Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 novembre 2022, n. 33477

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Custode,
Razionalizzazione delle risorse, Insindacabilità delle scelte datoriali,
Legittimità

 

Fatti di causa

 

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte
d’appello di Brescia respingeva l’appello che F.P. aveva proposto contro la
sentenza del Tribunale d Bergamo che aveva rigettato il ricorso con cui il
suddetto aveva chiesto di accertare l’illegittimità del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, intimatogli dalla convenuta Fondazione V.P. e A.M.S., e di
condannare quest’ultima alla riassunzione o al risarcimento del danno ai sensi
dell’art. 8 L. n. 604/1966,
e condannava l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del secondo
grado, come liquidate.

2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale,
come il primo giudice, riteneva che la fondazione convenuta non avesse mutato
in giudizio, secondo quanto invece di nuovo sostenuto dall’appellante, il
motivo del licenziamento, intimato, con nota del 13.4.2017, perché la stessa
fondazione “al fine di meglio razionalizzare le risorse e anche
nell’ottica del contenimento dei costi, è giunta alla determinazione di rinunciare
alla figura del custode, le cui attività saranno svolte da altro impiegato già
in organico, e di conferire l’incarico di effettuazione delle pulizie dalla
nostra sede a un soggetto esterno”; un motivo, questo, che, inoltre, la
stessa Corte reputava sussistente e non pretestuoso.

3. Avverso tale sentenza F.P. ha proposto ricorso
per cassazione, affidato a tre motivi.

4. Ha resistito l’intimata, con controricorso.

5. Quest’ultima ha ancora prodotto memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia
“Violazione del principio della immediatezza della contestazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., artt. 3 e 5 legge 604 del 1966 e art. 1175 cod. civ.)”.

2. Con il secondo motivo, denuncia “omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art.
360 n. 3 e n. 5 c.p.c., art.
5 legge 604 del 1966)”.

3. Con il terzo motivo, deduce “Censurabilità
in Cassazione del provvedimento di licenziamento per g.m.o. nel caso in cui –
come nella fattispecie – esista l’obbligo del Giudice di verificare l’esistenza
e la non pretestuosità del motivo di licenziamento addotto dal datore di lavoro
(art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., art. 5 legge n. 604 del 1966)”.

4. Nota preliminarmente il Collegio che tutti e tre
i motivi di ricorso per cassazione fanno riferimento anche al vizio di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., vale a dire,
all’ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è
stato oggetto di discussione tra le parti”; ma essi in parte qua appaiono
inammissibili.

4.1. Occorre in tal senso ricordare che, per questa
Corte, ricorre l’ipotesi di c.d. “doppia conforme”, ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con
conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non solo quando
la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo
grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter
logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non
ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare
o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (in tal senso Cass.
civ., sez. VI, 9.3.2022, n. 7724).

È stato, inoltre, specificato che, nell’ipotesi di
“doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’articolo 348-ter del c.p.c., il ricorrente per
cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’articolo 360 del c.p.c., deve indicare le ragioni
di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base
della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro
diverse (così Cass. civ., sez. II, 14.12.2021, n. 39910; id., sez. IlI;
3.11.2021, n. 31312; id., sez. IlI, 9.11.2020, n. 24974).

4.2. Nel caso in esame, però, a fronte di decisioni
di primo e di secondo grado tra loro senz’altro conformi quanto alla reiezione
delle pretese attoree, il ricorrente neppure ha allegato (prima che dimostrato)
che le rispettive rationes decidendi di esse fossero diverse.

5. Inoltre, le Sezioni Unite di questa Corte hanno
insegnato che l’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc.
civ., riformulato dall’art.
54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7
agosto 2012, n. 134, ammette la denuncia innanzi alla S.C. di un vizio
attinente all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza provenga dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, con
la necessaria conseguenza che è onere del ricorrente, ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., indicare il
fatto storico, dato da cui risulti esistente, il come ed il quando esso abbia
formato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività
(così Cass. civ., sez. un., 30.7.2021, n. 21973).

