Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 ottobre 2021, n. 29203

Lavoro, Cessione del ramo d’azienda, Aapplicazione del
regime previsto dall’art. 2112 c.c., Verifica dei presupposti

 

Fatto

 

1. Con sentenza 27 luglio 2017, la Corte d’appello
di Napoli accertava l’inefficacia nei confronti di T.S. e D.D. della cessione
del rapporto di lavoro conseguente alla cessione del ramo d’azienda, cui essi
erano addetti, dalla datrice V.O. N.V, ora Italia, s.p.a. a C.C. s.p.a. con il
contratto 5 novembre 2007, ordinando alla prima il ripristino dei relativi
rapporti: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece
rigettato la domanda dei lavoratori.

2. In applicazione dei principi enunciati in materia
dalla Corte di legittimità e in esito ad argomentato scrutinio della
fattispecie alla luce delle risultanze istruttorie, sull’essenziale rilievo
della mancata cessione degli indispensabili supporti informatici utilizzati per
le attività di gestione delle pratiche (elemento diverso dalla banca dati della
clientela e dei programmi di accesso ad essa, obbligatoriamente nella proprietà
della società di telecomunicazione cedente), invece oggetto di una
particolareggiata regolazione nell’utilizzazione dalla cessionaria, per la
somministrazione dei servizi oggetto di un separato e contestuale contratto di
appalto (così da mantenere i dipendenti trasferiti “in continuo
collegamento direttivo, funzionale e di controllo da parte della V.”), la
Corte territoriale negava la ricorrenza dell’autonomia funzionale del ramo
ceduto: prevista dall’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall’art. 32
d.lg. 276/2003, per l’implicito presupposto logico-giuridico, pur non più
menzionato, di preesistenza (mantenuta nel trasferimento) nella configurazione
di un’articolazione funzionalmente autonoma dell’impresa, indipendente dalla
coeva stipulazione di contratti di fornitura di servizi tra le parti.

3. Con atto notificato in data 12 (20) gennaio 2018,
la società cedente ricorreva per cassazione, previa istanza di rinvio pregiudiziale
alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE, con unico motivo, illustrato da memoria
ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui i lavoratori resistevano con controricorso.
La società cessionaria intimata non svolgeva attività difensiva.

4. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte nel senso
del rigetto del ricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con unico motivo, la ricorrente deduce violazione
o falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., per erronea esclusione, alla luce
della richiamata giurisprudenza eurounitaria della consistenza di ramo
d’azienda (nel caso di specie consistente negli interi reparti di gestione
amministrativa delle pratiche di attivazione e variazione e di gestione del
credito – cd. back office, con tutti i dipendenti; con messa a disposizione
degli strumenti operativi e dei contratti di locazione, ad eccezione dei data
base e dei software abilitanti all’accesso a questi contenenti i dati dei
clienti) ceduto da V. (già O. N.V, ora) Italia, s.p.a. a C. (già C.) s.p.a. con
contratto del 5 novembre 2007 (e stipulazione in pari data di un contratto di
appalto di servizi, mediante il quale C. si impegnava a svolgere, senza
soluzione di continuità e per mezzo del ramo ceduto, il servizio di back office
per V., con piena gestione ed organizzazione del personale), alla stregua della
sua definizione dall’art. 2112 c.c. come modificato dall’art. 32 d.lg. 276/2003
(di adeguamento alla Direttiva 2001/23/CE), avendo la cessionaria proseguito lo
svolgimento del servizio attraverso di esso ed i mezzi ed il personale (erroneamente
ritenuto non dotato di un particolare know how o comunque di specifica né
elevata professionalità, nonostante la prosecuzione dell’attività senza
necessità di alcuna formazione) mantenuto pienamente intatto il nesso di
interdipendenza funzionale con il servizio svolto, gestito, organizzato e
diretto dalla predetta, anche attraverso mezzi (non ceduti, sibbene) messi a
disposizione dalla cedente.

2. Esso è infondato.

3. In applicazione dei principi di diritto in
materia (con richiamo degli arresti di legittimità a pgg. 4 e 5 della
sentenza), la Corte territoriale ha criticamente disaminato (dal primo
capoverso di pg. 6 al secondo di pg. 7 della sentenza) il contratto di cessione
di ramo stipulato il 5 novembre 2007 tra (le allora denominate) C. s.r.l. e
V.O. s.p.a. e quindi (dato atto dalle stesse parti della coeva stipulazione di
un contratto “per la fornitura da C.C. s.r.l.”, società di nuova
costituzione interamente partecipata dal C. s.p.a., “a V. dei servizi di
back office consumer, back office corporate e gestione credito così al terzo
capoverso di pg. 7 della sentenza), il detto contratto di fornitura appunto del
5 novembre 2007 (dall’ultimo capoverso di pg. 8 al primo capoverso di pg. 9
della sentenza).

