Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2021, n. 32951

Riconoscimento dello status di portatore di handicap, Domanda
– Accertamento tecnico preventivo, Pagamento spese di lite

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 22.7.2015, il Tribunale
di Roma, decidendo in sede di opposizione ad accertamento tecnico preventivo,
ha rigettato la domanda di P.B. volta al riconoscimento dello status di
portatore di handicap grave e lo ha condannato alla rifusione delle spese, in
difetto delle condizioni di applicabilità dell’art. 152 att. c.p.c.

Avverso tale ultima statuizione, P.B. ha proposto
ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura.

L’INPS ha depositato delega in calce al ricorso
notificatogli.

Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni
scritte.

 

Ragioni della decisione

 

Con l’unico motivo di censura, il ricorrente
denuncia l’erroneità della sentenza nella parte in cui lo ha gravato delle
spese di lite e ne chiede la cassazione previa rimessione alla Corte
costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 152 att.
c.p.c., nella parte in cui non prevede «vari livelli prestabiliti di condanna
da applicare in base alle differenti fasce di reddito dei ricorrenti» (così il
ricorso per cassazione, pag. 3): ad avviso di parte ricorrente, infatti,
l’attuale formulazione dell’art. 152 att. c.p.c., nella parte in cui prevede
che al di sopra della soglia di reddito ivi individuata il soccombente sia
tenuto a pagare l’intero importo delle spese processuali, contrasterebbe con
gli artt. 3, comma 2°, 24 e 38 Cost., dal momento che, in spregio all’obbligo
della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che
limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, al diritto di
difesa e all’obbligo che siano preveduti mezzi adeguati alle esigenze di vita
dei lavoratori in caso di malattia, «sottopone tutti i cittadini al pagamento
della stessa somma per la condanna alle spese anche se possiedono redditi
differenti» (ibid., pag. 4), il che rileverebbe precisamente in specie, avuto
riguardo al suo reddito, di poco superiore al limite previsto per l’esenzione.
Devono preliminarmente disattendersi le conclusioni del Pubblico ministero
nella parte in cui argomentano l’inammissibilità del ricorso sul presupposto
che il motivo di censura sia diretto esclusivamente a prospettare una questione
di legittimità costituzionale.

Giusta la costante giurisprudenza del giudice delle
leggi (v. in tal senso, tra le tante, Corte cost. nn. 127 del 1998, 38 del
2009, 220 del 2010, 1 del 2014), i casi in cui può configurarsi un difetto
d’incidentalità della questione di legittimità costituzionale sono quelli in
cui vi sia piena coincidenza tra il petitum proposto davanti al giudice a quo e
la questione di legittimità costituzionale medesima, in ipotesi perché le parti
non hanno interessi propri da far valere in giudizio ma si fanno portatrici
ciascuna di un più ampio interesse pubblico (c.d. fictio litis).

Nel caso di specie, invece, è indubitabile che parte
ricorrente abbia formulato una precisa censura nei riguardi della sentenza
impugnata, concernente la condanna alla rifusione delle spese, di talché
l’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale non
esaurirebbe la tutela richiesta nel giudizio principale: quest’ultima potrebbe
realizzarsi solo a seguito ed in virtù della pronuncia con la quale questa
Corte, all’esito dell’eventuale sentenza di accoglimento della Corte
costituzionale, cassi la sentenza impugnata nella parte concernente la condanna
alle spese (cfr. in tal senso il conclusum del ricorso per cassazione); e il
fatto che della fondatezza della censura si possa decidere solo previa
declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 152 att. c.p.c., e dunque previa
verifica della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione proposta,
rientra a pieno titolo nella logica d’incidentalità disegnata dall’art. 23, I.
n. 87/1953, il quale, appunto, prevede che «il giudizio non possa essere
definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità
costituzionale».

Ciò premesso, reputa il Collegio che la questione
sia manifestamente infondata.