5.1. Osserva allora il Collegio, ma sempre nella
direzione dell’inammissibilità dei motivi in esame, che sia nel primo che nel
terzo di essi, l’impugnante neanche indica uno o più fatti storici (principali
o secondari) a suo dire decisivi per il giudizio, e men che meno come e quando
essi siano stati dibattuti tra le parti.

5.2. Nell’ambito del secondo motivo, invece, si
asserisce che uno dei motivi d’impugnazione fatti valere avanti alla Corte
d’appello consisteva nella mancata applicazione e quindi nella violazione da parte
del giudice di primo grado del principio della immediatezza della
contestazione, e si assume che “il Giudice del merito, sia di primo che di
secondo grado, non ha preso in minima considerazione la suddetta violazione
omettendo così in modo totale, ai sensi dell’art.
360 n. 5 c.p.c., l’esame circa un “fatto” decisivo per il
giudizio”.

5.3. E’ del tutto evidente, però, che per tal modo
il ricorrente non fa valere l’omesso esame di un fatto in ipotesi decisivo,
bensì assume che non sarebbe stata considerata una violazione di legge,
relativa al principio della immediatezza della contestazione, oppure che
sussisterebbe un’omessa pronuncia su un motivo d’appello in cui sarebbe stata
riproposta la medesima questione; il che non è deducibile ex art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c.

6. Si può aggiungere che, ove fosse stata del tutto
omessa qualsiasi pronuncia su un motivo d’appello in cui fosse stata fatta di
nuovo valere la questione dell’immediatezza della contestazione, il pertinente
vizio sarebbe stato la violazione dell’art. 112
c.p.c., quindi da far valere con il differente mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 4) c.p.c.

6.1. Ma anche in questa diversa chiave
d’inquadramento il secondo motivo resterebbe certamente inammissibile.

Invero, da un lato, dal testo della decisione qui
impugnata, in cui si dà conto dei motivi d’appello proposti (cfr. in
particolare seconda e terza facciata della stessa), non emerge assolutamente
che le censure all’epoca formulate comprendessero la deduzione della violazione
del principio d’immediatezza della contestazione (il motivo principale
d’appello concerneva piuttosto, come già accennato in narrativa, la tesi
dell’allora appellante secondo cui la Fondazione resistente avrebbe mutato in
giudizio il motivo di licenziamento), e, dall’altro, l’attuale impugnante non
specifica in nessun punto del proprio ricorso con quale motivo d’appello
avrebbe sostenuto la violazione del principio d’immediatezza della
contestazione.

Difatti, nella narrativa del ricorso si sostiene che
“anche in sede di discussione orale davanti alla Corte d’appello” si
faceva presente appunto “che il Tribunale di Bergamo, aderendo alla tesi
della Fondazione: I. aveva violato il principio della immediatezza della
contestazione, …” (cfr. pag. 10 del ricorso), e nel secondo motivo di
ricorso per cassazione si deduce genericamente che “Uno dei motivi
d’impugnazione da noi fatti valere avanti la Corte d’Appello di Brescia
consisteva nella mancata applicazione e quindi nella violazione da parte del
Giudice di primo grado del principio della immediatezza della
contestazione” (così a pag. 21 del ricorso), mancando quindi sia ’ di meglio
individuare tale motivo d’appello che di precisarne il contenuto, riferendone
il tenore testuale nell’atto di gravame. Sicché a riguardo il secondo motivo
difetterebbe comunque dell’occorrente autosufficienza.

7. Sia nel primo che nel secondo motivo si fa riferimento
anche all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.,
e, perciò, all’ipotesi della violazione o falsa applicazione di norme di
diritto.

7.2. Occorre quindi ricordare a riguardo che le
Sezioni Unite di questa Corte hanno insegnato che, in tema di ricorso per
cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al
ricorrente che denunci il vizio di cu all’art. 360,
comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare
le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminare il
contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute
nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di
dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi
demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa
ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della
sentenza che si pongono in contrasto con essa (così Cass. civ., sez. un.,
28.10.2020, n. 23745).

