Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 ottobre 2021, n. 30933

Rapporto di lavoro, Autista di autobus di linea, Mancato
versamento dell’incasso, Violazione della procedura aziendale, Lesione del
vincolo fiduciario

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Campobasso con sentenza
depositata il 18.5.2019 ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima
sede che ha ritenuto legittima la destituzione intimata il 15.6.2016 da
S.A.T.I. s.p.a. a V. F. P. per mancato versamento dell’intero incasso riscosso
in qualità di autista di autobus di linea, con particolare riferimento al
titolo di viaggio dovuto dal figlio che aveva utilizzato il trasporto il
23.3.2016, con richiamo di precedenti addebiti, nonché per insubordinazione.

2. La Corte territoriale – sottolineato che il
provvedimento espulsivo richiamava la violazione degli artt. 42 e 45, n. 4, 50
del R.d. n. 148 del 1931 e 2104 cod.civ. e che il fatto addebitato era pacifico
– ha rilevato la lesione irrimediabile del vincolo fiduciario dovuta all’appropriazione
indebita di somme di proprietà dell’azienda con consapevole violazione di una
precisa procedura aziendale – ben conosciuta dal lavoratore, come emerso dalla
documentazione prodotta (possesso della “tessera di libera
circolazione” relativa al proprio figlio per l’anno 2016), che esclude la
buona fede nella ritenuta sussistenza di una prassi aziendale – nonché dovuta
alla grave insubordinazione al superiore gerarchico che gli aveva ordinato di
consegnare l’intero incasso, con conseguente integrazione della condotta
tipizzata all’art. 45, n. 4, del R.d. citato; ha aggiunto che doveva escludersi
che il comportamento potesse essere sussumibile nelle declaratorie di cui agli
artt. 42, n 3 e 42 n. 10 del R.d. n. 148 del 1931 concernenti sanzioni conservative,
trattandosi di ipotesi con connotati assai più gravi ossia una appropriazione
di somme nella disponibilità del lavoratore e di proprietà della società e una
grave insubordinazione al superiore, e che la sanzione doveva ritenersi
proporzionata visto la possibile reiterazione di episodi di appropriazione
avendo il lavoratore dichiarato che aveva agito per “una vera e propria
questione di principio”.

3. Per la cassazione di tale sentenza il P. ha
proposto ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria ex art. 378
c.p.c. La società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

4. Il procedimento è regolato dall’art. 23, comma
8-bis del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modificazioni nella legge 18
dicembre 2020, n. 176, secondo cui “Per la decisione sui ricorsi proposti
per la trattazione in udienza pubblica a norma degli articoli 374, 375, ultimo
comma, e 379 del codice di procedura civile, la corte di cassazione procede in
camera di consiglio senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori
delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale faccia
richiesta di discussione orale”. Né i difensori delle parti, né il
Procuratore Generale hanno fatto richiesta di discussione orale.

5. Il P.G. ha rassegnato le proprie conclusioni
scritte, chiedendo l’inammissibilità del ricorso, e in subordine il rigetto.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ. violazione e falsa
applicazione degli artt. 42, 45 e 50 del R.d. n. 148 del 1931 avendol la Corte
territoriale erroneamente interpretato l’art. 45 citato ritenendo i che la
trattenuta della somma pari ad un biglietto possa rientrare nel concetto di
appropriazione indebita di somme o valori spettanti all’azienda in quanto le
fattispecie tipizzate sono tutte connotate da particolare gravità, profilo di
cui è sprovvisto il caso di specie, posto, inoltre, che il P. ha agito in buona
fede nella convinzione che sussistesse una prassi di gratuità dei biglietti a
favore dei familiari dei dipendenti; il comportamento poteva, quindi, essere al
più punito con una sanzione conservativa in considerazione del rifiuto di
adempiere l’ordine impartito dal superiore gerarchico circa la consegna
dell’incasso. La disposizione dell’art. 50 del R.d. n. 148 del 1931, relativa
alla recidiva, poteva, inoltre, consentire esclusivamente l’applicazione di una
sanzione conservativa (potendo legittimare, la recidiva, solamente
l’irrogazione “di una pena di grado immediatamente superiore a quella
precedentemente inflitta”).

2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ. violazione e falsa
applicazione dell’art. 2119 cod.civ. avendo, la Corte territoriale, violato i
principi di ragionevolezza e di proporzionalità delle infrazioni rispetto alle
sanzioni, considerato che il P. aveva trattenuto solamente l’incasso
corrispondente ad un biglietto pagato dal proprio figlio, nella convinzione che
esistesse una prassi aziendale che esonerasse i familiari dal pagamento del
biglietto.

3. I motivi, che possono essere trattati
congiuntamente visto la stretta connessione, sono in parte inammissibili e in
parte infondati.

