loro eventuale acquisizione da parte giudiziaria…”. Con
sentenza n. 5987 del 28.3.2018 il Tribunale di Roma confermava tale delibera.

6. In sede di opposizione, il Tribunale – giudice
del lavoro – riteneva:

a) che la delibera dell’Autorità Garante non ostava
alla utilizzazione nel processo dei dati estratti dal computer aziendale in uso
alla lavoratrice, non operando un regime di “giudicato” per le
pronunce dell’Autorità ed anzi avendo il predetto Ufficio affermato che i dati
in questione erano conservabili dalla parte datoriale a fini di difesa in giudizio;

b) che l’acquisizione dei predetti dati non si era
risolta in un controllo a distanza vietato dall’art. 4 I. n. 300 del 1970,
perché la verifica del datore di lavoro è stata finalizzata a bonificare il
sistema informatico della Fondazione dal virus che ne poneva in pericolo il
funzionamento, senza alcun intento di sorvegliare l’adempimento della
prestazione lavorativa dovuta dalla C.;

c) che, tuttavia, il comportamento della lavoratrice
non aveva esposto la Fondazione al rischio dell’applicazione di una sanzione
prevista dal d.lgs. n. 231/2001, e, tenuto
conto di vari fattori, come la non assoluta incompatibilità con le mansioni
della lavoratrice degli accessi riscontrati, la loro parziale esecuzione in
orario notturno e il difetto di contestazioni da parte datoriale di mancato
rispetto da parte delle lavoratrice di termini o incombenze di lavoro
arretrato, o la sussistenza di lavoro, non si poteva ritenere che lo stesso
comportamento avesse leso irreparabilmente il rapporto di fiducia con l’ente
non consentendo la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, il
licenziamento si doveva ritenere sproporzionato alle mancanze riscontrate, per
cui veniva accordata la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del
1970 nel testo antecedente all’entrata in vigore della I. n. 92/2012.

7. Investita del reclamo della Fondazione e di
quello incidentale della C., la Corte di appello di Roma, in riforma della
sentenza del Tribunale, rigettava il ricorso introduttivo proposto dalla C.,
che condannava al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

8. La Corte territoriale ha ritenuto, sul punto non
discostandosi dalle conclusioni del Tribunale, che i dati che la Fondazione
aveva acquisito dal browser G.C. del computer aziendale in uso alla C.,
relativi al periodo 16.10 16.11.2015, potevano essere conservati “ai fini
della loro eventuale acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria” e,
perciò, legittimamente erano stati utilizzati a tale fine nel giudizio.

9. La stessa Corte ha escluso che fosse
configurabile la violazione dell’art.
4 dello Statuto dei lavoratori atteso che, come già accertato dal
Tribunale, il controllo sul computer aziendale della C. si era reso necessario
per verificare l’origine del virus che aveva infettato il sistema informatico
della Fondazione criptando dati e causandone in parte irrimediabilmente la
perdita. Ha ritenuto corretta la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale
evidenziando che il giudice dell’opposizione aveva ritenuto sproporzionata la
sanzione irrogata.

10. Diversamente dal giudice dell’opposizione, però,
la Corte di merito ha ritenuto che l’ingente numero di accessi ad internet
aveva natura ludica e privata. Inoltre ha posto in rilievo che non era stata
provata la sincronizzazione con il computer aziendale di dispositivi mobili,
così svalutando il rilievo dell’ora notturna alla quale erano stati eseguiti
alcuni accessi, circostanza che era stata dal Tribunale valutata in favore
della lavoratrice, e che dai numerosi accessi ad internet per fini personali
era risultata frammentata la prestazione lavorativa resa in maniera
discontinua, in modo da svilire la qualità dei compiti a lei affidati. Ha poi
ritenuto provata l’intenzionalità della condotta e proporzionata la sanzione in
relazione alla avvenuta violazione dell’art. 33 del c.c.n.I. applicato dalla
Fondazione. Ha accertato infatti che con il suo comportamento la lavoratrice
aveva consapevolmente trasgredito alle indicazioni date dalla Fondazione con
riguardo all’uso degli strumenti informatici, indicazioni delle quali era stata
compiutamente resa edotta, così sottraendo energie alla prestazione lavorativa
ed incrinando irrimediabilmente la fiducia datoriale in relazione alla
correttezza del futuro adempimento della prestazione, tenuto conto anche della
sanzione disciplinare già irrogatale nel 2013 per una violazione che presentava
analogie con quella contestata corroborando la valutazione di gravità della
condotta.

11. Per la cassazione della sentenza ricorre P.C.,
che articola tre motivi ai quali resiste con controricorso la Fondazione
Accademia Nazionale di S.C.. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

12. Inizialmente fissata alla pubblica udienza del 5
marzo 2020, la discussione del ricorso veniva rinviata a nuovo ruolo, e
rifissata all’udienza odierna, in considerazione della novità e del rilievo
nomofilattico delle questioni relative all’interpretazione del novellato art. 4 della legge n. 300 del 1970
e considerata l’opportunità della trattazione in un’unica udienza degli altri
ricorsi pendenti che investono analoghe questioni.

13. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha
depositato conclusioni scritte ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, d.l. n. 137/2020,
conv, in I. n. 176/2020, concludendo per il
rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Preliminarmente si osserva che in memoria la
parte ricorrente ha richiesto, in considerazione della complessità e della novità
delle questioni sollevate in ricorso, la rimessione della trattazione del
ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte ai sensi dell’art. 376 cod.proc.civ. Non ritiene la Corte
opportuno, a questo stadio, l’intervento del Supremo Collegio.

2. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod.
civ. dell’art. 4 della
legge 20 maggio 1970 n. 300, dell’art. 160 comma 6 del Codice della
privacy, dell’art. 2702 e ss. cod. civ. e
degli artt. 115 e 245
cod. proc. civ. per avere ritenuto utilizzabili a fini disciplinari e
comunque dimostrabili le informazioni acquisite in violazione dei diritti di
informativa e dei diritti stabiliti dal codice della privacy.

3. Sostiene la ricorrente che la datrice di lavoro,
la quale aveva acquisito la cronologia dei dati di accesso ad internet dalla
postazione della C. in occasione della ricerca di un virus informatico, non
avrebbe potuto utilizzare tali dati a fini disciplinari in quanto, in assenza
di un’adeguata informazione alla lavoratrice delle modalità di effettuazione
dei controlli, l’ulteriore utilizzo per i fini connessi al rapporto di lavoro
ne è precluso.

4. Evidenzia inoltre la lavoratrice che con
ordinanza del Tribunale di Roma, davanti al quale era stato impugnato il
provvedimento dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, era
stata confermata l’avvenuta violazione degli obblighi di informativa regolati
anche dal d.lgs. n.196 del 2003 e l’eccedenza
del trattamento rispetto alle sue finalità ed era stato intimato alla datrice
di lavoro di astenersi dall’effettuare qualsiasi ulteriore trattamento dei dati
acquisiti e relativi al periodo 15.10 – 15.11.2015. L’inutilizzabilità delle
informazioni si riverbera ad avviso della ricorrente sul piano della prova
dell’illecito disciplinare che sarebbe stata illegittimamente acquisita;

5. Ritiene la ricorrente che la completa irrilevanza
giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale (cfr. Cass. 20540/2015), giacché non può essere provato
ciò che si fonda su informazioni non utilizzabili. La preclusione di cui all’art. 4 comma 3 opera
sull’utilizzabilità dell’informazione.

6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod.
civ., dell’art. 18 comma 4
legge 20 maggio 1970 n. 300 nonché degli artt.
1362, 1363, 1364
e 1365 cod.civ. e dell’art. 1370 cod. civ. con riguardo alle disposizioni
del codice etico e del sistema disciplinare dell’Accademia di S.C. che
prevedono l’applicazione di sanzioni espulsive sulla base di una graduazione di
mancanze da gravi a gravissime legate anche all’esistenza di danni per l’ente.
Nel caso in cui si ritenga ammissibile l’utilizzo delle informazioni acquisite
in violazione dei limiti dell’art.
4 della legge n. 300 del 1970 la Corte di merito non avrebbe potuto
distaccarsi dalla tipizzazione degli illeciti contenuta nel codice etico e nel
sistema disciplinare. Se correttamente interpretata la condotta avrebbe potuto
essere punita, al più, con una sanzione conservativa (sanzione della
sospensione fino a cinque o fino a dieci giorni) trattandosi di svolgimento di
attività ludiche durante l’orario di lavoro senza che ne sia stato arrecato un
grave danno al patrimonio aziendale. Evidenzia la lavoratrice che per il
licenziamento per giusta causa è necessario che la condotta violi una o più
regole o principi previsti dal Modello, Codice Etico, Protocolli e dagli
obblighi informativi dell’organismo di vigilanza tale da esporre l’Accademia al
rischio di una sanzione prevista dal d.lgs. n. 231
del 2001 e da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario. Tanto premesso
la ricorrente sottolinea che la condotta accertata non espone al rischio di
sanzione prevista dal d.lgs. n. 231 del 2001
che prevede reati assai più gravi quali il peculato, la corruzione, la
pedopornografia etc. Al contrario la sanzione conservativa della sospensione
fino a dieci giorni è irrogata nel caso in cui sussista un danno patrimoniale e
persino nel caso di esposizione ad una situazione oggettiva di pericolo.
Erroneamente, perciò, la Corte di merito prescindendo dalla valutazione di
proporzionalità effettuata dalla previsione contrattuale avrebbe irrogato il
licenziamento per una condotta punita con una sanzione conservativa. Né avrebbe
rilievo il richiamo ad un precedente risalente nel tempo ai fini della
valutazione della gravità della condotta. La recidiva può incidere solo nella
misura in cui sia prevista nella condotta tipizzata (richiama Cass. 6165 del 2016 e 13787/2016).

7. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., degli
artt. 1362, 1363,
1364 e 1365
cod.civ. e degli artt. 347 cod.proc.civ.
con riferimento alla eccezione di tardività della sanzione sospensiva di 10
giorni applicata alla C.. La Corte territoriale avrebbe erroneamente
interpretato la memoria difensiva in appello con la quale era stata denunciata
la tardività e inutilizzabilità ai fini della recidiva della sanzione
conservativa applicata in esito ad un accordo intervenuto tra le parti in
occasione di un precedente procedimento disciplinare ed avrebbe trascurato di
pronunciare sui rilievi con tale memoria formulati così incorrendo nelle
violazioni denunciate.

8. Il primo motivo pone il tema, di indubbio rilievo
nomofilattico, della compatibilità dei c.d. “controlli difensivi”,
concetto elaborato dalla giurisprudenza precedentemente alla modifica dell’art. 4 dello Statuto dei
lavoratori recata dall’art. 23
del d.lgs. n. 151 del 2015 (uno dei decreti del c.d. Jobs Act) e dall’art. 5 d.lgs. n. 185 del 2016,
con l’attuale assetto normativo. È dall’inquadramento in questa categoria dei
controlli effettuati dalla Fondazione resistente, cioè della raccolta dei dati
estratti dal computer in uso alla ricorrente, della loro conservazione e della
loro utilizzazione in sede disciplinare che la Corte territoriale ha fatto
discendere l’inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 4 citato nella sua
attuale versione, astrattamente applicabile ratione temporis.

I “controlli difensivi” prima della
modifica dell’art. 4 St. lav.

9. L’originaria versione dell’art. 4 St.lav. (recante
“Impianti audiovisivi”) disponeva: “1. È vietato l’uso di
impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a
distanza dell’attività dei lavoratori. 2. Gli impianti e le apparecchiature di
controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero
dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di
controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati
soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in
mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su
istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove
occorra, le modalità per l’uso di tali impianti. 3. Per gli impianti e le
apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al
secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le
rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato
del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge,
dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso
degli impianti suddetti. 4. Contro i provvedimenti dell’Ispettorato del lavoro,
di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le
rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione
interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere,
entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il
lavoro e la previdenza sociale”.

10. La norma contemplava, in sostanza, due livelli
di protezione della sfera privata del lavoratore: uno pieno, mediante la
previsione del divieto assoluto di uso di impianti audiovisivi e di altre
apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori non sorretto da ragioni inerenti all’impresa (ossia, il cd.
controllo fine a sé stesso); l’altro affievolito, ove le ragioni del controllo
fossero state riconducibili ad esigenze oggettive dell’impresa, ferma restando
l’attuazione del controllo stesso con l’osservanza di determinate
“procedure di garanzia”.

11. Quanto alla ratio, la giurisprudenza di questa
Corte ha evidenziato, da un lato, che la disposizione statutaria fa parte di
quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni
del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità
di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della
dignità e della riservatezza del lavoratore, sul presupposto – espressamente
precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorché
necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione
umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la
vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e
di autonomia nello svolgimento del lavoro. Si è altresì precisato, d’altro canto,
che la garanzia procedurale prevista per impianti ed apparecchiature
ricollegabili ad esigenze produttive contempera l’esigenza di tutela del
diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore
di lavoro, o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla
organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa
procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi (Cfr., per tutte, Sez. L, 17 luglio 2007, n. 15892, in motivazione,
sulla scorta di Sez. L, 17 giugno 2000, n. 8250, del pari in motivazione,
richiamata, sul punto, in quasi tutte le sentenze successive vertenti sul
tema).

12. Questione centrale, dal punto di vista del tema
che oggi occupa la Corte, era verificare se l’esigenza di tutela del patrimonio
aziendale potesse esonerare il datore di lavoro intenzionato ad installare
apparecchiature di controllo a distanza indipendentemente dalla necessità di
ottenere l’accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa.

13. Pur potendo, infatti, tale esigenza rientrare,
teoricamente, in quella “produttiva”, essendo chiaro che la
produttività dell’azienda si fonda sui risultati del lavoro – annientati ove,
ad esempio, si verifichi una appropriazione di denaro in cassa ad opera del
preposto – e sugli investimenti – verosimilmente vanificati ove i beni
aziendali siano danneggiati o gli strumenti di lavoro sottratti -, era forte la
convinzione che la legittimazione del datore di lavoro a proteggere il proprio
patrimonio da attacchi “esterni” non potesse subire compressione a
fronte di eventuali attacchi provenienti dall’interno (non poco insidiosi, in
quanto verificabili con maggior frequenza in ambito lavorativo), tenuto conto
dei poteri insiti nella titolarità dell’impresa.

