Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 ottobre 2021, n. 27939

Licenziamento per giusta causa, Insubordinazione grave,
Comunicazioni via mail gravemente offensive confronti dei superiori, Lesione
del rapporto fiduciario

 

Fatto

 

1. Con sentenza del 27 novembre 2018, la Corte
d’appello di Roma rigettava il reclamo di R.V. avverso la sentenza di primo
grado, di reiezione, in esito a rito Fornero, della sua impugnazione del
licenziamento, per giusta causa “ai sensi dell’art. 2119 c.c. e dell’art.
48, lett. B del vigente CCNL”, intimatogli dalla datrice T. Italia s.p.a.
il 23 novembre 2016, così come già disposto dallo stesso Tribunale con
ordinanza, tempestivamente opposta dal lavoratore, a norma dell’art. 1, comma
51 I. 92/2012.

2. In esito a critico e argomentato scrutinio delle
risultanze documentali, la Corte territoriale ribadiva il contenuto gravemente
offensivo e sprezzante nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi
vertici aziendali delle comunicazioni del lavoratore, a mezzo di tre e-mails e
del messaggio sul suo profilo Facebook dell’ottobre 2016 (quest’ultimo
legittimamente acquisibile, in quanto non assistito da segretezza per la sua
conoscibilità anche da terzi), non disconosciute, integranti insubordinazione
grave, a norma della previsione contrattuale collettiva e comunque giusta causa
di licenziamento, per il loro carattere plurioffensivo e tale da precludere la
proseguibilità del rapporto, per l’elisione del legame di fiducia tra le parti,
anche considerato il ruolo aziendale del predetto (account manager, per la
gestione della comunicazione pubblicitaria nazionale ad uso locale: insegne
della grande distribuzione, eventi, promozione locale dei negozi TIM ).

3. Con atto notificato il 24 gennaio 2019, il
lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui la società
resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

4. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma
dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da I. conv. 176/20, nel senso del
rigetto del ricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso
esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione
tra le parti, quale il contesto lavorativo e l’evoluzione dei rapporti
aziendali, comportanti la maturazione delle comunicazioni via mail e la
pubblicazione del post sul profilo Facebook del lavoratore.

2. Esso è inammissibile.

3. In disparte l’insussistenza di un fatto storico
omesso nell’esame, trattandosi piuttosto di una valutazione, insindacabile in
quanto congruamente argomentata, con esame della circostanza (dal quart’ultimo
al penultimo capoverso di pg. 7 della sentenza), esso non può neppure essere
dedotto, a norma dell’art. 348ter, quinto comma c.p.c., applicabile ratione
temporis. Nel caso di specie, ricorre infatti l’ipotesi di “doppia
conforme” e il lavoratore, per evitare l’inammissibilità del motivo
dedotto ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., non ha
indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di
primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono
tra loro diverse (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 6 agosto 2019, n.
20994).

4. Con il secondo, egli deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 15 Cost., 2697 c.c. anche in relazione all’art. 595
c.p., per illegittima acquisizione dalla società datrice dei posts presenti
sulla pagina Facebook del lavoratore, in quanto destinata alla comunicazione
esclusiva con i propri “amici” e pertanto riservata, espressiva di
una modalità incompatibile con la denigrazione o la diffamazione erroneamente
ritenuta, neppure essa avendone dimostrato la diffusione presso terzi: con la
conseguente assenza di prova di riferimenti denigratori diretti anche alla società.

5. Esso è infondato.

6. Premessa l’esigenza di tutela della libertà e
segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti
unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine
indistinta di persone, pertanto da considerare

come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile
(Cass. 10 settembre 2018, n. 21965: nella specie, conversazione in chat su
Facebook composta unicamente da iscritti ad uno stesso sindacato), nella
fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione (e della
conseguente illegittimità dell’utilizzazione in funzione probatoria) di un
commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su
Facebook. Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del
detto soda!: così secondo il Tribunale, come riportato al terz’ultimo capoverso
di pg. 2 e al terz’ultimo di pg. 5 della sentenza impugnata) è, infatti, idoneo
(secondo l’accertamento della Corte territoriale, anche recependo dal
provvedimento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13 giugno 2013 il
supporto tecnico di comprensione dell’articolata modulazione dei messaggi su
Facebook e della diversa fruibilità esterna a seconda di essa: all’ultimo
capoverso di pg. 12 della sentenza), a determinare la circolazione del
messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (Cass. 27 aprile 2018, n.
10280, che ha ritenuto tale condotta integrare gli estremi della diffamazione e
costituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario
nel rapporto lavorativo).

7. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione dell’art.48 lett. B), sub a) del CCNL del
settore delle Telecomunicazioni, anche in relazione all’art. 47, lett. c) e
degli artt. 2106, 2119, 2697 c.c., per l’erronea qualificazione della condotta
del lavoratore alla stregua di grave insubordinazione ai superiori, tuttavia
ricorrente in caso di inadempimento degli ordini e delle direttive datoriali o
dei superiori gerarchici, anziché come alterco, diverbio, aspra critica (come
in particolare ritenuto da Cass. 5 maggio 2017, n. 11027), rientrante
nell’ipotesi di inosservanza di “una condotta uniformata a principi di
correttezza verso i colleghi” o al più di “lieve insubordinazione nei
confronti dei superiori”, sanzionate in via conservativa.

8. Anch’esso è infondato.

9. È insegnamento di questa Corte che la nozione di
insubordinazione debba essere intesa in senso ampio: sicché, nell’ambito del
rapporto di lavoro subordinato, essa non può essere limitata al rifiuto del
lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata,
attraverso una lettura letterale, alla violazione dell’art. 2104, secondo comma
c.c.), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a
pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel
quadro della organizzazione aziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11
maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 e la più recente 19 aprile
2018, n. 9736, in riferimento ad un rapporto di lavoro pubblico).

9.1. Infatti, ciò che conta, ai fini di una corretta
individuazione di una condotta di insubordinazione, nel contemperamento
dell’interesse del datore di lavoro al regolare funzionamento
dell’organizzazione produttiva con la pretesa del lavoratore alla corretta
esecuzione del rapporto di lavoro, è il collegamento al sinallagma
contrattuale: nel senso della rilevanza dei soli comportamenti suscettibili di
incidere sull’esecuzione e sul regolare svolgimento della prestazione, come
inserita nell’organizzazione aziendale, sotto il profilo dell’esattezza
dell’adempimento (con riferimento al potere direttivo dell’imprenditore),
nonché dell’ordine e della disciplina, su cui si basa l’organizzazione
complessiva dell’impresa, e dunque con riferimento al potere gerarchico e di
disciplina (Cass. 13 settembre 2018, n. 22382). In particolare, la nozione di
insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle
disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro
comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione
aziendale (giurisprudenza consolidata fin da Cass. 2 luglio 1987, n. 5804,
citata): sicché, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti
dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a
contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute
dall’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio
all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima
riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed
essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni
ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli (Cass. 11
maggio 2016, n. 9635).

Né una tale nozione deve ritenersi smentita dal
precedente di legittimità citato dal ricorrente, in riferimento all’operata
distinzione tra “insubordinazione” e “alterco”, per la
ritenuta inconferenza, nella peculiare fattispecie scrutinata (“episodio
… avvenuto davanti alla macchinetta del caffè pochi minuti prima dell’inizio
del turno … vale a dire nello stabilimento, ma non durante l’orario di
lavoro.”), del “rinvio invocato da parte ricorrente a Cass. n. 9635/16
che, in motivazione, ammette che l’insubordinazione possa altresì ravvisarsi
nella critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di
correttezza formale dei toni e dei contenuti”: nel caso di specie, per
essere il fatto avvenuto al di fuori dell’orario di lavoro, avendo il
precedente invocato escluso l’estensione dei vincoli gerarchici tra le persone
anche ad un contesto extralavorativo, né “che ad essi debbano essere
improntati tutti i rapporti fra loro” (Cass. 5 maggio 2017, n. 11027: così
in motivazione, sub p.to 5.).

