Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 novembre 2021, n. 33580

Licenziamento collettivo, Violazione dei criteri di scelta,
Non corrispondenza tra le mansioni descritte nell’accordo sindacale e quelle
elencate nella lettera conclusiva della procedura

Premesso

 

che con sentenza n. 5/2019, depositata l’I febbraio
2019, la Corte di appello di Trento ha respinto il reclamo di T.M. S.p.A. in
fallimento e confermato la sentenza, con la quale il Tribunale della medesima
sede aveva dichiarato illegittimo, per violazione dei criteri di scelta ex art.
5 I. n. 223/1991, il licenziamento intimato a S.C. in data 29 settembre 2016
all’esito di procedura avviata con comunicazione del 9 settembre precedente;

– che la Corte territoriale – esaminate le
comunicazioni di cui all’art. 4, commi 2 e 9, I. n. 223/1991 nonché l’accordo
sindacale intervenuto nel corso della procedura – ha ritenuto come in
quest’ultimo difettassero completamente indicazioni di natura oggettiva circa
il peso da attribuire alle singole posizioni professionali per dare contenuto
alle esigenze tecnico-produttive, cui le parti avevano attribuito valore
preponderante, e che, sebbene indispensabile per la formazione della
graduatoria, sulla base della quale sarebbero stati intimati i licenziamenti, era
rimasto del tutto indeterminato; non vi era corrispondenza numerica o per
raggruppamento – ha rilevato ancora la Corte – tra le mansioni elencate nella
lettera conclusiva della procedura e quelle descritte nell’accordo sindacale,
il quale, per la sua genericità e indeterminatezza, era da considerarsi
invalido, non realizzando le finalità che gli sono attribuite dalla I. n.
223/1991; l’assegnazione dei punteggi ad opera dell’azienda risultava di
conseguenza, su tali premesse, arbitraria e non verificabile nella sua
correttezza, non rinvenendosi nella comunicazione ex art. 4, c. 9, alcun
elemento che consentisse di comprendere quali criteri fossero stati
effettivamente applicati;

– che la Corte ha poi osservato, quanto alla
disposta reintegrazione nel posto di lavoro, che le omissioni e le carenze
rilevate avevano natura sostanziale, indipendentemente dalla loro
qualificazione in termini di “nullità”, poiché avevano impedito alla
procedura di realizzare lo scopo suo proprio di selezione del personale da licenziare
secondo parametri oggettivi e razionali e ai lavoratori di verificare la
corretta applicazione nei loro confronti dei criteri di scelta;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione il Fallimento della società, con quattro motivi, cui la C. ha
resistito con controricorso;

– che entrambe le parti hanno depositato memoria;

 

Rilevato

 

che con il primo motivo, deducendo violazione e
falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 ss. cod. civ., degli artt. 115, 116
cod. proc. civ. in relazione all’art. 4, commi 2 e 9, I. n. 223/1991, nonché
vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata, la dove la
Corte ha ritenuto indeterminate le indicazioni presenti nell’accordo sindacale
ed evidente la non corrispondenza tra le mansioni ivi descritte e quelle
elencate nella lettera conclusiva della procedura, non avendo realmente
esaminato tali documenti e avendone comunque dato una lettura non corretta
secondo i canoni di ermeneutica contrattuale, in primo luogo di ricerca della
comune intenzione delle parti e di valutazione delle clausole le une per mezzo
delle altre;

– che, con il secondo motivo, deducendo la
violazione e falsa applicazione delle stesse norme e dell’art. 5 I. n.
223/1991, nonché vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza
impugnata nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto privo di
oggettività l’accordo sindacale 27/9/2016, senza considerare, così
oltrepassando i limiti della propria indagine, che i soggetti delle trattative
sindacali godono della più ampia autonomia negoziale e decisionale
nell’individuare i criteri di scelta dei lavoratori e senza esaminare se, una
volta indicati tali criteri nelle esigenze tecnico-produttive e organizzative,
le parti non li avessero applicati o li avessero applicati in modo illogico o
contraddittorio rispetto alle premesse negoziali: ciò che era la conseguenza di
una valutazione erronea e carente della documentazione acquisita in causa e
dell’omesso esame di fatti decisivi;

– che, con il terzo motivo, deducendo violazione e
falsa applicazione degli artt. 4 e 5 I. n. 223/1991 e degli artt. 115 e 116
cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza
nella parte in cui ha ritenuto impossibile comprendere quali fossero gli
effettivi criteri adottati per l’attribuzione dei punteggi nella comunicazione
di chiusura, emergendone un’oscurità che era incompatibile con la norma di cui
all’art. 4, comma 9, e con le finalità della procedura, posto che – come già
sottolineato a proposito degli altri mezzi di impugnazione – la Corte aveva
omesso ogni esame dei documenti agli atti e, in ogni caso, non ne aveva
rettamente inteso e interpretato il contenuto;

– che, con il quarto ed ultimo motivo, il Fallimento
si duole che la Corte di merito abbia confermato la sua condanna alla
reintegrazione della lavoratrice, trattandosi nella specie di violazioni di
natura procedurale (e non sostanziale, come erroneamente affermato in
sentenza), dalle quali sarebbe dovuta conseguire l’applicazione della tutela
meramente indennitaria;

 

Osservato

 

che i primi tre motivi, da esaminare congiuntamente
per il rapporto di connessione che li unisce e per il fatto di porre questioni
comuni a tutti, non possono trovare accoglimento;

