Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 giugno 2022 – n. 20523

Pubblico impiego, Art. 33 legge n. 104/1992, Diritto alla
scelta della sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere
– Limiti

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 8441/2015, pubblicata il 4
dicembre 2015, la Corte d’appello di Roma, pronunciando sull’impugnazione
proposta da E.D.G. nei confronti del Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali, confermava la decisione del locale Tribunale che aveva respinto la
domanda del ricorrente – in servizio dal 18.12.2006 presso la Direzione
Regionale del Lavoro di Milano e, poi, dal 19.5.2008, presso la Direzione
Generale dell’Attività Ispettiva di Roma, con funzioni di ispettore tecnico,
area III, fascia retributiva F3 – volta a fare accertare il diritto a ottenere,
ai sensi dell’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992 il trasferimento presso la
Direzione provinciale dei lavoro di Foggia (o, in subordine, presso quella
regionale di Bari) per poter assistere la madre portatrice di handicap grave e,
per l’effetto, sentire ordinare colà il suo trasferimento, con condanna
dell’Amministrazione al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale
patito;

2. riteneva la Corte capitolina che l’art. 33, comma
5, legge n. 104/1992 non configurasse un diritto incondizionato del lavoratore,
tanto che la norma precisa che il diritto alla scelta della sede di lavoro più
vicina al domicilio della persona da assistere sussiste solo “ove
possibile”; sosteneva che il posto presso l’Amministrazione, oltre a
essere vacante, dovesse essere reso «disponibile» mediante un provvedimento di
copertura, rispondente alle esigenze e alle necessità organizzative formulate
dallo stesso Ministero; evidenziava che il D.G., nel caso di specie, non aveva
provato la «disponibilità» del posto vacante presso gli Uffici di Foggia o di
Bari; riteneva significativo, in senso contrario alla tesi del D.G., che la sua
assunzione era avvenuta alla stregua di un concorso (per esigenze dettate
dall’art. 12 legge n. 123/07) relativo a posti da coprire a Milano e non già
destinati in Puglia e che solo dopo il dipendente era stato trasferito a Roma,
a seguito di successiva «tornata» di assunzioni, sede (quest’ultima) dove
v’erano rilevanti scoperture di organico; sottolineava che il Ministero, sin
dalla memoria difensiva di prime cure, aveva evidenziato, senza che vi fosse
contestazione ex adverso, che nella sede di Roma, ove il D.G. prestava
servizio, «all’epoca della sua domanda e successivamente vi erano scoperture di
organico», donde l’interesse dell’Amministrazione a non depotenziarla;
sottolineava che nelle more, precisamente in data 10.2.2014, il ricorrente
aveva comunque ottenuto un trasferimento a Foggia a seguito di procedura di
mobilità territoriale straordinaria, sicché occorreva statuire soltanto sulla
residua domanda risarcitoria, i cui profili di danno erano rimasti peraltro
indimostrati, ciò anche a voler (in tesi) prescindere dalla valutazione in
ordine alla piena legittimità del diniego al trasferimento dapprima opposto
dall’Amministrazione; 3. E.D.G. ha proposto ricorso per la cassazione della
sentenza, affidato a tre motivi, al quale il Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali ha opposto difese con tempestivo controricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia la
violazione dell’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992 e ss.mm.ii. in relazione
alla violazione o falsa applicazione dell’art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc.
civ.; censura la sentenza impugnata per aver subordinato il diritto di scelta
della sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere,
esercitato dal lavoratore con istanza del 2.8.2007, a un potere discrezionale
dell’Amministrazione; assume che il diritto previsto dall’art. 33, comma 5,
legge n. 104/1992 non poteva essere negato laddove, nelle sedi di Foggia o
Bari, vi fossero stati «posizioni disponibili o vacanti, che effettivamente vi
erano»; soggiunge che la sentenza impugnata si poneva oltretutto in contrasto
con puntuali disposizioni governative vincolanti per il Ministero, come la
circolare n. 13/2010 del Dipartimento della Funzione Pubblica, la quale
precisava che la nuova formulazione dell’art. 33 legge n. 104/1992 «accorda al
lavoratore un diritto che può essere mitigato solo in presenza di circostanze
oggettive impeditive, come ad esempio la mancanza di posto corrispondente nella
dotazione organica di sede»;