14. D’altra parte, sembrava difficilmente
accettabile l’idea che l’attuazione – quanto a modalità e tempi,
necessariamente rapidi – di misure strategiche intese ad un controllo avente
finalità meramente conservativa dovesse essere il frutto di una negoziazione,
dagli esiti eventualmente incerti, o di una autorizzazione non priva di vincoli
e condizioni tali da impoverire l’iniziativa messa in campo dal datore.

15. La giurisprudenza di questa Corte ha quindi
elaborato, onde consentire al datore di lavoro di contrastare comportamenti
illeciti del personale, la categoria dei c.d. “controlli difensivi”.

16.Secondo l’indirizzo giurisprudenziale più recente
e più evoluto, «esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 4, comma 2, St. lav. (nel
testo anteriore alle modifiche di cui all’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151
del 2015) e non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste, i
“controlli difensivi” da parte del datore se diretti ad accertare
comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto
più se disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito,
così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione
lavorativa. (Nella specie, è stata ritenuta legittima la verifica
successivamente disposta sui dati relativi alla navigazione in internet di un
dipendente sorpreso ad utilizzare il computer di ufficio per finalità extralavorative)»
(Cass., 28 maggio 2018, n. 13266).

17. In altri termini, i controlli datoriali a
distanza, detti “difensivi”, non erano assoggettati ai presupposti di
legittimità stabiliti dal previgente art. 4, secondo comma, St.lav.
in presenza di due condizioni necessarie e di una eventuale.

18. Era in primo luogo indispensabile che
l’iniziativa datoriale avesse la finalità specifica di accertare determinati
comportamenti illeciti del lavoratore. A tale ultimo riguardo poteva porsi il
problema su come potesse adeguatamente esercitarsi il sindacato giudiziale
sulla effettività (nonché veridicità) della finalità perseguita (ben potendo
accadere che il datore esercitasse il controllo sull’attività lavorativa al di
fuori di ogni garanzia e, per così dire, “a pioggia”, ossia sulla
generalità dei dipendenti, sul presupposto, meramente affermato, di voler
accertare la commissione di determinati illeciti ad opera di un singolo lavoratore).

19. L’altro presupposto necessario era che gli
illeciti da accertare fossero lesivi del patrimonio o dell’immagine aziendale
(Cfr., tra le altre, Sez. L, 23 febbraio 2012, n.
2722, cit., che ha ritenuto legittimo il controllo effettuato da un
istituto bancario sulla posta elettronica aziendale del dipendente accusato di
aver divulgato notizie riservate concernenti un cliente, e di aver posto in
essere, grazie a tali informazioni, operazioni finanziarie da cui aveva tratto
vantaggi propri; ciò sul rilievo che esula dal campo di applicazione dell’art. 4, comma 2, St.lav.,
nella sua originaria versione, il caso in cui il datore abbia posto in essere
verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi
del patrimonio e dell’immagine aziendale).

20. Il terzo presupposto era che i controlli fossero
stati disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito,
così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione
lavorativa; la sussistenza di tale presupposto offre plausibile attestazione
della veridicità dell’intento datoriale, che, diversamente, non sarebbe, quale
elemento facente parte della sfera interna del datore, agevolmente sindacabile
(Cfr., al riguardo, Cass., 5 ottobre 2016, n.
19922, che ha ritenuto illegittimo il controllo effettuato mediante GPS
installato sulle vetture in uso ai lavoratori, in quanto predisposto ex ante ed
in via generale ben prima che si potessero avere sospetti su una eventuale
violazione da parte del lavoratore licenziato.

21. Tale presupposto era però da considerare come
eventuale, poiché ritenuto, per lo più, dalla giurisprudenza un fattore avente
funzione meramente confermativa della effettività del controllo difensivo;
pertanto esso poteva mancare, essendo sufficiente il mero sospetto circa
l’esecuzione di illeciti, quale ulteriore requisito di legittimità del
controllo difensivo, senza che la natura difensiva del controllo venisse in
astratto meno (salvo il problema di accertare, per altre vie, la esclusiva
destinazione di esso all’accertamento di determinati illeciti; cfr., mutatis
mutandis, Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590).

22. Sebbene i “controlli difensivi”
fossero sottratti all’area di operatività dell’originaria versione dell’art. 4, comma 2, St. lav., era
chiaro nella giurisprudenza che essi non potevano comunque essere esercitati
liberamente dal datore di lavoro al di fuori di regole di civiltà e di criteri
ragionevoli volti a garantire, con l’impiego di determinati accorgimenti e
cautele, un adeguato bilanciamento tra le esigenze di salvaguardia della
dignità e riservatezza del dipendente e quelle di protezione, da parte del
datore di lavoro, dei beni (in senso lato) aziendali.