In esito ad un tale argomentato scrutinio, la Corte
partenopea ha accertato che “le attività cedute non sono in grado di
gestirsi autonomamente anche tenuto conto che alcuni dei beni necessari per
l’esercizio delle attività in parola non sono stati trasferiti ma sono rimasti
di proprietà della società cedente” (così al secondo capoverso di pg. 9
della sentenza): non essendo stati oggetto di cessione, come invece avrebbero
potuto e dovuto, (essendo diversi sia dalla banca dati che dai programmi di
accesso ad essa) i diversi strumenti informatici utilizzati per l’espletamento
delle attività trasferite (come spiegato al primo capoverso di pg. 10 della
sentenza).

A conclusione del critico ragionamento argomentativo
svolto, essa ha negato l’autonomia funzionale del ramo ceduto concluso, per il
mantenimento dei dipendenti trasferiti “in continuo collegamento
direttivo, funzionale e di controllo da parte della V.” (così dal
sestultimo al penultimo alinea di pg. 11 della sentenza).

4. Secondo il costante insegnamento di questa Corte,
un tale accertamento in fatto non è sindacabile in sede di legittimità, posto
che la verifica dei presupposti fattuali che consentano l’applicazione o meno
del regime previsto dall’art. 2112 c.c. implica una valutazione di merito, ove
espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. n. 20422 del
2012; Cass. n. 5117 del 2012; Cass. n. 1821 del 2013; Cass. n. 2151 del 2013;
Cass. n. 24262 del 2013; Cass. n. 10925 del 2014; Cass. n. 27238 del 2014;
Cass. n. 22688 del 2014; Cass. n. 25382 del 2017; di recente, ancora: Cass. n.
2315 del 2020 e Cass. n. 6649 del 2020). D’altro canto, ciò è inevitabile sul
rilievo per il quale l’accertamento in concreto dell’insieme degli elementi
fattuali idonei o meno a configurare la fattispecie legale tipica del
trasferimento di ramo d’azienda, delineata in astratto dal quinto comma
dell’art. 2112 c.c., implica prima una individuazione ed una selezione di
circostanze concrete e poi il loro prudente apprezzamento, traducendosi in
attività di competenza del giudice di merito, cui non può sostituirsi il
giudice di legittimità.

In particolare, non può negarsi che la valutazione,
nella concretezza della vicenda storica, dell’autonomia funzionale del ramo
d’azienda ceduto e della sua preesistenza è di certo una quaestio facti che
opera, come tale, sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del
merito, per l’accertamento della ricorrenza, nella fattispecie dedotta in
giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo dell’art. 2112
c.c. Sicché, come già ritenuto da questa Corte, “spettano inevitabilmente
al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro
materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in
termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (testualmente in
motivazione: Cass. n. 15661 del 2001, con la copiosa giurisprudenza ivi citata;
e così pure: Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

5. In linea di diritto, questa Corte ha ribadito
che, anche nel testo modificato dall’art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, ai
fini del trasferimento di ramo d’azienda previsto dall’art. 2112 c.c.,
rappresenta elemento costitutivo della cessione “l’autonomia funzionale
del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo
dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi
funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e
senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la
funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento
della cessione” (sul tema diffusamente: Cass. n. 11247 del 2016; di
analogo tenore, assunte in decisione nella medesima udienza pubblica del 26
febbraio 2016: Cass. nn. 9682, 10243, 10352, 10540, 10541, 10542, 10730, 11248
del 2016; tra le successive conformi: Cass. n. 19034 del 2017; Cass. n. 28593
del 2018).

5.1. Tali pronunce sono significative anche nel caso
che ci occupa perché hanno confermato la sentenza d’appello che aveva escluso
l’operatività dell’art. 2112 c.c., nella sua formulazione successiva al 2003,
tra l’altro, per “la mancata cessione dei programmi e dei sistemi
informatici che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo”,
sancendo poi, nel principio di diritto enunciato in funzione nomofilattica, l’indipendenza
“dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente
stipulato tra le parti” (analogamente: Cass. n. 1316 del 2017 e Cass. n.
19034 del 2017, in ipotesi di cessione di un cali center in cui i programmi
informatici erano rimasti nella proprietà esclusiva della cedente).