9.2. La Corte territoriale ha esattamente applicato
i suenunciati principi di diritto (esplicitamente richiamati dal secondo
all’ultimo capoverso di pg. 11 della sentenza), sulla base di un accertamento
in fatto (in esito ad un attento scrutinio delle risultanze documentali: dal
penultimo capoverso di pg. 9 al secondo di pg. 10 della sentenza) della
ricorrenza nel caso di specie di una condotta di insubordinazione, congruamente
argomentato (dal primo periodo al secondo capoverso di pg. 12 e dal terzo al
penultimo di pg. 13 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di
legittimità.

10. Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e
falsa applicazione dell’art. 48 lett. B) del CCNL di categoria, in relazione
agli artt. 2119, 2697 c.c., 18 I. 300/1970 come modificato dall’art. 1, comma
42 I. 92/2012, per il mancato accertamento dell’esistenza del grave nocumento
morale o materiale arrecato dall’insubordinazione del lavoratore, nonostante la
sua natura di elemento costitutivo della fattispecie sanzionata, erroneamente
invece ritenuto dalla Corte territoriale “insito” nelle azioni
compiute dal predetto, con la conseguente inestensibilità di una giusta causa
di licenziamento, esclusa dalla previsione di una sanzione conservativa dell’autonomia
collettiva.

11. Esso è infondato.

12. Appare evidente la superfluità, nel caso di
specie, del denunciato mancato accertamento, una volta che la Corte capitolina
abbia (correttamente) qualificato  la
condotta del lavoratore, in esito al superiore accertamento in fatto, alla
stregua di “grave insubordinazione”, in quanto esplicitamente
sanzionata (art. 48, lett. B), p.to 4, lett. a) dal CCNL di categoria
applicabile ratione temporis (al terz’ultimo e penultimo capoverso di pg. 10
della sentenza). Sicché, neppure ricorre una violazione del principio, per il
quale, in materia di licenziamenti disciplinari, nell’ipotesi in cui un
comportamento del lavoratore, qualificato dal datore di lavoro come giusta
causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come
infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non
possa discostarsi da tale previsione (per la condizione di maggior favore fatta
espressamente salva dall’art. 12 I. 604/1966), a meno che non accerti che le
parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la
possibilità della sanzione espulsiva (Cass. 7 maggio 2015, n. 9223; Cass.
5  maggio 2017, n. 11027; Cass. 16 maggio
2020, n. 8621; Cass. 10 luglio 2020, n. 14811).

12.1. Ed infatti, la necessità di accertare la
sussistenza del grave nocumento morale e materiale si pone qualora esso sia
elemento integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta
causa di recesso (Cass. 28 settembre 2018, n. 23602), come nell’ipotesi
sanzionata con il licenziamento senza preavviso in linea generale dall’art. 48,
lett. B), p.to 3 (“In tale provvedimento incorre il lavoratore che
provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale … “) e in quella
richiamata dal ricorrente, relativa ad una condotta non tipizzata, ma
rientrante nella previsione generale per “comportamenti addebitati al
lavoratore nelle lettere d’incolpazione … inserimento nel sito internet,
nonché nel profilo Facebook di un’impresa di ristorazione, dei numeri di
telefono mobile e di fax assegnati al lavoratore stesso dalla datrice di lavoro
attualmente contro ricorrente; … avere indicato la detta datrice di lavoro
come cliente dell’impresa”(Cass. 13 ottobre 2015, n. 20545, in
motivazione).

12.2. Ma la necessità di un tale accertamento non
ricorre, quando l’elemento del “grave nocumento morale o materiale”
sia già tipizzato dall’autonomia collettiva in alcune condotte (al p.to 4 della
lettera B: “A titolo indicativo rientrano nelle  infrazioni di cui sopra”: ossia
generalmente indicate al citato p.to 3), in particolare alla lettera a)
(“la grave insubordinazione ai superiori”), come appunto quella in
questione.

13. Dalle superiori argomentazioni discende allora
il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il
regime di soccombenza e con raddoppio del contributo unificato, ove spettante
nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. s.u. 20 settembre 2019, n.
23535).

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla
rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in € 200,00 per esborsi e € 6.000,00 per compensi professionali, oltre
rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 ottobre 2021, n. 27939
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