23. Sicché la disciplina dei controlli in questione
è stata ricostruita mediante il richiamo ai principi di buona fede e
correttezza (cfr. Cass. 27 maggio 2015, n. 10955,
in motivazione, secondo cui deve restare ferma «la necessaria esplicazione
delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e
rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali
l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della
organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre
secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale»., di
proporzionalità e pertinenza (cfr., sulla proporzionalità: Cass. 18 luglio 2017, n. 17723 secondo cui: «Sono
invasivi i controlli cd. difensivi, sotto l’aspetto temporale, eccedenti i
limiti della adeguatezza e proporzionalità e, sotto il profilo sostanziale,
indebitamente ricadenti sugli aspetti privati e personali estranei all’oggetto
e al fine dell’indagine».; sulla pertinenza: Cass.
10 novembre 2017, n. 26682, in motivazione, secondo cui : «Pertanto,
considerato che (…) il controllo era del tutto svincolato dall’attività
lavorativa ed era stato effettuato per verificare se la strumentazione
aziendale in dotazione fosse stata utilizzata per la perpetrazione di illeciti;
che esso, al di fuori di una verifica preventiva a distanza dell’attività dei
lavoratori, era stato occasionato da una anomalia di sistema tale da ingenerare
il ragionevole sospetto dell’esistenza di condotte vietate e, quindi,
giustificato dal motivo legittimo di tutelare il buon funzionamento
dell’impresa nonché i dipendenti che vi lavorano, anche al fine di evitare di
esporre l’azienda a responsabilità derivanti da attività illecite compiute in
danno di terzi; che l’acquisizione dei dati era stata effettuata con modalità
non eccedenti rispetto alle finalità del controllo e, quindi, nell’osservanza
dei criteri di proporzionalità, correttezza e pertinenza, che non sono stati
rilevati elementi dai quali desumere che il datore di lavoro avrebbe potuto
utilizzare misure e metodi meno invasivi per raggiungere l’obiettivo perseguito
(…)».anche ricavabili da disposizioni contenute nel “Codice Privacy”.),
nonché nel quadro della normativa europea ; sì da potersi affermare la
illegittimità di un controllo difensivo attuato, comunque, in contrasto con
detti principi.

La questione della “sopravvivenza” dei
“controlli difensivi” nel regime normativo fissato dalla nuova
formulazione dell’art. 4 St.
lav.

24. L’art.
23 del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151, prevede, per quanto qui interessa:
“1. L’articolo 4 della
legge 20 maggio 1970, n. 300 e sostituito dal seguente: «Art. 4 (Impianti audiovisivi e
altri strumenti di controllo). – 1. Gli impianti audiovisivi e gli altri
strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza
dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per
esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la
tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo
collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle
rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con
unita produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più
regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e
gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa
autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel
caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di
più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle
politiche sociali. 2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli
strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e
agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. 3. Le
informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini
connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata
informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei
controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196.»”.

25. L’art.
5, comma 2, del d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185, dispone: “All’articolo 4, comma 1, della legge
20 maggio 1970, n. 300 il terzo periodo è sostituito dai seguenti: «In
mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo
possono essere installati previa autorizzazione delle (recte:
“della”) sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o,
in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti
di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato
nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono
definitivi»”.

26. La norma ribadisce implicitamente la regola che
il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori non è legittimo ove non
sia sorretto dalle esigenze indicate dalla norma stessa. Sicché il controllo
“fine a sé stesso”, eventualmente diretto ad accertare inadempimenti
del lavoratore che attengano alla effettuazione della prestazione, continua ad
essere vietato. Ciò non esclude, però, come si era ritenuto con riguardo alla
superata disposizione dell’art.
4 St.lav., che ove il controllo sia invece legittimo, le informazioni
raccolte in esito ad esso possano essere utilizzate dal datore di lavoro per
contestare al lavoratore ogni sorta di inadempimento contrattuale.

27. La giurisprudenza di merito e la dottrina si
sono poste la questione della eventuale sopravvivenza dei c.d. “controlli
difensivi” dopo la modifica dell’art. 4 St. lav. ad opera dell’art. 23 del d.lgs. n. 151/2015.
Né dall’una né dall’altra sono venute risposte univoche.

28. Va subito evidenziato, a tale riguardo, che i
controlli aventi ad oggetto il patrimonio aziendale sono, ai sensi della nuova
versione dell’art. 4 St.lav.,
assoggettati ai presupposti di legittimità ivi previsti, per cui si pone la
questione se i “controlli difensivi” non debbano oramai ritenersi
completamente attratti nell’area di operatività dell’art. 4 St. lav., avendo il
legislatore indicato, tra le esigenze da soddisfare mediante l’impiego dei
dispositivi potenzialmente fonte di controllo, accanto a quelle organizzative e
produttive e a quelle relative alla sicurezza del lavoro, per l’appunto quelle
di “tutela del patrimonio aziendale”, ovvero se anche sotto l’impero
della nuova versione dell’art.
4 St. lav. debba continuare a riconoscersi ai “controlli
difensivi” diritto di cittadinanza.