5.2. Negli arresti in discorso non si è poi
disconosciuta la legittimità di cessioni di rami aziendali
“dematerializzati” o “leggeri” dell’impresa, nei quali il
fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, in conformità con
principi, anche comunitari (Corte di Giustizia 11 marzo 1997, Suzen, C-13/95,
punto 18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C-127/96, C-229/96, C-74/97,
Hernandez Vldal e, punto 31; Corte di Giustizia, 20 gennaio 2011, C-463/09, CLECE,
punto 36), che si sono affermati essenzialmente nel campo della successione
negli appalti laddove siano i lavoratori ad invocare l’applicazione dell’art.
2112 c.c. per transitare nell’impresa subentrante, per i quali principi oggetto
del trasferimento del ramo può essere anche un gruppo organizzato di dipendenti
specificamente e stabilmente assegnati ad un compito comune, senza elementi
materiali significativi (in precedenza, tra molte: Cass. n. 17207 del 2002;
Cass. n. 206 del 2004; Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5678 del 2013; Cass.
n. 21917 del 2013; Cass. n. 9957 del 2014); ma si è tuttavia confermato il
compito del giudice del merito di verificare quando il gruppo di lavoratori
trasferiti sia dotato “di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e
capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo
stesso servizio”, così “scongiurando operazioni di trasferimento che
si traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto
dev’essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla
struttura cedente dal quale viene estrapolato ed essere in grado di offrire sul
mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico
servizio per il quale è organizzato” (in termini Cass. n. 11247/2016 cit.;
di recente anche Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika
Nafpigeia AE, punto 69, ha sottolineato come l’autonomia del ramo ceduto, dopo
il trasferimento, non debba dipendere da scelte economiche effettuate
“unilateralmente” da terzi, senza che vi siano garanzie sufficienti
che le assicurino l’accesso ai fattori di produzione).

5.3. Nel complesso di pronunce assunte in decisione
nel febbraio del 2016, l’elemento costitutivo rappresentato dall’autonomia
funzionale del ramo d’azienda ceduto viene letto in reciproca integrazione con
il requisito della preesistenza di esso, “nel senso che il ramo ceduto
deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza
integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui
esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente
alla cessione”, perché l’indagine non deve “basarsi
sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione,
eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi
contratti di appalto, ma all’organizzazione consentita già dalla frazione del
preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto”.

A conforto si richiama anche la giurisprudenza della
Corte di Giustizia, secondo cui l’impiego del termine “conservi”
nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva, “implica che l’autonomia
dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”,
(Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 34).

Anche dopo le modifiche introdotte dall’art. 32 del
d. Igs. n. 276 del 2003, con l’insieme delle decisioni citate si conferma,
dunque, la necessità della preesistenza del ramo al fine di sussumere la
vicenda circolatoria nell’alveo dell’art. 2112 c.c.; principio già presente
nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 19842 del 2003; Cass. n. 8017
del 2006; Cass. n. 2489 del 2008; Cass. n. 8757 del 2014) – pure sul rilievo
che la conservazione dell’identità dell’entità ceduta di matrice comunitaria
(da ultimo: Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia
AE, punti 61, 62 e 63) postula che possa conservarsi solo qualcosa che già
esista – e costantemente ribadito sino ai giorni nostri con innumerevoli
sentenze (tra le più recenti: Cass. n. 30667 del 2019; Cass. n. 6649 del 2020;
Cass. n. 18954 del 2020; Cass. n. 20240 del 2020), tanto da assurgere oramai a
principio consolidato del diritto vivente, dal quale, per evidenti ragioni
dettate anche dall’esigenza di non recare vulnus all’eguaglianza dei cittadini
innanzi alla legge, non si ravvisa ragione per discostarsi.

6. Quanto all’istanza di rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 citato (già art.
234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea), giova premettere che un
tale obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza viene meno quando non
sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa
comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad
altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul
problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di
detta Corte (tra molte: Cass. n. 4776 del 2012); similmente, il rinvio
pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza,
presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in
relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle
norme interne che lo disciplinano (Cass. SS.UU. n. 8095 del 2007).

Invero è noto (Cass. SS.UU. n. 20701 del 2013) che
il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio
giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti,
spettando solo al giudice stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione
di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto
dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei
diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale
della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea; sicché
il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio
solo perché proveniente da istanza di parte (tra le altre: Cass. n. 6862 del
2014; Cass. n. 13603 del 2011).

D’altro canto, è incontrastato l’enunciato, più
volte ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la Corte di
Giustizia Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art.
234 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea, non operi come
giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute
rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale
permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale

(Cass. SS.UU. n. 30301 del 2017; in precedenza:
Cass. SS.UU. nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e
14043/16).

Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non
è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità
europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la
ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in
presenza di un “acte clair” che, in ragione dell’esistenza di
precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione,
rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (Corte di giustizia, 6
ottobre 1982, causa C-283/81, Cilfit; e, per la giurisprudenza di questa Corte,
tra le altre: Cass. SS.UU. n. 12067 del 2007; Cass. n. 22103 del 2007; Cass. n.
4776 del 2012; Cass. n. 26924 del 2013).

6.1. Ciò premesso, non reputa questo Collegio che le
articolate difese dell’istante introducano nuovi elementi di valutazione,
pertinenti alla materia del contendere, tali da giustificare un rinvio alla
Corte di Giustizia che già si è espressa, più volte, sulle problematiche di
diritto sottese alle enunciate richieste ai sensi dell’art. 267 TFUE.

Ed infatti, i quesiti di compatibilità
dell’interpretazione di questa Corte in materia con la disciplina dell’Unione
Europea attengono all’essenziale rilevanza, piuttosto che del mantenimento di
una preesistente “entità autonoma produttiva”, dello svolgimento di
una medesima attività economica, variamente declinato (quesiti sub A, C a pgg.
28 e 30 del ricorso), con particolare riguardo allo svolgimento di attività di
back office (come declinate sub B a pg. 29 del ricorso).

6.2. In proposito, deve osservarsi che in passato la
giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, 18 marzo 1986,
C-24/85, Spijkers, punti Ile 12) ha adottato un concetto di entità economica
per delineare la cd. “unità minima di impresa” funzionale alla
nozione di trasferimento d’azienda, giudicando come criterio decisivo il
“mantenimento dell’identità economica trasferita”, al fine di non
determinare una mera cessione di elementi patrimoniali con l’esclusione del
passaggio dei rapporti di lavoro, ma successivamente (v. Corte di Giustizia, 11
marzo 1997, C 13/95, Suzen, punto 14) ha iniziato a valorizzare – come si è
detto – una valutazione sistematico-complessiva di indici da cui desumere
l’esistenza di una entità economica organizzata (mezzi di gestione,
organizzazione del lavoro, personale).

Tale scelta giurisprudenziale fu adottata dal
legislatore comunitario, in modo sistematico ed organico, appunto nella
direttiva 2001/23/CE e va qui ribadito che per l’ordinamento comunitario il
trasferimento deve riguardare una entità economica organizzata in modo stabile
(la cui attività non si limiti all’esercizio di un’opera determinata), la quale
sia costituita da qualsiasi complesso organizzato di persone e di elementi che
consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di
uno specifico obiettivo e sufficientemente strutturata ed autonoma, di talché
l’entità economica deve, in particolare, godere anteriormente al trasferimento
di una autonomia funzionale sufficiente (per tutte: Corte di Giustizia, 6 marzo
2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 34). Secondo la CGUE, il requisito della
preesistenza sta, quindi, a indiC. che il complesso organizzativo deve essere
già concretamente preordinato presso il cedente all’esercizio dell’attività
economica, in una sintesi tra elemento strutturale e profilo funzionale.

Per la Corte di Giustizia è escluso che il legame
tra autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto e la materialità dello
stesso possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal
cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti
stipulanti il negozio traslativo la libera definizione della fattispecie cui la
norma inderogabile si applica, perché ciò sarebbe in contrasto con la
disciplina comunitaria sulla inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso
di trasferimento di azienda.

L’atto di identificazione da parte del cedente,
coerentemente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte,
deve quindi avere un contenuto accertativo e non costitutivo, nel senso che la
cessione presuppone l’individuazione del ramo nel contesto aziendale, ma non la
sua creazione.

6.3. Relativamente, poi, alla tematica dell’identità
dell’azienda, dopo il trasferimento, con la sentenza del 12 febbraio 2009
(Corte di Giustizia, causa C- 466/07, Klarenberg, punti da 45 a 48) è stato
precisato che l’art. 1 n. 1 lett. b) della direttiva 2001/23/CE definisce esso
stesso l’identità di una entità economica facendo riferimento a un
“insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica,
sia essa essenziale o accessoria” e ponendo così l’accento non solo sull’elemento
organizzativo dell’entità trasferita, ma anche su quello del proseguimento
della sua attività economica.

È stato affermato che la condizione relativa al
mantenimento dell’identità di una entità economica ai sensi della Direttiva
2001/23 va interpretata prendendo in considerazione i due elementi, quali
previsti dall’art. 1 n. 1 lett. b), della direttiva 2001/23 che, considerati
nel loro insieme, costituiscono tale identità nonché l’obiettivo della
protezione dei lavoratori contemplato da tale direttiva. Il mantenimento di un
siffatto nesso funzionale tra i vari fattori trasferiti consente al cessionario
di utilizzare questi ultimi, anche se essi sono integrati, dopo il
trasferimento, in una nuova diversa struttura organizzativa al fine di continuare
un’attività economica identica o analoga.