– che, in primo luogo, la denuncia del vizio di
motivazione (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) è da ritenersi preclusa, in
presenza di c.d. “doppia conforme” (art. 348-ter, ultimo comma, cod.
proc. civ.); né il ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo,
ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e
quelle poste a base della

sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che
esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive numerose conformi);

– che, con riferimento alla denuncia di violazione e
falsa applicazione di norme di diritto, si deve nuovamente affermare il
principio, nella specie disatteso, per il quale il vizio ex art. 360 n. 3 cod.
proc. civ. deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, alla stregua del
disposto di cui all’art. 366, 1° comma, n. 4 cod. proc. civ., non solo con
l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate ma anche mediante
la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza
impugnata che motivatamente si reputino in contrasto con le norme regolatrici
della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla
giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare
criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando
altrimenti consentito alla Corte di cassazione di adempiere il proprio compito
istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n.
16038/2013, fra le molte conformi);

– che, d’altra parte, la sentenza impugnata,
concludendo – in esito ad una ricognizione del suo contenuto – nel senso che
l’accordo 27 settembre 2016 non è tale da realizzare “le finalità che
dalla legge gli sono attribuite” e, quindi, da risultare invalido (cfr. p.
17), fa applicazione del principio, ampiamente consolidato, secondo il quale
“In tema di licenziamenti collettivi, tra imprenditore e sindacati può
intercorrere un accordo per la determinazione dei criteri di scelta dei
lavoratori da licenziare in adempimento della funzione regolamentare delegata
dall’art. 5 della I. n. 223 del 1991, stabilendo criteri anche difformi da
quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività, razionalità e non
discriminazione” (Cass. n. 118/2020; negli stessi termini, già Cass. n.
4186/2013); e altresì concludendo – dopo di avere vagliato il contenuto della
comunicazione ex art. 4, comma 9 – nel senso che essa difetta di
“qualsiasi indicazione circa i parametri in base ai quali si è definito il
diverso peso” da attribuire alle varie mansioni e abilità e che tale
radicale assenza “determina il mero arbitrio e conseguentemente
l’impossibilità di una verifica della corretta applicazione” (cfr.
sentenza, p. 18), ha fatto, ancora, applicazione di un principio egualmente
consolidato, il principio per il quale l’art. 4, comma 9, I. n. 223 del 1991,
secondo cui il datore di lavoro deve dare una “puntuale indicazione” dei
criteri di scelta e delle modalità applicative, impone oltre all’individuazione
dei criteri con cui selezionare il personale, anche la specificazione del
concreto modo di operatività degli stessi, in modo che il lavoratore possa
comprendere perché lui, e non altri, sia stato destinatario del collocamento in
mobilità o del licenziamento collettivo. (Nella specie, la S.C. ha confermato
la sentenza di merito che aveva ritenuto inidonei, alla formazione della
graduatoria dei lavoratori con metodo obiettivo ed univoco, accordi sindacali
che non precisavano la modalità in cui i vari criteri, pur razionali,
concorressero tra loro, consentendo l’esplicazione di una discrezionalità non
controllabile del datore di lavoro)”: Cass. n. 18306/2016;

– che deve poi ribadirsi, quanto alla dedotta
violazione degli artt. 1362 ss. cod. civ.: – che l’interpretazione di un
contratto e, più in generale, di un atto di autonomia privata è attività
riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità unicamente
per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi
di motivazione; – che, ai fini della censura di erronea applicazione dei canoni
ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole
legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in
concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni
attraverso i quali il giudice se ne è discostato, con puntuale trascrizione dei
documenti sui quali la censura si fonda; – che, in ogni caso, per sottrarsi al
sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia
l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, con la conseguenza
che, quando di un contratto o di una sua clausola siano possibili due o più
interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto
l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del
fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. n. 4187/2007 e successive
conformi);

– che, in realtà, nella sostanza delle censure
svolte, il ricorso tende, nei suoi primi tre motivi, ad una rilettura dei
documenti di causa e ad un nuovo apprezzamento di fatto, conforme alla tesi prospettata
dalla parte, e cioè a provocare un’attività giurisdizionale che è estranea ai
compiti di questa Corte e propria, invece, del giudice di merito;

– che il quarto motivo è infondato;

– che la sentenza impugnata ha invero esattamente
applicato il principio di diritto, per il quale “In tema di licenziamenti
collettivi, la non corrispondenza al modello legale della comunicazione di cui
all’art. 4, comma 9, della I. n. 223 del 1991, costituisce “violazione delle
procedure” e dà luogo alla tutela indennitaria (ex art. 18, comma 7, terzo
periodo, della I. n. 300 del 1970), quantificabile tra dodici e ventiquattro
mensilità, previa dichiarazione di risoluzione del rapporto alla data del
licenziamento; viceversa, la violazione dei criteri di scelta, illegittimi per
violazione di legge ovvero illegittimamente applicati in difformità dalle
previsioni legali o collettive, dà luogo all’annullamento del licenziamento,
con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di
un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (ex
art. 18, comma 4, della legge citata)”: Cass. n. 2587/2018; conformi, fra
altre: Cass. n. 19010/2018; n. 12095/2016;

 

Ritenuto

 

in conclusione che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 novembre 2021, n. 33580
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