Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 ottobre 2021, n. 26709

Licenziamento, Malattia, Stile di vita non compatibile con
la patologia che affligge il lavoratore, Svolgimento delle mansioni nel
rispetto delle limitazioni imposte dal medico competente

 

Rilevato che

 

La Corte d’appello di Bologna confermava la
pronuncia del giudice di prima istanza che aveva respinto la domanda proposta
da B. V. nei confronti della s.p.a. T. volta a conseguire la declaratoria di
illegittimità del licenziamento intimatogli in data 11/11/2016 per aver tenuto
durante il periodo di malattia protrattosi dal 3 al 23 ottobre 2016 uno stile
di vita non compatibile con la patologia che lo affliggeva (lombosciatalgia
acuta), ed in ogni caso idoneo a pregiudicarne la guarigione e/o il rientro al
lavoro; il Collegio del merito perveniva a tale convincimento, in estrema
sintesi, facendo leva sulle conclusioni rassegnate dal nominato ausiliare
medicolegale il quale aveva dedotto che poteva ritenersi sussistente una
sintomatologia algica lombare, ma che la portata della stessa era tale da
consentire l’espletamento delle mansioni ascritte al lavoratore nel rispetto
delle limitazioni imposte dal medico competente; la Corte convalidava,
peraltro, anche il giudizio emesso dal CTU in ordine alla circostanza che le
attività svolte dal paziente durante l’assenza per malattia, ove provate,
“avrebbero quanto meno prolungato il periodo di guarigione clinica”;

confermava, quindi, il giudizio di proporzionalità
della sanzione già espresso dal giudice di prima istanza, sul rilievo che lo
svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per malattia era
idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri
generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di
diligenza e fedeltà;

avverso tale decisione B. V. interpone ricorso per
cassazione sostenuto da sei motivi illustrati da memoria ex art. 380 bis c.p.c.;

resiste con controricorso la società intimata;

 

Considerato che

 

1.con il primo motivo è denunciata violazione dell’art.18 c.4 L.300/1970; a
fondamento della critica si deduce che le condotte poste in essere durante il
periodo di malattia costituivano meri incombenti di vita quotidiana che non
potevano essere validamente sussunti nella nozione di giusta causa di
licenziamento; diversamente da quanto accertato dai giudici del merito, secondo
i quali il ricorrente aveva movimentato due sacchetti di terriccio durante il
periodo di malattia, si argomenta in ordine alla mancanza di prova circa la
reale portata della condotta descritta, poiché le immagini che riproducevano i
sacchetti erano sfocate, poco chiare e da esse non era desumibile il peso effettivo;
i filmati relativi allo spostamento di detti involucri mostravano, inoltre, che
gli stessi venivano trasportati in maniera corretta e compatibile con la
patologia sofferta, per un periodo molto breve, potendo essere tale condotta
parificata a quella di norma osservata per adempiere alle ordinarie necessità
del quotidiano;

2. il secondo motivo prospetta omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti,
ai sensi del n.5 comma primo art.360 c.p.c.;

la effettività dello stato patologico da cui era
affetto il ricorrente era da ritenersi comprovata alla stregua delle
certificazioni mediche versate in atti, sicché la statuizione con la quale la
Corte, condividendo l’opinione espressa dal primo giudice, aveva ipotizzato la
simulazione della inabilità da parte del ricorrente, era inficiata da evidente
illogicità; viene, infine, rimarcata la modestia dello sforzo compiuto,
consistito nel trasporto di “due semplici sacchetti”, rispetto al
quale la sanzione espulsiva irrogata risultava misura del tutto sproporzionata;

3. i motivi, che possono congiuntamente esaminarsi,
per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono
fondati; la Corte di merito, nel pur succinto incedere argomentativo, ha
operato una corretta sussunzione della fattispecie nella normativa relativa
all’obbligo di entrambe le parti di attenersi ai doveri di correttezza e buona
fede nell’attuazione del rapporto di lavoro ex artt.
1175 e 1375 c.c.; tali disposizioni sono
caratterizzate dalla presenza di elementi normativi e di clausole generali, il
cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e
sullo sfondo di quella che è stata definita la “spirale ermeneutica”
tra fatto e diritto, di essere integrato, sia sul piano della quaestio facti
che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell’interprete, mediante
valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal
costume o dall’ordinamento giuridico, alla cui stregua poter adeguatamente
individuare altresì le circostanze più concludenti rispetto a quelle regole e a
quei giudizi di valore, sì da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla
prospettazione e configurabilità della realtà fattuale (vedi per tutte Cass.
27/4/2017 n. 10416);