2. con il secondo motivo il ricorrente si duole
della violazione dell’art. 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360, comma 1 n.
3, cod. proc. civ., perché la sentenza aveva ritenuto fondate le ragioni di
diniego alla richiesta di trasferimento senza che il Ministero avesse fornito
prova dell’esistenza dei fatti impeditivi, e cioè dell’assenza di scoperture di
organico nelle sedi da lui richieste in epoca concomitante alla domanda di
trasferimento (i.e., 2.8.2007);

3. con il terzo mezzo lamenta la violazione degli
artt. 1218-2697 cod. civ. in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc.
civ., perché la sentenza aveva rigettato le domande risarcitorie del D.G.
disattendendo tutte le istanze istruttorie formulate da quest’ultimo e
violando, in tal guisa, i principi in tema di responsabilità contrattuale ex
art. 1218 cod. civ., posto che era evidente «il nesso causale tra diniego al
trasferimento e i danni […] in termini di spese»; 3. il primo motivo di
ricorso non è fondato;

3.1 il giudice d’appello ha correttamente
interpretato la norma di cui all’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992; questa
Corte di legittimità ha più volte ribadito, infatti, che il diritto di scelta
della sede più vicina al domicilio della persona invalida da assistere non è un
diritto soggettivo assoluto e illimitato ma è assoggettato al potere
organizzativo dell’Amministrazione che, in base alle proprie esigenze
organizzative, potrà rendere il posto «disponibile» tramite un provvedimento di
copertura del posto «vacante»;

in tale senso è stato interpretato l’inciso «ove
possibile» dell’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992, quale necessario
bilanciamento degli interessi in conflitto (interesse al trasferimento del
dipendente ed interesse economicoorganizzativo del datare di lavoro)
soprattutto in materia di rapporto di lavoro pubblico laddove tale
bilanciamento riguarda l’interesse della collettività (Cass. 25 gennaio 2006,
n. 1396; Cass., Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 7945; Cass. 18 febbraio 2009, n.
3896; Cass. 30 marzo 2018, n. 7981; da ultimo, v. Cass. 22 febbraio 2021, n.
4677);

3.2 l’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992
disciplina, in sostanza, uno strumento indiretto di tutela in favore delle
persone in condizione di handicap, attraverso l’agevolazione del familiare
lavoratore nella scelta della sede ove svolgere l’attività lavorativa al fine
di rendere quest’ultima il più possibile compatibile con la funzione
solidaristica di assistenza del soggetto invalido, ma non è l’unico strumento
posto a tutela della solidarietà assistenziale; sicché il diritto di scelta non
può ledere le esigenze economiche, produttive od organizzative del datore di
lavoro e, soprattutto nei casi di rapporto di lavoro pubblico, non può tradursi
in un danno per l’interesse della collettività (Cass., S.U., n. 7945 del 2008);

3.3 in caso di trasferimento a domanda, l’esigenza
familiare è di regola recessiva rispetto a quella di servizio (v. in tal senso
v. anche Cass. 14 maggio 2018, n. 11651), essendo, ad esempio, necessario, per
scongiurare un danno per la collettività, garantire la copertura e la
continuità del servizio stesso, oltre che la stessa funzionalità della sede a
quo, piuttosto che valutare l’impatto sulla sede ad quem;

3.4 il presupposto della «vacanza» (peculiarità
delle organizzazioni pubbliche, in quanto riflesso delle cd. piante organiche)
esprime, dunque, una mera potenzialità, che assurge ad attualità soltanto con
la decisione organizzativa della P.A. che deve esprimere l’interesse concreto e
attuale di procedere alla copertura del posto, rendendo per tal via disponibile
la vacanza, pena la compressione delle esigenze organizzative della P.A. (v.
sempre Cass. n. 11651/2018, cit.; Cass. 13 agosto 2021, n. 22885);

3.5 in conclusione, la vacanza del posto è
condizione necessaria ma non sufficiente: l’Amministrazione resta libera,
infatti, di decidere se coprire una data vacanza ovvero privilegiare altre
soluzioni e le sue determinazioni devono sempre rispettare i principi
costituzionali d’imparzialità e di buon andamento, dovendo rispondere a
finalità ed esigenze che prescindono dall’interesse dell’aspirante e che,
invece, vanno commisurate anche all’interesse alla corretta gestione della
finanza pubblica;