Deve preliminarmente ricordarsi che, investita più
volte della questione di legittimità costituzionale della norma cit., anche in
relazione alle diverse formulazioni che essa ha assunto nel tempo, la Corte
costituzionale ha chiarito che lo strumento dell’esonero dalle spese di lite
del lavoratore soccombente costituisce un meccanismo atto a neutralizzare la
minore resistenza del lavoratore stesso, venendo pertanto a porsi quale mezzo
di ripristino di una uguaglianza che, seppure esistente sul piano formale, è
suscettibile di cadere ove il rischio del processo, apparendo troppo gravoso,
distolga il soggetto dal far valere le sue pur fondate pretese (v. Corte cost.
nn. 23 del 1973, 60 e 85 del 1979, 98 del 1987), e – pur rilevando come non
potessero ritenersi ancora valide tutte le ragioni storiche sottese alla
previsione dell’esonero, non potendosi continuare a non tenere conto delle
mutate condizioni economiche raggiunte dai lavoratori e dunque della loro
possibile situazione di abbienza – ha tuttavia ritenuto sottratta al suo
sindacato la concreta determinazione delle categorie di abbienti e non
abbienti, che presuppone una scelta affidata alla discrezionalità del
legislatore non surrogabile da un intervento della Corte stessa (così, in
specie, Corte cost. n. 135 del 1987), limitandosi a censurare l’integrale
intervento abrogativo della disciplina dell’esonero operato dall’art. 4, comma
2, d. l. n. 384/1992 (conv. con I. n. 438/1992), dichiarato costituzionalmente
illegittimo sul rilievo che, trascurando ogni possibile distinzione tra
soggetti abbienti e non abbienti, aveva indiscriminatamente ripristinato la
situazione di disparità sostanziale nel processo, limitando di fatto la
possibilità di agire della parte privata e non tutelando a sufficienza la
condizione del soggetto inabile al lavoro (Corte cost. n. 134 del 1994).

L’attuale formulazione dell’art. 152 att. c.p.c.,
introdotta dall’art. 42, comma 11, d.l. n. 269/2003 (conv. con I. n. 326/2003),
ha recepito le indicazioni del giudice delle leggi lì dove riconosceva al
legislatore la possibilità di una definizione in senso restrittivo dell’area
dei beneficiari dell’esonero, espressamente ricordando che la determinazione
concreta delle condizioni e degli estremi della situazione di abbienza, ai fini
in discorso, «importa scelte affidate alla discrezionalità del legislatore»
(così Corte cost. n. 134 del 1994, cit., in motivazione, dove il richiamo testuale
a Corte cost. n. 135 del 1987); e, parafrasando quanto già osservato da Corte
cost. n. 71 del 1998, pare al Collegio che non possa dubitarsi che anche la
questione di costituzionalità prospettata in ricorso si risolverebbe in una
richiesta volta ad invadere indebitamente la sfera discrezionale del
legislatore in materia, vuoi nel caso in cui la Corte costituzionale operasse
essa stessa, attraverso l’invocata pronuncia d’incostituzionalità, una concreta
individuazione dei criteri oggettivi di identificazione delle diverse categorie
di lavoratori, vuoi anche ove demandasse tale compito al giudice del caso
concreto: è sufficiente al riguardo rilevare che si tratterebbe in entrambi i
casi di un intervento additivo che non potrebbe mai essere “a rime obbligate”,
in ragione della pluralità di soluzioni normative configurabili a tutela dei
principi costituzionali invocati quali parametro di legittimità della norma
(cfr. in tal senso i rilievi di Corte cost. n. 30 del 2014).

Vero è che la giurisprudenza costituzionale più
recente ha ritenuto che la sussistenza di una pluralità di alternative
possibili, che siano rimesse alla discrezionalità legislativa, e l’assenza di
una soluzione “a rime obbligate” non sono di per sé preclusive
dell’esame nel merito delle censure d’incostituzionalità (così da ult. Corte
cost. n. 48 del 2021, dove il richiamo a Corte cost. nn. 152 e 252 del 2020,
222 del 2018, 179 del 2017 e 236 del 2016); ma è pur vero che a tale
conclusione il giudice delle leggi è pervenuto sul presupposto che esistano
precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo, che
possano orientare il giudizio di “ragionevolezza intrinseca” sulla
norma di legge (così, in particolare, Corte cost. n. 236 del 2016, cit.), ciò
che, viceversa, nemmeno parte ricorrente ha potuto indicare nel caso di specie;
ed è appena il caso di soggiungere che, difettando (anche) questi ultimi,
l’invocato giudizio costituzionale di “ragionevolezza” trasmoderebbe
in un giudizio il cui il giudice delle leggi sarebbe chiamato a sostituire i
propri criteri di “giustizia” a quelli del legislatore, privando in
ultima analisi il giudizio stesso di qualsiasi premessa empiricamente e
logicamente controllabile. Ritenuta, pertanto, la manifesta infondatezza della
prospettata questione di legittimità costituzionale, il ricorso va rigettato,
nulla pronunciandosi sulle spese del giudizio di legittimità, per non avere
l’INPS svolto apprezzabile attività difensiva oltre il deposito della procura
in calce al ricorso notificatogli.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, previsto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2021, n. 32951
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