queste specificazioni del parametro normativo hanno,
dunque, natura di norma giuridica, come in più occasioni sottolineato da questa
Corte, e la disapplicazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità
come violazione di legge; pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in
concreto, nella fattispecie dedotta in. giudizio, degli elementi che integrano
il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta
attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel
giudizio di legittimità a condizione che la contestazione non si limiti ad una
censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica
denuncia di incoerenza rispetto agli “standards” conformi ai valori
dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (vedi ex plurimis,
Cass.2/3/2011 n. 5095, in motivazione Cass.
9/4/2014 n.8367); tanto precisato, è pure da osservare che, relativamente
al profilo controverso riguardante l’ipotizzata fraudolenta simulazione dello
stato di malattia, questa Corte ha, in più occasioni, affermato (vedi, ex
aliis, Cass.27/4/2017 n.10416, Cass.29/11/2012 n.21253)
che lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per
malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla
violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici
obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui
tale attività esterna sia di per sé sufficiente a fare presumere l’inesistenza
della malattia, dimostrando quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso
in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla
natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare
la guarigione o il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della
tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia (in
motivazione Cass. 7/2/2019 n.3655);

nello specifico non può mancarsi di rimarcare che le
ricordate censure non appaiono intese ad inficiare il summenzionato
procedimento di sussunzione della fattispecie concreta nel paradigma normativo
di riferimento, ma semplicemente a prospettare un diverso peso probatorio in
relazione agli elementi istruttori acquisiti in giudizio, con approccio non
consentito in questa sede di legittimità; la complessiva doglianza – con la
quale viene dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione di legge e di
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio – traligna dal modello
legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art.
360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa
ricostruzione del merito degli accadimenti, senza validamente confrontarsi con
la ratio decidendi (cfr. Cass. S.U. 27/12/2019
n.34476);

la Corte distrettuale, valutate le emergenze istruttorie,
aveva infatti sottolineato come la società datrice di lavoro avesse contestato
specificamente al dipendente, di aver svolto, sin dai primi giorni di congedo,
una serie di attività faticose ed intense, che erano state oggetto di puntuale
valutazione da parte del nominato ausiliare, il quale aveva espressamente
considerato che le attività svolte dal ricorrente durante il periodo di
malattia (ritenute dai giudici del merito dimostrate alla stregua dei dati
documentali acquisiti), avrebbero prolungato il periodo di malattia;

alla luce delle sinora esposte argomentazioni, la
statuizione impugnata resiste, dunque, alle censure all’esame;

3. con il terzo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art.2110 c.c. e dell’art.47 c.c.n.l. industria
alimentare; si deduce che, posta la sussistenza di numerose certificazioni
attestanti la malattia dalla quale era affetto il ricorrente, il licenziamento
intimato in data 11/11/2016 quando ancora il periodo di comporto non era
decorso, doveva essere dichiarato illegittimo;

4. il motivo è privo di fondamento;

come correttamente statuito dal giudice di seconda
istanza, nella fattispecie delibata il recesso era stato intimato per giusta
causa; nell’ottica descritta la causale della violazione del periodo di
comporto deve ritenersi eccentrica rispetto alla materia del contendere; è bene
rammentare che in base ai condivisi dicta espressi da questa Corte, le regole
dettate dall’art. 2110 cod. civ. per le ipotesi di assenze determinate da
malattia del lavoratore si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di
porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di
tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto)  predeterminato dalla legge, dalle parti o, in
via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel .superamento unica
condizione di legittimità del recesso; è stato al riguardo precisato che le
stesse regole hanno la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del
datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e
produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per
curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando
sull’imprenditore – in parte e per un tempo la cui concreta determinazione è
rimessa gradatamente alla legge, ai contratti collettivi, agli usi, all’equità
– il rischio della malattia del dipendente (cfr., in tali termini, Cass. 24/6/2005 n. 13624, Cass. 31/1/2012 n.1404); esse altresì prevalgono,
in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali (di cui
alle L. n. 604 del 1966, L. n. 300 del 1970 e L.
n. 108 del 1990) che su quella degli artt. 1256
e 1464 cod. civ.;

nell’ottica descritta, il superamento del periodo di
comporto è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che è
all’uopo non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della
sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, ne’ della correlata
impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne
risultino violati disposizioni o principi costituzionali; di conseguenza, come
già affermato da questa Corte (cfr. Cass.
10/10/2005 n.19679), resta irrilevante ogni valutazione sulla condotta
delle parti, mentre, essendo l’assenza una mera conseguenza necessitata della
malattia, neppure può avere rilievo, ai fini della legittimità del recesso, una
indagine sulle cause della assenza stessa, che nella logica dell’istituto devono
ricondursi allo stato patologico del lavoratore, incompatibile con la
prestazione lavorativa;

alla luce dei principi innanzi enunciati, si impone,
dunque, l’evidenza, della eterogeneità dei paradigmi normativi di riferimento
integrati dal licenziamento per superamento del periodo di comporto, cui ha
fatto richiamo il lavoratore, e licenziamento per giusta causa, in ragione
della violazione dei principi di correttezza e buona fede intimato dalla parte
datoriale, eterogeneità congruamente rimarcata dai giudici del gravame, con
statuizione che non risulta scalfita dalla formulata censura;

5. il quarto motivo attiene alla violazione o falsa
applicazione dell’art.5
L.300/1970;

si critica la statuizione con la quale la Corte
territoriale ha ritenuto inammissibile per genericità “il rilievo inerente
il divieto imposto dall’art.5
dello statuto dei lavoratori”;

si deduce che parte datoriale avrebbe potuto e dovuto
adottare la procedura di controllo della malattia prevista dalla legge n.300/1970 poiché solo il ricorso ad una
visita di controllo esperita dai servizi ispettivi dei competenti istituti
previdenziali, avrebbe potuto offrire congrui elementi di valutazione;