29. Ritiene la Corte che possa soccorrere in questo
contesto la distinzione tra i “controlli difensivi” in senso lato e
quelli in senso stretto.

30. Si è osservato che la giurisprudenza ammissiva
dei “controlli difensivi” nella vigenza del vecchio testo dell’art. 4 St. lav., e quindi
della legittimità del controllo anche in assenza del preventivo accordo
sindacale o dell’autorizzazione amministrativa, dato che oggetto del controllo
sarebbe stata non già l’attività lavorativa, bensì l’illecito commesso durante
la prestazione lavorativa, derivava da quella che ammette, ai sensi dell’art. 3 St. lav., i controlli
occulti tramite agenzie investigative diretti ad accertare condotte penalmente
rilevanti dei lavoratori in occasione della prestazione (Cass., 22 maggio 2017,
n. 12810; Cass., 4 dicembre 2014, n. 25674; Cass., 4 marzo 2014, n. 4984). Se ne è tratta la
conclusione che questa tesi sembra difficilmente armonizzabile con la
disciplina dei controlli tecnologici contenuta nell’art. 4 proprio per le modalità
di funzionamento di tali controlli. A differenza di un incarico ad un’agenzia
investigativa, che può essere limitato ai soli accertamenti necessari ad
verificare l’eventuale illecito del singolo dipendente ed essere ritenuto
legittimo proprio perché così circoscritto, l’impiego di controlli tecnologici
attraverso un sistema informatico che tenga traccia di tutti i dati relativi
all’attività di lavoro svolta dall’insieme dei dipendenti sarebbe privo di ogni
selettività e non sarebbe ammissibile, perché non orientato specificamente
sull’attività illecita, ma in modo indifferenziato sulle prestazioni rese da
tutti i lavoratori.

31.Occorre perciò distinguere tra i controlli a
difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di
dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a
contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere
realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i
suoi aspetti e “controlli difensivi” in senso stretto, diretti ad
accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti
indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la
prestazione di lavoro.

32. Si può ritenere che questi ultimi controlli,
anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale
attività del lavoratore, si situino, anche oggi, all’esterno del perimetro
applicativo dell’art. 4.

33. In effetti, come è stato osservato,
l’istituzionalizzazione della procedura richiesta dall’art. 4 per l’installazione
dell’impianto di controllo sarebbe coerente con la necessità di consentire un
controllo sindacale, e, nel caso, amministrativo, su scelte che riguardano l’organizzazione
dell’impresa; meno senso avrebbe l’applicazione della stessa procedura anche
nel caso di eventi straordinari ed eccezionali costituiti dalla necessità di
accertare e sanzionare gravi illeciti di un singolo lavoratore.

34. Questa soluzione è stata accolta da parte della
giurisprudenza di merito, ad esempio dal Tribunale di Roma con la sentenza 24
marzo 2017, in Diritto delle relazioni industriali, 2018, II, 265, secondo cui
«È legittimo il controllo c.d. difensivo del datore di lavoro sulle strutture
informatiche aziendali in uso al lavoratore, a condizione che esso sia
occasionato dalla necessità indifferibile di accertare lo stato dei fatti a
fronte del sospetto di un comportamento illecito e che detto controllo
prescinda dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione
lavorativa essendo, invece, diretto ad accertare la perpetrazione di eventuali
comportamenti illeciti. “

35. Inoltre, la tesi della sopravvivenza dei
“controlli difensivi”, sotto il profilo della sua compatibilità con
la tutela della riservatezza di cui all’art. 8 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, trova conforto nella giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo che, in particolare nella sentenza di Grande Camera del
17 ottobre 2019, nel caso Lopez Ribalda e altri c. Spagna. Si trattava di una
fattispecie nella quale il gestore di un supermercato, dopo aver riscontrato
discrepanze tra le scorte di magazzino e gli incassi di fine giornata, e
sospettando che ciò dipendesse da illecite condotte appropriative di beni e/o
denaro aziendale poste in essere da uno o più dipendenti, aveva installato
all’interno del negozio dei dispositivi di videoripresa all’insaputa dei
lavoratori, in posizione utile alla sorveglianza generalizzata ed indistinta di
tutto il personale di volta in volta addetto al bancone di cassa, in tal modo
appurando che le condotte sospettate si verificavano effettivamente. La Corte
europea ha ritenuto la legittimità dell’iniziativa datoriale, in quanto
proporzionata rispetto al fine (in sé legittimo) di tutelare l’interesse
organizzativo-patrimoniale del datore di lavoro, ritenendo quindi che le corti
nazionali avessero correttamente valutato che le misure adottate a tutela della
privacy dei ricorrenti erano appropriate. La Corte europea ha osservato che :
«(…) se non è accettabile la posizione secondo cui anche il minimo sospetto
di appropriazione illecita possa autorizzare l’installazione di strumenti
occulti di videosorveglianza, tuttavia l’esistenza di un ragionevole sospetto
circa la commissione di illeciti connotati da gravità e la prefigurazione
dell’entità dei danni economici che possono derivarne, così come avvenuto nel
caso concreto, possono costituire giustificazione legittimante di peso
sufficiente grave.[traduzione non ufficiale]»

36. Ciò, naturalmente, non vuol dire che il datore
di lavoro, in presenza di un sospetto di attività illecita, possa avere mano
libera nel porre in essere controlli sul lavoratore interessato.