Parimenti, in altra sentenza (Corte di Giustizia, 27
febbraio 2020, causa C- 298/18, Grafe, punto 26) è stato ribadito che il fatto,
per una entità economica, di rilevare l’attività economica di un’altra non consente
di concludere nel senso che sia stata conservata l’identità di quest’ultima,
non potendo l’identità di siffatta entità essere ridotta all’attività che le è
affidata. L’identità emerge, secondo la CGUE, da una pluralità di elementi
inscindibili tra loro, quali il personale che la compone, i suoi quadri
direttivi, l’organizzazione del lavoro, i metodi di gestione ed eventualmente
anche i mezzi di gestione a sua disposizione (anche Corte di Giustizia, 20
luglio 2017, causa C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43), nonché il
trasferimento o meno della clientela, il grado di somiglianza delle attività
esercitate prima e dopo il trasferimento e la durata di una eventuale
sospensione di queste ultime. Il tutto in un’ottica secondo la quale tali
elementi costituiscono soltanto aspetti parziali della valutazione complessiva
cui si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente
(Corte di Giustizia, 26 novembre 2015, causa C-509/14, Administrador de
Infraestructuras Ferroviarias, punto 32).

La Corte di Giustizia ha, quindi, sottolineato che
spetta sempre al giudice del rinvio valutare se, all’esito dell’accertamento
del procedimento principale, l’identità dell’entità trasferita sia stata
conservata (per tutte Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, causa C-416/16,
Piscarreta Ricardo, punto 45; Corte di Giustizia, 27 febbraio 2020, causa
C-298/18, Grafe, punto 36), in virtù, come dinanzi più volte evidenziato, di un
giudizio globale del complesso delle circostanze che caratterizzano
l’operazione.

6.4. Dato atto degli orientamenti della Corte di
Giustizia in materia (che devono ritenersi idonei, per la loro chiarezza, a
risolvere i quesiti di compatibilità avanzati dalle società ricorrenti), né
essendo ravvisabili ulteriori elementi che impongano l’attivazione di un nuovo
rinvio pregiudiziale, perché le problematiche di diritto prospettate non si
pongono in contrasto con la normativa comunitaria ma richiedono unicamente una
valutazione di fatto degli elementi da parte del giudice nazionale, vanno disattese
tutte le richieste di rinvio alla Corte di Giustizia, “non esistendo alcun
diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogni qualvolta la Corte
di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del
diniego siano espresse (Corte EDU, caso Ullens de Schooten & Rezabek c.
Belgio) ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente
inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, caso Wind
Telecomunicazioni vs. Italia, §36)” (in termini: Cass. Sez. Un. n. 14042
del 2016; conf.: Cass. n. 14828 del 2018).

6.5. Quanto, infine, al quesito relativo
all’esclusione di esclusione dall’ambito di applicazione della Direttiva
2001/23/CE dell’interpretazione di questa Corte dell’art. 29, terzo comma del
d.lgs. n. 276 del 2003, anche in relazione all’art. 2112, sesto comma c.c. in
riferimento ad un gruppo organizzato di lavoratori (come declinato sub D a pg.
30 del ricorso), al di là del richiamo della giurisprudenza citata al superiore
p.to 5.2. (cui adde: Cass. n. 24972 del 2016, che, al p.to 3 in motivazione, ha
chiarito come la prima norma debba essere interpretata in modo coerente con
l’art. 2112 c.c. senza contraddizione con la giurisprudenza in materia della
CGUE), esso è irrilevante rispetto al percorso decisionale osservato dalla
Corte territoriale, esclusivamente limitatasi “da ultimo …
“all’esclusione, con accertamento in fatto insindacabile, nei dipendenti
ceduti, quale elemento di puro completamento argomentativo (“neanche
emerso … “) di un “particolare ed esclusivo bagaglio di conoscenze e
competenze (cd. knowhow,) funzionale allo svolgimento di quelle determinate
attività” (così al secondo capoverso di pg. 12 della sentenza).

7. Dalle superiori argomentazioni discende allora il
rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il
regime di soccombenza; con raddoppio del contributo unificato, ove spettante
nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di
Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna V. Italia s.p.a. alla
rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio, che
liquida in € 200,00 per esborsi e € 10.000,00 per compensi professionali, oltre
rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 ottobre 2021, n. 29203
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