Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 dicembre 2022, n. 36861

Lavoro, Licenziamento disciplinare, Intercettazioni telefoniche, Atti assunti nel corso delle indagini preliminari, Grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, atto a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, Valutazione del giudice, Indagine sul pregiudizio arrecato all’azienda, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. la Corte di Appello di Palermo, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, all’esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto il ricorso proposto da L.S. volto ad impugnare il licenziamento disciplinare intimato da E.D. Spa in data 22 dicembre 2015;

2. la Corte – in sintesi – ha ritenuto fondati gli addebiti contestati al lavoratore, consistiti: a) nell’avere, reiteratamente e in più occasioni, intrattenuto colloqui telefonici (oggetto di intercettazione) con un ex dipendente Enel indagato nell’ambito di un procedimento penale, fornendo a costui informazioni commercialmente sensibili al fine di consentirgli di compiere operazioni illecite in danno dell’Enel; b) nell’essersi adoperato per accelerare l’evasione delle pratiche segnalate da detto ex dipendente prima della loro naturale scadenza, con l’intento di favorire i clienti che ne avevano avanzato richiesta; c) nell’avere ritirato misuratori di energia senza rilevare la presenza di evidenti segni di manomissione sugli stessi e senza darne comunicazione alle strutture preposte secondo le procedure aziendali in vigore;

la Corte, accertati tali fatti, ha ritenuto giustificato il licenziamento, argomentando che, “al di là dell’effettivo pregiudizio arrecato, rilevano l’intensità dell’elemento soggettivo (chiaramente intenzionale) e la delicatezza delle mansioni svolte (operaio addetto, tra l’altro, all’installazione e disinstallazione dei misuratori di energia elettrica), che richiedono il massimo affidamento da parte del datore di lavoro circa la capacità del prestatore di operare secondo criteri di assoluta trasparenza e rispettando le procedure aziendali destinate proprio ad impedire tentativi di frode in danno dell’azienda”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con tre motivi; ha resistito con controricorso la società;

entrambe le parti hanno comunicato memorie;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.c., lamentando che la Corte territoriale avrebbe ritenuto utilizzabili le intercettazioni telefoniche, nonostante il procedimento a carico del S. si trovasse ancora nella fase delle indagini preliminari, di talché non sarebbe stato possibile affermare la legittimità di tali intercettazioni, la cui verifica potrebbe essere compiuta “unicamente nel processo penale”;

2. la censura è priva di fondamento;

secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, giacché la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. n. 2168 del 2013; Cass. n. 15714 del 2010; Cass. n. 132 del 2008);

è parimenti consolidato il principio alla stregua del quale le “intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della l. n. 300 del 1970, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale” (Cass. n. 10017 del 2016 e Cass. n. 5317 del 2017, e, in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, Cass. S.U. n. 3271 del 2013; Cass. S.U. n. 3020 del 2015; Cass. S.U. n. 741 del 2020);

pertanto, la sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte e chi ricorre neanche si misura con l’affermazione, contenuta nella pronuncia, secondo cui il S. “non ha indicato quali garanzie difensive o procedurali (in ipotesi) sarebbero state violate durante la loro acquisizione”;

irrilevante, infine, la circostanza che il S. – come dedotto dalla parte ricorrente con la memoria conclusiva – abbia visto archiviata la sua posizione nell’ambito del procedimento penale a suo carico;

infatti, in disparte l’inutilizzabilità in questa sede di legittimità dei documenti prodotti unitamente alla memoria (il decreto di archiviazione peraltro risale al 2015), va ricordato che alla rilevanza della sentenza penale nel successivo procedimento disciplinare si applica il principio generale secondo cui il giudicato non preclude, in sede disciplinare, «una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale» (Cass. S.U. n. 14344 del 2015 e Cass. n. 11948 del 2019; il giudicato di assoluzione e, a maggior ragione, la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato non determinano l’automatica archiviazione del procedimento disciplinare perché, fermo restando che il fatto non può essere ricostruito in termini difformi, non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare; ma è pacifico che il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale – cui fa riferimento l’attuale ricorrente− non ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare neppure ai suddetti fini, non essendo equiparabile ad una sentenza definitiva di assoluzione per insussistenza del fatto o per non averlo l’imputato commesso (Cass. S.U. n. 14551 del 2017; Cass. S.U. n. 16277 del 2010);

3. il secondo motivo denuncia la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori”, lamentando che “la Corte, concentrata unicamente sulla ricostruzione, in termini di mera ‘verosimiglianza’, dell’elemento soggettivo”, avrebbe omesso “ogni indagine e considerazione circa il pregiudizio reale ed effettivo arrecato all’azienda”;

col terzo mezzo si deduce ancora la violazione dell’art. 7 dello S.d.L., oltre che dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970 e dell’art. 25 del CCNL di categoria, sostenendo che, secondo la disciplina collettiva, la massima sanzione espulsiva sarebbe “relegata a fatti gravissimi, connotati da rilevanza penale”, o a fatti che abbiano provocato, all’Azienda, “grave nocumento morale e/o materiale”;

4. i motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, non possono trovare accoglimento;

non deducono, nelle forme proprie, la violazione dell’art. 360, comma 1, n.3, c.p.c., ma, piuttosto, tendono ad una rivalutazione nel merito, circa il concreto apprezzamento delle condotte contestate quali ipotesi di giusta causa di licenziamento;

inoltre la sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui dalla natura legale della nozione di cui all’art. 2119 c.c. deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure, più di recente, Cass. n. 27004 del 2018 e Cass. n. 3283 del 2020); valutazione nella specie compiuta dal giudice di merito, che ha sottolineato l’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (cfr. Cass. n. 16260 del 2004), giudice al quale spetta anche il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003);

quanto all’indagine sul pregiudizio arrecato all’azienda, è appena il caso di rammentare che, in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (Cass. n. 8816 del 2017; Cass. n. 19684 del 2014);

5. conclusivamente il ricorso deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per spese, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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