3.1. Le argomentazioni concernenti la ricostruzione
degli elementi oggettivi e soggettivi della condotta sostanzialmente
sollecitano, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, una
rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinché
se ne fornisca un diverso apprezzamento. Si tratta di operazione non consentita
in sede di legittimità, ancor più ove si consideri che in tal modo il ricorso
finisce con il riprodurre (peraltro in maniera irrituale: cfr. Cass. S.U. n.
8053/14) sostanziali censure ex art. 360, primo comma 1, n. 5, cod. proc. civ.,
a monte non  consentite dall’art.
348-ter, commi 4 e 5, cod. proc. civ., essendosi in presenza di doppia
pronuncia conforme di merito basata sulle medesime ragioni di fatto circa la
gravità del comportamento adottato dal lavoratore.

3.2. La censura relativa alla recidiva e
all’applicazione dell’art. 50 del R.d. n. 148 del 1931 non coglie la ratio
decidendi perché il ricorrente insiste sull’applicazione della sanzione
(conservativa) immediatamente più grave rispetto a quelle già ricevute ma nulla
deduce sull’argomentazione della sentenza impugnata che ha precisato come la
contestazione disciplinare “non si limita a far riferimento unicamente
all’art. 50 del detto R.D.” ma ha addebitato un comportamento articolato
in più azioni consistenti nella violazione dell’art. 45, n. 4 del R.d.,
dell’art. 42 per insubordinazione al superiore gerarchico e dell’art. 2104
cod.civ. relativo all’obbligo di diligenza.

3.3. Infine, l’art. 45 del R.d. n. 148 del 1931,
prevede la destituzione del dipendente “che, nonostante restituzione,
scientemente si appropri o contribuisca a che altri si appropri di somme,
valori, materiale od oggetti spettanti all’azienda, o ad essa affidati per
qualsiasi causa; o scientemente, e nonostante restituzione, defraudi o
contribuisca, a che altri defraudi l’azienda dei suoi averi, diritti o
interessi, anche se tali mancanze siano rimaste allo stato di tentativo”.

Va ricordato che questa Corte ha affermato che l’art
2119 cod.civ. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione
di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere
progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica
della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante
puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che
l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole
generali come quella dell’art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di
giudizio di legittimità (Cass. 1351/2016, 12069/2015, 6501/13, 18247/2009),
poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri
e principi desumibili dall’ordinamento.

La relativa valutazione deve essere operata con
riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del
singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto
dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato,
alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro
verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello
colposo (Cass. nn. 1977 del 2016, 1351 del 2016, 12059 del 2015, 25608 del
2014). Nel caso in esame, la Corte di appello ha dato atto che l’odierno
ricorrente venne destituito dal servizio perché, in qualità di autista di
autobus di linea, cui era demandata anche la riscossione dei titoli di viaggio,
aveva trattenuto dall’incasso giornaliero il prezzo corrispondente al biglietto
utilizzato dal figlio per il trasporto nella tratta Campobasso-Termoli il
giorno 23.3.2016, aveva rifiutato di versare la somma nonostante espressa
richiesta del superiore gerarchico di regolarizzare la posizione contabile; il
fatto ascritto si connotava, dal punto di vista soggettivo, dalla
consapevolezza del P. di violare procedure specifiche volte ad una riduzione
del prezzo ai familiari dotati di tessera con nome e foto (avendo, la Corte
territoriale, escluso la buona fede e/o l’ignoranza del P. in considerazione di
riscontri documentali confermati dalle dichiarazioni dei testimoni escussi) e
dalla convinzione di agire per “una vera e propria questione di
principio” ossia per realizzare una “autoliquidazione” di ben
più consistenti somme dovute dalla società.

La Corte territoriale ha dunque ritenuto integrate
le disposizioni degli artt. 42 e 45 del R.d. n. 148 del 1931 e 2119 cod.civ.
avendo valutato, alla luce dei parametri dell’intensità dell’elemento
intenzionale, della probabilità della reiterazione del comportamento, del grado
di affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore, della grave
insubordinazione al superiore gerarchico, la proporzionalità della sanzione
espulsiva adottata nei confronti del ricorrente ed è pervenuta alla conclusione
della sussistenza di tale proporzionalità.

Si tratta di una valutazione di merito che in quanto
basata su valutazione sufficiente ed esente da vizi logici è insindacabile in
sede di legittimità.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono il criterio della soccombenza
dettato dall’art. 91 c.p.c. e sono liquidate come da dispositivo.

5. Il ricorso è stato notificato in data successiva
a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L.
24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente
tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente
o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta
a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1
bis.

Il giudice da atto nel provvedimento della
sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di
pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso
in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente
da,respingersi, deve provvedersi in conformità.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro
200,00 per esborsi nonché in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre
spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 ottobre 2021, n. 30933
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