Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 maggio 2022, n. 17597

Licenziamento, Operazioni irregolari, Prelievi in contanti,
Emissioni di assegni circolari in assenza delle contabili e della necessaria
modulistica, Giudizio di gravità, Proporzionalità della condotta

 

Fatti di causa

 

1. Con lettera in data 8 agosto 2013 la B.S.C.C.
s.p.a. intimò ad A.T. il licenziamento avendole preventivamente contestato di
aver effettuato una serie di operazioni irregolari per importi di rilevante
ammontare consistenti in prelievi in contanti ed emissioni di assegni circolari
in assenza delle contabili e della necessaria modulistica ovvero sulla base di
contabili prive della sottoscrizione dei clienti.

2. Il Tribunale di Cosenza, prima in sede sommaria e
poi all’esito dell’opposizione, pur esclusi gli addebiti del 14.5.2012, accertò
la legittimità del recesso.

3. La Corte di appello di Catanzaro investita del
reclamo ex art. 1 comma 58 e ss. della legge n. 92 del 2012, lo respinse
osservando che i fatti addebitati alla lavoratrice le erano stati
specificatamente contestati fornendole gli elementi di fatto necessari per
predisporre le sue difese. Accertò poi che delle condotte contestate era stata
offerta una prova rassicurante. Evidenziò infatti che il nome utente, riferibile
alla lavoratrice, compariva nelle operazioni attenzionate. Tanto risultava
anche dalla relazione dell’audit depositata in giudizio il cui disconoscimento
non era stato reiterato in sede di reclamo.

Inoltre, sottolineò che uno dei testi escussi, il
responsabile del servizio audit che effettuò i controlli, aveva ribadito la
riferibilità alla lavoratrice delle operazioni oggetto di verifica.

A chiarimento e precisazione di quanto affermato in
fase sommaria e di opposizione, ritenne poi che alla traccia informatica,
pacificamente rilevata, doveva essere attribuita una particolare valenza
probatoria quanto alla riferibilità alla lavoratrice delle operazioni non
essendo stata offerta una plausibile versione alternativa dei fatti in presenza
di un dato così rilevante. Sottolineò che il sistema informatico utilizzato era
provvisto di misure di sicurezza quanto all’identificazione degli utenti e, in
conclusione, ritenne raggiunta la prova della riferibilità delle operazioni
attenzionate alla lavoratrice poi licenziata le quali, per la loro importanza,
ben giustificavano la scelta datoriale di recedere dal rapporto. Escluse di
poter attribuire rilevanza alla denunciata presenza nei locali della banca di
lavoratori fittizi. Evidenziò infatti che, in ogni caso, la lavoratrice aveva
sempre negato di aver ceduto ad altri le sue credenziali a terzi. Infine
ritenne del tutto proporzionata la sanzione rispetto ai fatti addebitati.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso A.T. articolando tre motivi ai quali ha resistito con controricorso la
B.S.C.C. s.p.a.. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del
ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi
dell’art. 378 cod. proc. civ.

 

Ragioni della decisione

 

5. Il primo motivo di ricorso, con il quale è
denunciata la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 in relazione
all’art. 360 primo comma n. 3 cod.proc.civ., è inammissibile.

5.1. Deduce la ricorrente che la Corte di Appello ha
ritenuto soddisfatto il requisito di specificità degli addebiti sulla base di
una mera descrizione, seppur in dettaglio, di singoli episodi alcuni dei quali,
invero, neppure erano riferibili alla condotta della lavoratrice ritenuta
irregolare. Sostiene che in tal modo sarebbe stata violata la regola secondo la
quale la contestazione deve essere specifica e va svolta con modalità tali da
consentire il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del dipendente.
Ritiene la ricorrente, invece, di aver avuto piena comprensione del contenuto
degli addebiti e del reale motivo dell’azione disciplinare solo successivamente
all’adozione del provvedimento disciplinare quando acquisì i documenti
depositati dalla Banca in altri giudizi (documenti che contenevano
l’indicazione della natura e delle finalità illecite delle condotte che
peraltro erano state ascritte dal datore di lavoro alla responsabilità anche
penale di altri), circostanze che erano state scorrettamente sottaciute e/o
dissimulate in sede di contestazione disciplinare. Allega che la violazione di
legge denunciata consisterebbe inoltre nel fatto che questi fatti, sottaciuti,
erano stati utilizzati dalla Corte di Appello che aveva finito per conferire al
fatto contestato una diversa configurazione.

5.2. Rileva in proposito il Collegio che la censura,
pur veicolata come una violazione delle disposizioni che impongono alla datrice
di lavoro di contestare specificatamente i fatti oggetto dell’addebito
disciplinare per consentire al lavoratore di apprestare una compiuta difesa, si
risolve nella sostanza in una inammissibile rivalutazione della verificata
corretta confezione dell’addebito disciplinare della quale la Corte di appello
si è fatta carico, con motivazione esaustiva, nel replicare alla censura
formulata con il reclamo di genericità della contestazione.