6. al di là di ogni pur assorbente considerazione in
ordine ai profili di inammissibilità che connotano il motivo – non conforme al
principio di specificità che governa il ricorso per cassazione (art.366 nn.3-4-6 c.p.c.), in quanto carente della
riproduzione degli atti processuali nel cui contesto si deduce di aver
“puntualmente contestato il percorso logicomotivazionale sul punto”,
lo stesso è da ritenersi privo di fondamento;

questa Corte in numerose occasioni ha avuto modo di
argomentare che le disposizioni del citato art.5, sul divieto di
accertamenti del datore di lavoro circa la infermità per malattia o infortunio
del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso di effettuare il
controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli
istituti previdenziali competenti, non ostano a che le risultanze delle
certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti
di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni
circostanza di fatto – pur non risultante da un accertamento sanitario – atta a
dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a
determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare
l’assenza, quale in particolare lo svolgimento da parte del lavoratore di
un’altra attività lavorativa; analogamente è stata ritenuta la deducibilità
dello svolgimento dell’attività lavorativa durante l’assenza per malattia quale
illecito disciplinare sotto il profilo dell’eventuale violazione del dovere del
lavoratore di non pregiudicare la guarigione o la sua tempestività (Cass. n. 3704/1987, n. 5407/1990, n. 5006/1992, n. 8165/1993, n.
1974/1994, n. 6399/1995, n. 11355/1995);

è, dunque, naturalmente insito in tale
giurisprudenza il riconoscimento della facoltà del datore di lavoro di prendere
conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo
svolgimento dell’attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del
corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (vedi
Cass. 3/5/2001 n.6236, cui .adde, ex aliis, Cass.
26/11/2014 n.25162, Cass. 21/9/2016 n.18507);

5. con il quinto motivo si denuncia violazione o
falsa applicazione dell’art.421 c.p.c.

si deduce l’indispensabilità, al fine della
decisione, della presenza del giudicante nel corso dell’accesso presso la T.
s.p.a. al fine di verificare le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore
presso l’ufficio “pesa e campionatura” mediante l’assunzione in loco
delle prove testimoniali; si prospetta che detta attività era stata
impropriamente delegata al CTU dal giudice di prima istanza in violazione della
summenzionata disposizione del codice di rito;

6. il motivo non è fondato;

sussistono, invero, i presupposti per riscontrare la
congrua applicazione da parte dei giudici del gravame, dei principi affermati
da questa Corte ed ai quali va data continuità, secondo i quali la consulenza
tecnica di ufficio, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso
proprio, perché volta ad adiuvare il giudice nella valutazione degli elementi
acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, è
sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento
del giudice di merito; questi può affidare al consulente non solo l’incarico di
valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma
anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in  tal caso è necessario e sufficiente che la
parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice
ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (vedi ex
plurimis, Cass. 8/2/2019 n.3717, Cass. 10/9/2013 n.20695);

in tal senso, la pronuncia si palesa conforme a
diritto, perché coerente coi richiamati dicta, ed in armonia con le
disposizioni del codice di rito che consentono al giudicante di conferire
all’ausiliare il potere di assumere informazioni sui fatti ritualmente dedotti
dalle parti, alla presenza delle stesse e dei loro consulenti (art.194 c.p.c.);

6. con la sesta censura si denuncia omesso esame di
un fatto decisivo per  il giudizio che è
stato oggetto di discussione fra le parti, ai sensi del n.5 comma primo art.360 c.p.c.;

ci si duole che la Corte territoriale abbia omesso
di escutere numerosi testi di parte, i quali avrebbero potuto confermare che il
ricorrente, affetto dalle patologie diagnosticate, si era attenuto alle
prescrizioni mediche senza svolgere attività sportive o lavorative, ma semplici
incombenze di vita quotidiana;

7. il motivo non è ammissibile;

in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice
di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di
assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza,
di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute
maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi,
assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché
la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di
una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad
esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga
irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere
decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. ex aliis, Cass. 13/6/2014 n.13485);

il giudice di merito non è invero, tenuto ad
ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente
istruito il processo e ben può, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali,
non ammettere la dedotta prova testimoniale quando, alla stregua di tutte le
altre risultanze di causa, ritenga – con giudizio che, se congruamente
motivato, si sottrae al sindacato di legittimità – la .stessa superflua (vedi
Cass. 10/6/2009 n. 13375);

né la censura contenuta nel ricorso per cassazione
relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale allega le ragioni che
avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, adempiendo agli oneri di
allegazione necessari a individuare la decisività del mezzo istruttorio richiesto
e la tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione (vedi Cass.
4/4/2018 n.8204);

in definitiva, alla stregua delle sinora esposte
considerazioni, il ricorso è respinto;

le spese seguono la soccombenza, liquidate come da
dispositivo; trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio
2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della  sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 ottobre 2021, n. 26709
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