37. Innanzitutto, va riaffermato il principio, già
richiamato, espresso dalla giurisprudenza di questa Corte formatasi nel vigore
della precedente formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori,
secondo cui in nessun caso può essere giustificato un sostanziale annullamento
di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore (Cass. n. 15892 del 2007, cit.; Cass. n. 4375 del 2010, cit.; Cass. n. 16622 del 2012, cit.; Cass. n. 9904 del 2016; Cass. n. 18302 del 2016, cit.).

38. Occorrerà dunque, nel rispetto della normativa
europea, e segnatamente dell’art. 8
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, assicurare un
corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni
aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle
imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con
un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto
(Cass. 26682/2017, cit.).

39. Non va infatti dimenticato che, nel caso
Barbulescu c. Romania, sentenza della Grande Camera del 5 settembre 2017, la
Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata a pronunciarsi – in relazione al
detto articolo 8 – con riguardo ad una vidensa in cui un datore di lavoro aveva
sottoposto a controllo il software aziendale Y.M. in uso al lavoratore, onde
verificarne un indebito utilizzo, ha fornito una interpretazione estensiva del
concetto di “vita privata”, tanto da includervi la “vita
professionale”, così ritenendo che lo Stato rumeno avesse tenuto un
comportamento non conforme alle garanzie accordate dalla norma della
Convenzione, per avere le Corti nazionali omesso di accertare se il lavoratore
avesse ricevuto una preventiva informazione dal suo datore di lavoro della
possibilità che le sue comunicazioni su Y.M. potessero essere controllate;
inoltre, per non avere valutato se il lavoratore medesimo fosse stato posto a
conoscenza della natura e della estensione del controllo o del grado di
intrusione nella vita e nella corrispondenza privata; infine, per non avere
accertato le specifiche ragioni che giustificavano l’adozione di dette misure
di controllo e se il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare misure meno
intrusive, né se l’accesso al contenuto delle comunicazioni fosse stato
compiuto senza che il lavoratore ne avesse consapevolezza.

40.Inoltre, e il punto è particolarmente rilevante
nel caso in esame, per essere in ipotesi legittimo, il controllo
“difensivo in senso stretto” dovrebbe quindi essere mirato, nonché
attuato ex post, ossia a seguito del comportamento illecito di uno o più
lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto,
sicché non avrebbe ad oggetto (“‘attività” – in senso tecnico – del
lavoratore medesimo. Il che è sostanzialmente in linea con gli ultimi approdi
della giurisprudenza di questa Corte, più sopra richiamati, in materia di
“controlli difensivi” nella vigenza della superata disciplina.

41.Occorre però chiarire cosa si intenda per tale
controllo. Esso infatti non dovrebbe riferirsi all’esame ed all’analisi di
informazioni acquisite in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 St.lav., poiché, in tal
modo opinando, l’area del controllo difensivo si estenderebbe a dismisura, con
conseguente annientamento della valenza delle predette prescrizioni.

42. Il datore di lavoro, infatti, potrebbe, in difetto
di autorizzazione e/o di adeguata informazione delle modalità d’uso degli
strumenti e di effettuazione dei controlli, nonché senza il rispetto della
normativa sulla privacy, acquisire per lungo tempo ed ininterrottamente ogni
tipologia di dato, provvedendo alla relativa conservazione, e, poi, invocare la
natura mirata (ex post) del controllo incentrato sull’esame ed analisi di quei
dati.

43. In tal caso, il controllo non sembra potersi
ritenere effettuato ex post, poiché esso ha inizio con la raccolta delle
informazioni; quella che viene effettuata ex poste solo una attività successiva
di lettura ed analisi che non ha, a tal fine, una sua autonoma rilevanza.

44. Può, quindi, in buona sostanza, parlarsi di
controllo ex post solo ove, a seguito del fondato sospetto del datore circa la
commissione di illeciti ad opera del lavoratore, il datore stesso provveda, da
quel momento, alla raccolta delle informazioni.

45. Facendo il classico esempio dei dati di traffico
contenuti nel browser del pc in uso al dipendente, potrà parlarsi di controllo
ex post solo in relazione a quelli raccolti dopo l’insorgenza del sospetto di
avvenuta commissione di illeciti ad opera del dipendente, non in relazione a
quelli già registrati.

