Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 ottobre 2021, n. 26704

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Intimazione
entro l’anno dalla data del matrimonio, Risarcimento del danno da mobbing e
dei danni non patrimoniali, Demansionamento, Illegittimità

Rilevato che

 

L.V. adiva il Tribunale di Roma esponendo di avere
lavorato alle dipendenze della s.p.a T., nominata dirigente nel 1991; di essere
stata distaccata a Parigi fino al 31 marzo 2000 quale responsabile del
trasporto merci internazionale; di essere stata lasciata inattiva fino al
licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel 2001 (in ragione
della mancata individuazione presso la divisione Cargo né presso altre società
del gruppo, di un posto di funzione confacente alle caratteristiche
professionali possedute), licenziamento dichiarato nullo in quanto intimato
entro l’anno dalla data del matrimonio; di essere stata oggetto – dopo la
reintegra nel posto di lavoro – di ulteriore licenziamento intimato in data
29/4-3/5/2005 in ragione del perdurare delle medesime condizioni che avevano
dato luogo al precedente licenziamento; di aver subito, a causa di detta
vicenda lavorativa, crisi d’ansia e sviluppato un disturbo depressivo; alla
stregua di tali premesse, chiedeva dichiararsi l’illegittimità del
licenziamento perché discriminatorio e condannarsi la società alla reintegra
nel posto di lavoro, nonché risarcimento del danno da mobbing e dei danni non
patrimoniali conseguenti all’illegittimo demansionamento subito, in via di subordine
instando per la condanna al pagamento della indennità supplementare ex art.22
c.c.n.I. dirigenti d’azienda, stante la ingiustificatezza del licenziamento.

Ritualmente instaurato il contraddittorio, il
giudice adito rigettava il ricorso.

Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla
Corte distrettuale che, accertato l’intervenuto demansionamento della
lavoratrice nel periodo intercorso dal 2001 al 2005, condannava T. s.p.a. al
risarcimento del danno biologico e morale risentito, e quantificato nella
misura di euro 28.595,10. Confermava, nel resto la pronuncia del giudice di
prima istanza che aveva accertato la giustificatezza del licenziamento e
l’insussistenza di una condotta datoriale riconducibile a mobbing.

Avverso tale decisione L.V. interpone ricorso per
cassazione sostenuto da unico motivo illustrato da memoria ex art.380 bis
c.p.c., al quale oppone difese con controricorso la società intimata che a
propria volta ha depositato memoria.

 

Considerato che

 

1. Con unico motivo si denuncia la mancata o
apparente motivazione, violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 20
c.c.n.I. dirigenti aziendali . e dell’art.2103 c.c. in relazione all’art.360
comma primo nn.3 e 5 c.p.c.

Ci si duole, in estrema sintesi, che il giudice del
gravame abbia reso una motivazione apparente in ordine alla asserita
giustificatezza del licenziamento intimato, essendosi limitato ad argomentare
che a tali fini “può rilevare qualsiasi motivo, purché giustificato”
e che “nel caso di specie, l’esame è stato puntualmente compiuto nella
gravata sentenza… . richiamandosi in questa sede le deposizioni assunte in
prime cure, non inficiati dalla preposta denuncia da parte dell’appellante
principale”.

La richiamata statuizione non sarebbe idonea ad
integrare una valida ed argomentata motivazione in relazione alla
giustificatezza del licenziamento del dirigente ed al diritto a percepire
l’indennità supplementare azionato e ad integrare una motivazione percepibile
come tale, come ragionamento che, muovendo da determinate premesse, pervenga
all’esito di un procedimento enunciativo, a spiegare il risultato cui si
perviene sulla res decidenda.

La Corte distrettuale aveva argomentato sulla
facoltà della parte datoriale, di licenziare tout court la dipendente, con
sostanziale omissione del . minimo percorso logico e di elementi di credibile
convincimento, risultando carente la dovuta disamina logico-giuridica idonea a
sostenere la pronuncia di rigetto del gravame proposto dalla lavorative.

2. Il motivo non è ammissibile.

Invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad
oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c.,
deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed
inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla
citata disposizione.

Il rispetto del principio di specificità dei motivi
del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale
“della strumentalità delle forme . processuali” – comporta, fra
l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative
delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come
abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito in quanto è
solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e
qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura.

L’osservanza del canone della chiarezza e della
sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere
processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo
espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione
(Cass. n. 19100 del 2006).

Al cospetto di un motivo che conteneva censure
astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art.360
c.p.c., ha avuto modo di ribadire la propria giurisprudenza che stigmatizza
tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la
impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure
caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (vedi ex aliis, Cass.
SS.UU. 24/7/2013 n. 17931, in motivazione, Cass. 6/5/2016 n. 9228), non essendo
consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili
incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone
accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della
violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che
quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; infatti,
l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento
delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere
al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente
proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati
dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero
utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di
legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del
ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. 23/10/2018 n.
26874).

In tale prospettiva il ricorso palesa innegabilmente
carenze connesse al suo confezionamento come motivo composito, simultaneamente
volto a denunciare vizio di motivazione e di violazione di legge, sub specie di
violazione delle disposizioni di cui agli artt.19 e 22 c.c.n.I. di settore.

3. Non può, sotto altro versante, trascurarsi di
considerare che la denuncia veicolata nel corpo del ricorso ai sensi
dell’art.132 n.4 c.p.c. con prospettazione di nullità della sentenza per
motivazione assente, non si confronta con i principi affermati da questa Corte
alla cui stregua, in tema di ricorso per cassazione, ove la sentenza di appello
sia motivata “per relationem” alla pronuncia di primo grado, al fine
di ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, c.p.c. occorre che la censura
identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente
condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto
di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa
motivazione, il giudice-di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri
motivazionali (ved i Cass. S.U.20/3/2017 n.7074); è infatti palese che la ritualità
della motivazione per relationem non si può apprezzare senza conoscere quei
tenore e quelle critiche.

Nello specifico la ricorrente si è diffusa nel
riprodurre testualmente il tenore dell’atto di gravame, omettendo, tuttavia, di
riproporre il tenore della pronuncia del giudice di prima istanza, in coerenza
con il richiamato dictum al quale si intende dare continuità.

In definitiva, alla stregua delle superiori
argomentazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Il regime delle spese segue il principio della
soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della -ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro
200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese .
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a* norma del comma 1 bis dello
stesso articolo 13, se dovuto.

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