3.6 nella specie, come affermato dalla Corte
territoriale, presso gli uffici giudiziari richiesti dal ricorrente a Foggia o
a Bari non vi erano posti «disponibili», ed era oltretutto prevalente, secondo
un accertamento di fatto compiuto dal giudice d’appello e, come tale,
insindacabile in sede di legittimità, l’interesse dell’Amministrazione a non
depotenziare la sede di Roma, dove il ricorrente prestava all’epoca servizio;

3.7 da disattendere è poi l’ulteriore censura che
imputa alla Corte territoriale la violazione della circolare ministeriale n. 13
del 6.10.2010, dovendo ribadirsi il principio, più volte affermato da questa
Corte, secondo cui la violazione di circolari di provenienza anche ministeriale
non può costituire motivo di ricorso per Cassazione sotto il profilo della
violazione di legge, non contenendo esse norme di diritto, ma essendo piuttosto
qualificabili come atti unilaterali (negoziali o amministrativi), in
riferimento ai quali può essere denunciata per cassazione soltanto la violazione
dei canoni di ermeneutica contrattuale, nella misura in cui essi sono
applicabili anche agli atti unilaterali (Cass. n. 16612/2008, Cass. n.
296/2006; Cass. n. 16644/2015), violazione non dedotta dal ricorrente;

4. anche il secondo motivo di ricorso è infondato;

4.1 la violazione di legge, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ.. e 2697 cod civ., può
essere utilmente dedotta nei casi in cui il giudice di merito, a fronte di un
quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul
principio actore non probante reus absolvitur e abbia errato nella
qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in
realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo.

Solo in tal caso l’errore condiziona la decisione,
poiché fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli della incertezza probatoria
su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico
regola-eccezione, a provare il fatto incerto.

4.2 Detta evenienza non si verifica allorquando il
giudice, all’esito della valutazione delle prove assunte e a prescindere dalla
individuazione della parte tenuta a provare i fatti rilevanti ai fini della
decisione della controversia, pervenga al convincimento che i fatti allegati dall’attore
non siano provati, mentre lo siano quelli sui quali il convenuto ha fondato le
proprie difese.

In tal caso, infatti, il rigetto della domanda non
discende dalla errata applicazione del principio dell’onere della prova,
giacché, una volta affermato con certezza che il fatto allegato dall’attore non
si è verificato mentre si è realizzato quello dedotto dal convenuto, diviene
irrilevante stabilire se le circostanze da quest’ultimo allegate costituissero
il fondamento di una mera difesa o di un’eccezione.

4.3 Nel caso di specie la Corte territoriale,
contrariamente a quanto opina il ricorrente, ha ritenuto, a prescindere dalle
«astratte piante organiche» suscettibili di copertura, che non vi fosse in
Puglia disponibilità di posti per effetto dell’emanazione di un provvedimento
di copertura, rispondente alle esigenze e necessità della P.A., la quale ultima
aveva altresì allegato circostanze di «forte elemento indiziario in senso del
tutto contrario a quanto voluto dal D.G.», affermando sin dalla memoria difensiva
di primo grado, senza che vi fosse contestazione specifica ex adverso, che
«nella sede di Roma […] all’epoca della sua domanda e successivamente vi
erano carenze di organico»; in altri termini, il giudice di appello non ha
fondato la decisione sulla regola residuale dell’onere della prova, ma ha, al
contrario, nel ponderato bilanciamento degli interessi in conflitto, ritenuto
provato che quello dell’Amministrazione fosse in concreto prevalente, ciò per
non depotenziare la sede di Roma ove prestava servizio il D.G.; talché, diviene
irrilevante stabilire se dovesse essere addossato o meno all’attore l’onere di
provare l’esistenza di posti «disponibili» nelle sedi pugliesi;

5. alla stregua delle suesposte considerazioni, una
volta esclusa l’illiceità della condotta dell’Amministrazione, va disatteso
anche il terzo (e ultimo) motivo, sicché il ricorso va, nel complesso,
rigettato;

6. le spese, nella misura liquidata in dispositivo,
seguono la soccombenza;

7. ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R.
n. 115/2002, come modificato dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve darsi atto, ai
fini e per gli effetti precisati da Cass., SU., n. 4315/2020, della ricorrenza
delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del
contributo unificato, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del presente
giudizio di legittimità che liquida in euro 6.000,00 per compensi professionali
oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

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