Applicazione dei principi suesposti alla fattispecie
in esame

46. Così ricostruito il quadro entro il quale i
“controlli difensivi” tecnologici possono considerarsi ancora
legittimi dopo la modifica dell’art.
4 dello Statuto dei lavoratori, si deve rilevare che la sentenza impugnata,
nel ritenere l’esorbitanze della fattispecie litigiosa dall’art. 4 dello Statuto dei
lavoratori, ha osservato che il controllo sul computer aziendale in uso
alla C. è stato indotto dalla necessità di verificare l’origine del virus che
aveva infettato il sistema informatio della Fondazione criptando vari documenti
e cartelle condivise, e di risolvere il problema; l’attività lavorativa,
secondo la Corte di appello, è stata dunque sottoposta a verifica non durante
il suo svolgimento, ma ex post e quale effetto indiretto di operazioni tecniche
condotte su strumenti di lavoro appartenenti al datore di lavoro e finalizzate
all’indifferibile ripristino del sistema informatico aziendale. In tale quadro,
secondo la Corte territoriale, perderebbe quindi ogni importanza l’eccepita
inutilizzabilità probatoria dei dati informatici acquisiti, inutilizzabilità
ascritta dalla lavoratrice alla da lei allegata illecita acquisizione, presupposto
da escludersi processualmente.

47. Se la statuizione della sentenza impugnata circa
la serietà del sospetto di attività illecita indotto dalla scoperta del virus e
dei danni da questo provocati può dirsi conforme alla necessità
dell’accertamento del requisito del “fondato sospetto” della
commissione di un illecito che i principi sopra ricostruiti assumono come
presupposto della legittimità dei “controlli difensivi”, è evidente
come sia mancata ogni indagine nella stessa decisione volta a stabilire se i
dati informatici rilevanti, utilizzati poi in sede disciplinare, fossero stati
raccolti prima o dopo l’insorgere del fondato sospetto, in violazione dei
principi esposti. È pure mancata ogni valutazione circa il corretto
bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali,
correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili
tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore.

48. Come si è osservato, il controllo ex post non
può riferirsi all’esame ed all’analisi di informazioni acquisite in violazione
delle prescrizioni di cui all’art.
4 St.lav. prima dell’insorgere del “fondato sospetto”, poiché, in
tal modo opinando, l’area del controllo difensivo si estenderebbe a dismisura,
con conseguente annientamento della valenza delle predette prescrizioni. Il
datore di lavoro, infatti, potrebbe, in difetto di autorizzazione e/o di
adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei
controlli, nonché senza il rispetto della normativa sulla privacy, acquisire
per lungo tempo ed ininterrottamente ogni tipologia di dato, provvedendo alla
relativa conservazione, e, poi, invocare la natura mirata (ex post) del
controllo incentrato sull’esame ed analisi di quei dati.

49. Avendo ritenuto la fattispecie inquadrabile nei
“controlli difensivi”, ritenuti compatibili con la nuova formulazione
dell’art. 4 Statuto dei lavoratori, la Corte territoriale non ha poi verificato
la compatibilità del comportamento datoriale, e quindi della utilizzabilità dei
dati informatici raccolti a fini disciplinari, con quest’ultima disposizione.

50. Il motivo in esame, anche se la Corte non ne
condivide l’impostazione di fondo, volta ad escludere la sopravvivenza della
legittimità dei “controlli difensivi” tecnologici, va dunque accolto
per quanto di ragione, cioè in quanto esso evidenzia l’erroneità della
statuizione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza dei presupposti
della legittimità del “controllo difensivo” posto in essere dal
datore di lavoro in assenza della verifica se esso avesse ad oggetto
esclusivamente dati informatici raccolti successivamente all’insorgere del
“fondato sospetto”.

51. Il giudice di rinvio, da individuarsi nella
stessa Corte di appello di Roma in diversa composizione, dovrà attenersi al
seguente principio di diritto: “Sono consentiti i controlli anche
tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di
beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in
presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia
assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi
e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle
imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore,
sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere
del sospetto.

Non ricorrendo le condizioni suddette la verifica
della utilizzabilità a fini disciplinari dei dati raccolti dal datore di lavoro
andrà condotta alla stregua dell’art.
4 I. n. 300/1970, in particolare dei suoi commi 2 e 3.”

52. I restanti motivi sono assorbiti, giacché essi
presuppongono l’utilizzabilità dei dati litigiosi a fini disciplinari.

53. Segue alle svolte considerazioni l’accoglimento
del primo motivo per quanto d ragione, con la cassazione della sentenza
impugnata in relazione al motivo accolto, assorbiti gli altri, e con rinvio
alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche
alle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso in relazione al primo motivo,
per quanto di ragione, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata e
rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le
spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 settembre 2021, n. 25732
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