7.3. Ora, nel secondo motivo si menziona l’art. 5 L. n. 604/1966, che
concerne l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo di licenziamento (a carico del datore di lavoro), ma poi si
assume che “i Giudici di primo e secondo grado, non solo non abbiano
rilevato d’ufficio, come potevano e dovevano fare (e riteniamo che ciò
costituisca violazione della legge o norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c.), la violazione da parte
dell’imprenditore o datore di lavoro del principio dell’immediatezza, ma ne
abbiano dimenticato persino l’esistenza”; il che all’evidenza nulla a che
vedere con il citato onere probatorio e con la previsione che lo contempla.

7.4. Nel primo motivo al richiamo dell’art. 5 L. n. 604 del 1966 si
aggiunge il richiamo degli artt.
3 della stessa legge e 1175 c.c.

Ebbene, l’art. 3 L. n. 604/1966
certamente non contempla il principio dell’immediatezza della contestazione che
si assume violato.

E’ pur vero, poi, che è stato anche di recente
confermato che la ratio di detto principio riflette l’esigenza dell’osservanza
della regola di buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di
lavoro (cfr., ad es., Cass. civ., sez. lav.,
24.7.2020, n. 15930); regola che, a sua volta, trova fondamento anche nell’art. 1175 c.c., evocato dal ricorrente.

Ma quest’ultimo non tiene conto che tutti i
precedenti di legittimità che cita applicano il principio dell’immediatezza
alla contestazione disciplinare, laddove nel caso che ci occupa, come neanche
discusso dall’impugnante, si è in presenza di un licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, non essendo stato contestato alcunché al lavoratore.

Invero, da tempo questa Corte ha chiarito che il
requisito dell’immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla
contestazione degli addebiti applicabile con riferimento al licenziamento
individuale per giusta causa o giustificato motivo soggettivo non si adatta al
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, poiché le ragioni
di garanzia e di difesa a tutela del lavoratore – con particolare riferimento
all’esigenza di evitare che il lavoratore possa essere esposto a tempo
indeterminato al pericolo del licenziamento per i fatti contestatigli, posta a
base del suddetto requisito di legittimità – non sussistono nel licenziamento
per giustificato motivo oggettivo (dipendente da ragioni inerenti all’attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro e al funzionamento di essa), nel
quale occorre solo controllare che ricorrano in concreto le esigenze
organizzative poste dal datore di lavoro a fondamento del provvedimento
espulsivo (in tal senso Cass. civ., sez. lav., 19.12.2006, n. 27101).

Pertanto, tutte le considerazioni svolte
dall’impugnante nel primo motivo di ricorso, ma anche nel secondo, non sono
assolutamente pertinenti rispetto alla natura del licenziamento intimato, come
ritenuta dai giudici di merito, oltre che pacifica in causa.

8. Resta da considerare il terzo ed ultimo motivo
per la parte in cui si fa riferimento nuovamente all’art. 5 L. n. 604/1966 in
relazione all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.

8.1. In particolare, dopo numerosi richiami a
precedenti giurisprudenziali in tema di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, il ricorrente assume che la Corte territoriale non si sarebbe
“minimamente preoccupata di operare le distinzioni” emergenti dai
citati precedenti, “interpretando in modo assoluto il principio della
insindacabilità, ex art. 41 Cost., delle scelte
operate tout court dal datore di lavoro, avendo ritenuto che nella specie gli
stessi Giudici di merito non potessero censurare le scelte di fondo
dell’imprenditore”.

Sempre secondo il ricorrente, “si sarebbe
dovuto prendere in considerazione che i lavori di restyling – come si è detto
più sopra – rappresentavano una semplice situazione contingente, ossia non
permanente né stabile, delle parti comuni dell’edificio” e “Queste
erano si sottoposte a restyling (non ad un vero e proprio intervento di ristrutturazione,
quando piuttosto di maquillage), per cui tali lavori non potevano considerarsi
– come ha ritenuto la Corte di merito – la causa prima e fondante una
situazione che poteva giustificare il rifiuto del datore di lavoro di accettare
dal ricorrente prestazioni di lavoro in gran parte e per un tempo indefinito da
ritenersi inutilizzabili. E’ il datore di lavoro che decide sui tempi di
esecuzione e quindi sulla durata dei lavori di restyling”.