5.3. In tema di sanzioni disciplinari riferibili al
rapporto di lavoro privato, premesso che la contestazione dell’addebito ha lo
scopo di fornire al lavoratore la possibilità di difendersi, la specificità
della contestazione sussiste quando sono fornite le indicazioni necessarie ad
individuare nella sua materialità il fatto nel quale il datore di lavoro abbia
ravvisato la sussistenza di infrazioni disciplinari (cfr. Cass. 23/08/2006 n.
18377). L’apprezzamento del requisito della specificità della contestazione
dell’addebito deve essere condotto dal giudice di merito, al quale tale
apprezzamento è riservato, secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti
unilaterali. Si tratta di valutazione che è sindacabile in cassazione solo
mediante censura che evidenzi la difformità dell’interpretazione data dalla
sentenza rispetto ai canoni di interpretazione ricordati e non può limitarsi a
prospettare, come invece è avvenuto nel caso in esame, una lettura alternativa
dell’atto rispetto a quella svolta nella decisione impugnata (cfr. Cass.
30/05/2018 n. 13667). Peraltro, nell’apprezzare la sussistenza del requisito
della specificità della contestazione il giudice di merito deve verificare, al
di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le
indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il
fatto o i fatti addebitati tenuto conto del loro contesto e verificare altresì
se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato
un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale
da pregiudicare in concreto il diritto di difesa (cfr. Cass. 20/03/2018 n.
6889).

5.4. Tanto premesso,nel caso in esame la Corte
territoriale nel procedere alla verifica della specificità della contestazione
si è attenuta ai principi su indicati evidenziando che dalla nota di
contestazione erano chiaramente evincibili i fatti addebitati alla lavoratrice
nei loro precisi contorni. La ricorrente oggi ripropone la diversa lettura di
quegli stessi fatti, già sottoposta all’attenzione della Corte del reclamo,
insistendo nel ritenere che solo con l’acquisizione di ulteriori documenti si
erano chiariti i termini esatti della condotta addebitatale. Sul punto,
tuttavia, la Corte di appello ha, condivisibilmente, chiarito che tale aspetto
rileva non tanto ai fini della specificità della contestazione dei fatti,
sufficientemente esplicitati, quanto piuttosto sotto il profilo della prova
degli addebiti. Si tratta di piani diversi di valutazione. Un conto è la
verifica della specificità dell’addebito su cui si innesta una piena e compiuta
difesa del lavoratore. Un altro è la prova dell’addebito contestato che grava
sul datore di lavoro e che può essere variamente offerta.

6. Il secondo motivo di ricorso denuncia la
violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.. Deduce la ricorrente che la
Corte di Appello, nel riconoscere la sussistenza dei fatti sotto il profilo
della imputabilità alla lavoratrice delle condotte e della loro rilevanza
disciplinare, sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge in quanto –
pur dovendo porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti e
i fatti non contestati, valutandone le risultanze secondo il principio del
libero apprezzamento (che non può tradursi in valutazione arbitraria,
svincolata da ogni criterio di ragionevolezza, coerenza e correttezza) –
avrebbe invece deciso in assenza di una prova rassicurante dei fatti. Avrebbe
recepito come facenti piena prova elementi suscettibili di essere valutati,
disatteso le risultanze della prova testimoniale e ritenuto prove quelle che
invece erano solo mere ipotesi e/o congetture rimaste indimostrate.

6.1. Anche tale motivo di ricorso non può essere
accolto.

6.1. E’ noto (cfr. Cass. 27/12/2016 n. 27000) che non
può porsi una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e
116 cod.proc.civ. laddove nella sostanza, come avviene nella specie, si denunci
una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di
merito. Tale violazione è correttamente veicolata nel giudizio solo allorché si
alleghi che il giudice abbia posto a base della decisione prove non dedotte
dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia
disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove
legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza
apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione. Il
principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116
cod.proc.civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito,
insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle
predette regole da parte del giudice di merito integra un errore di fatto che
va censurato nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ.
(cfr. Cass. 12/10/2021 n. 27847) e non, come nella specie, come violazione ai
sensi del n. 3 dell’art. 360 primo comma cod. proc.civ.. Peraltro, ove si
voglia prescindere dalla rubrica del motiva analizzandone il contenuto nella
prospettiva di una censura posta come vizio di motivazione essa sarebbe
inammissibile poiché nella sostanza la doglianza si risolve nel proporre una
diversa lettura delle risultanze istruttorie ma non denuncia un omesso esame di
fatto decisivo che solo ne avrebbe potuto inficiare la tenuta.

7. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 2106 e dell’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970
poiché ha ritenuto proporzionata la massima sanzione espulsiva trascurando di
tenere conto della effettiva gravità della condotta tenuta, dell’intensità
dell’elemento soggettivo, della disparità di trattamento rispetto a quello
riservato ad altri dipendenti. Con riguardo a quest’ultima ha evidenziato poi
che il regolamento disciplinare, adottato dal datore di lavoro ed acquisito
agli atti di causa, sanziona con il licenziamento condotte diverse da quelle
contestate all’odierna ricorrente.

7.1. Anche tale motivo di ricorso, per quanto
ammissibile, è infondato.

7.2. E’ noto che l’attività di integrazione del
precetto normativo di cui all’art. 2119 cod.civ. che prevede il licenziamento
senza preavviso per il caso in cui si verifichi una “causa che non
consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, norma c.d.
elastica, è demandata al giudice di merito il quale è tenuto a verificare là
riconducibilità della condotta contestata ed in concreto accertata nella
nozione di giusta causa di licenziamento sulla base di un procedimento
sussuntivo che richiede al giudice di procedere in sede interpretativa alla
selezione delle condotte valorizzando sia fattori esterni relativi alla
coscienza generale che principi dalla stessa disposizione implicitamente
richiamati (cfr. tra le altre Cass. 26/10/2018 n. 27238 ed ivi le richiamate
Cass. 05/10/2009 n. 21214 e 29/04/2004 n. 2254. Si veda anche Cass. 22/08/ 2002
n. 12414). Quella di “giusta causa” è una nozione articolata e
mutevole nel tempo, ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali e
astratte, un modulo generico che richiede di essere specificato in sede
interpretativa. Si tratta di specificazioni del parametro normativo che hanno
natura giuridica la cui contestazione ed eventuale disapplicazione è perciò
deducibile in sede di legittimità come violazione di legge.

Al contrario l’accertamento della concreta
ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il
parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a
costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del
giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione
se privo di errori logici o giuridici.

7.3. L’operazione di valutazione compiuta dal
giudice di merito per applicare la norma elastica, come l’art. 2119 cod.civ.,
non si sottrae ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il
profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione e
nell’applicazione dei parametri integrativi. L’operatività in concreto di norme
di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento
generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina
particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (cfr.
Cass. n. 27238 del 2018 cit. ed ivi le richiamate Cass. n. 9266 del 2005 e n.
5299 del 2000).

7.4. La scala valoriale espressa poi dalle
disposizioni disciplinari della contrattazione collettiva costituisce uno dei
parametri per mezzo dei quali riempire di contenuto la clausola generale
dell’art. 2119 cod.civ.. Tuttavia la tipizzazione contenuta nella
contrattazione collettiva non è vincolante, rientrando il giudizio di gravità e
proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del
giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e
soggettiva, della fattispecie. La valutazione operata dal giudice di merito,
poi, può essere sottoposta all’esame di questa Corte sotto il profilo della
violazione del parametro integrativo della clausola elastica costituito dalle
previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare. Al contrario
l’applicazione in concreto dello specifico canone integrativo ricostruito
rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è
censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione e nei limiti
in cui tale censura è oggi ancora ammissibile (cfr. tra le tante Cass.
28/05/2019 n. 14504 ma anche Cass. 23/09/2016 n. 18715 e più recentemente Cass.
19/08/2020 n. 17321).

7.5. A tali principi si è attenuta la Corte
territoriale che all’esito dell’esame delle condotte risultate provate nel
corso del giudizio ne ha evidenziato l’estrema gravità tenendo conto, oltre che
del dato oggettivo dell’entità delle somme oggetto degli illeciti prelievi, del
contesto in cui si sono verificate, anche del rilievo da attribuire all’operato
del direttore della filiale e dell’accertata riferibilità alla lavoratrice,
sulla base di una serie di elementi tra loro convergenti in maniera univoca,
della materiale esecuzione degli stessi. Si tratta di un apprezzamento dei
fatti acquisiti al processo che si vuole ribaltare proponendone una diversa
valutazione in questa sede inammissibile. Per contro, accertata la condotta,
non è revocabile in dubbio la sua sussumibilità nella nozione di giusta causa, sotto
il profilo della idoneità della stessa a ledere il vincolo fiduciario che il
datore di lavoro deve poter riporre nel suo dipendente nella correttezza della
sua prestazione tenendo conto dell’attività svolta, delle mansioni e delle
responsabilità in concreto affidate alla lavoratrice, dei possibili pregiudizi
per la clientela e per la banca stessa derivanti da condotte non conformi alle
regole impartite.

8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.000,00 per compensi professionali,
€ 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per
legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quarter del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13
comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

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