8.2. Orbene, tali osservazioni e quelle ulteriori
che svolge il ricorrente nel motivo ora in esame anche sul tema del
“contenimento delle spese e dei costi” non tengono nella minima
considerazione quanto accertato in fatto e poi valutato dalla Corte
distrettuale.

Quest’ultima, infatti, dopo aver riferito il contenuto
della nota datoriale contenente l’indicazione del motivo del licenziamento
(come qui riportato in narrativa), aveva ritenuto “confermato dalle prove
esperite” che, “iniziati nel novembre 2016 i suddetti lavori, le
mansioni del lavoratore erano andate via via riducendosi in conseguenza
dell’andamento della ristrutturazione, prima limitata alla parte esterna
dell’edificio e poi anche alla parte interna e al giardino, così che nel mese
di aprile 2017, quando ormai il cantiere occupava l’intera area, erano rimaste
in capo al custode solo marginali attività; in questa situazione, il datore di
lavoro, al fine di una migliore razionalizzazione delle risorse e anche
nell’ottica di un contenimento dei costi, ha quindi deciso di rinunciare al
posto di custode, affidando all’impiegato della Fondazione, unico dipendente
oltre il F., le residue mansioni di quest’ultimo (legate principalmente alla
ricezione della posta e al ricevimento) e programmando l’affidamento dei lavori
di pulizia a una ditta esterna per il momento in cui sarebbe terminata la
ristrutturazione”. Inoltre, la Corte d’appello aveva ritenuto che:
“Né ai fini della illegittimità del licenziamento vale replicare che la
soppressione del posto di lavoro deve essere diretta a fronteggiare situazioni
sfavorevoli non contingenti, le quali non sono state provate e che, in ogni
caso, non possono essere individuate nei lavori di ristrutturazione
dell’immobile, trattandosi di una situazione comunque temporanea”. …
“Nella specie, la soppressione del posto di custode nell’ambito della
riorganizzazione finalizzata alla razionalizzazione delle risorse e al
contenimento dei costi è stata provata e quindi il giustificato motivo
oggettivo sussiste, a prescindere dalla natura temporanea dei lavori di
ristrutturazione, che non sono la causa del licenziamento, ma hanno costituito
il contesto al cui interno è maturata la decisione di rinunciare
definitivamente al posto di custode. Resta da dire che l’assunto circa il
modesto risparmio derivante dal licenziamento non è argomento utile per
desumere la pretestuosità del licenziamento, tenuto conto che il risparmio, tra
retribuzione e contribuzione, non è certo trascurabile e costituisce una
riduzione importante del costo del lavoro avuto riguardo al limitatissimo
organico della Fondazione e che a nulla rileva il presunto interno di ottenere
il rilascio dell’immobile occupato dal F. (questione per la quale la Fondazione
ha peraltro iniziato una causa civile di rilascio)”.

8.3. E’ di tutta evidenza allora che il ricorrente
fonda i suoi assunti su una propria diversa ricostruzione dei fatti,
comprensiva tra l’altro della tesi che all’origine della situazione secondo la
datrice di lavoro determinante il licenziamento vi fosse, non una vera e
propria ristrutturazione dell’immobile ove ha sede la fondazione
(ristrutturazione man mano estesasi anche all’esterno ed al giardino) ed ancora
perdurante all’epoca del recesso datoriale (come accertato dalla Corte di
merito); ma un intervento di mero e contingente restyling, insufficiente a fondare
un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Una tale diversa
ricostruzione, però, non è ovviamente consentita in questa sede di legittimità,
e quella compiuta dal giudice d’appello, come le valutazioni dallo stesso
operate, non sono state qui censurate in modo ammissibile sul piano
motivazionale (s’è già detto della certa inammissibilità di tutti i motivi di
ricorso per la parte in cui vi è fatto valere il mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c.).

9. In definitiva, tutti i motivi di ricorso sono
inammissibili sotto ogni punto di vista nei termini sin qui illustrati.

10. Il ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente,
dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle
spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è
tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato,
pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente
al pagamento, in favore della contro ri corrente, delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 3.000,00 per
compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella
misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1 bis, se
dovuto.

 

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 novembre 2022, n. 33477
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