Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 gennaio 2023, n. 770

Lavoro, Licenziamento per giusta causa, Tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi, Misure di sicurezza cd. “innominate”, Violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza, Valutazione di elementi indiziari, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. La Corte d’appello di Roma ha accolto il reclamo proposto da S.D.B. e, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato il licenziamento intimatole dalla U.T. società Cooperativa a mutualità prevalente (d’ora in avanti anche “U.T.”) il 19.6.2017 ed ha condannato quest’ultima alla reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro e al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino alla reintegra, in misura non superiore alle dodici mensilità, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.

2. La Corte territoriale ha dato atto che la lavoratrice è stata licenziata per giusta causa per avere l’8.4.2017, mentre lavorava presso la cassa del supermercato, consentito che tre clienti oltrepassassero la barriera della cassa lasciando i prodotti nei carrelli; per avere omesso di invitare i predetti a depositare la merce sul nastro trasportatore, come prescritto dal regolamento aziendale, e di eseguire un controllo diretto, limitandosi, invece, a registrare sul misuratore fiscale le quantità di ciascuna tipologia di prodotto indicate dagli stessi clienti, in misura notevolmente inferiore a quelle effettive, come percepibile da chiunque e, a maggior ragione, da una cassiera con esperienza.

Difatti, l’addetto alla vigilanza, in accordo con i responsabili del negozio, aveva chiesto l’intervento dei carabinieri; questi avevano provveduto a identificare i clienti mentre caricavano la merce su un furgone parcheggiato nei pressi del centro commerciale; all’esito della verifica era emerso che i tre clienti avevano pagato merce per euro 998,08 e prelevato altra merce non pagata per euro 1.672,02.

3. La sentenza impugnata ha precisato come la condotta contestata alla lavoratrice e posta a base della decisione di recesso consistesse nell’avere operato in modo negligente; non era invece addebitata alla stessa alcuna forma di agevolazione concordata o di partecipazione al tentativo di furto della merce non pagata.

4. I giudici di appello hanno accertato: che la cassiera, al momento dei fatti, ha contattato la guardia giurata in servizio segnalando la presenza di persone sospette alla cassa; che la società da tempo teneva sotto controllo alcuni “accaparratori”, cioè persone che in caso di offerte facevano grandi approvvigionamenti di merce; che nel caso di specie i clienti alla cassa erano in tre e hanno preteso di indicare e pagare un quantitativo di merce palesemente inferiore a quella presente nei carrelli; che la guardia giurata non ha ritenuto di intervenire a supporto della cassiera prima dell’arrivo dei carabinieri, ma ha semplicemente invitato la caporeparto a recarsi in cassa per tranquillizzare la dipendente;

che la caporeparto si è recata presso la cassa invitando la lavoratrice a continuare regolarmente il proprio lavoro senza timore; che i carabinieri al loro arrivo non sono entrati immediatamente nel supermercato ma, utilizzando un’uscita posteriore dove si trovava la guardia giurata, hanno controllato le telecamere di sorveglianza che riprendevano i tre uomini alla cassa e li hanno poi raggiunti nel parcheggio, ove hanno proceduto al controllo della merce e degli scontrini.

5. I giudici di appello hanno ritenuto che la cassiera fosse stata lasciata sola, per un periodo significativo, a fronteggiare tre persone dalla stessa individuate come sospette e che avevano assunto un atteggiamento univocamente intimidatorio, come vi evince dal numero delle persone (tre), dalla pretesa di indicare essi stessi la merce da pagare senza passarla sul nastro trasportatore e di oltrepassare la cassa con carrelli ricolmi di merce, all’evidenza in quantità ben superiore a quella indicata; che la guardia giurata, sebbene richiesta dalla cassiera, non era intervenuta preferendo attendere l’arrivo dei carabinieri; che nessun supporto era stato dato alla cassiera dalla caporeparto, pure interpellata, che l’aveva invitata a continuare da sola e con regolarità il lavoro, ignorandone lo stato di agitazione; che in tale contesto la cassiera non poteva escludere che, ove avesse ordinato ai clienti di posizionare la merce sul nastro, gli stessi non avrebbero reagito mettendo a repentaglio la sua incolumità; che il datore di lavoro, tenuto a proteggere i dipendenti, non poteva pretendere che la cassiera si ponesse da sola in contrasto con quei clienti, quando la stessa caporeparto e la guardia giurata avevano deciso di non intervenire e di attendere i carabinieri, il cui intervento avrebbe consentito, come poi avvenuto, di recuperare la merce non pagata.

6. Sulla base di tali premesse, la Corte di appello ha ritenuto che la condotta contestata, sebbene esistente, non fosse meritevole di alcuna sanzione espulsiva in quanto priva del carattere di illiceità, cioè non rilevante dal punto di vista disciplinare.

7. Avverso tale sentenza la U.T. società cooperativa a mutualità prevalente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

S.D.B. ha resistito con controricorso e ricorso incidentale condizionato, formulando tre motivi a sostegno della nullità o illegittimità del licenziamento. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.

 

Considerato che

 

Ricorso principale della U.T.

8. Col primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art. 1460 c.c. e all’art. 54 c.p. Si contesta l’erronea interpretazione delle disposizioni citate sulla cui base la Corte d’appello ha escluso la rilevanza disciplinare del grave inadempimento posto in essere dalla lavoratrice.

9. Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. sul rilievo che la sentenza impugnata non spieghi da quali fatti noti e in forza di quali dati gravi, precisi e concordanti si potesse desumere che, se la lavoratrice avesse chiesto di pagare tutta la merce, vi sarebbe stata una “reazione da parte dei tre malviventi mediante minaccia o peggio mettendo a repentaglio la di lei in incolumità”; si osserva che l’unico fatto noto indicato dalla Corte di merito come significativo di un atteggiamento “univocamente intimidatorio” dei clienti era il loro numero (tre persone), mentre l’altro fatto, cioè la “pretesa di indicare essi stessi la merce di pagare” non può dirsi noto in quanto circostanza non emersa nel corso del processo.

10. Con il terzo motivo si censura la sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c. per avere la Corte di merito ignorato fatti emersi nel corso dell’istruttoria, in particolare quelli riferiti dal responsabile dell’Area salvaguardia patrimonio del Gruppo U.T., sig. Vincenzo Auriemma, in sede di sommarie informazioni rese dinanzi ai carabinieri l’11.5.2017 nel procedimento a carico della D.B., poi citata a giudizio per concorso in furto aggravato.

11. Con il quarto motivo di ricorso la medesima censura è sollevata in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., quale omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Ricorso incidentale condizionato di S.D.B.

12. Con il primo motivo è dedotta la tardività e nullità del licenziamento nonché la violazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 194, comma 5, del c.c.n.l.

13. Con il secondo motivo è dedotta la nullità del licenziamento, la violazione dell’art. 2106 c.c., dell’art. 193 del c.c.n.l., dell’art. 30, comma 3, legge 183 del 2010.

14. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 5, legge 604 del 1966, dell’art. 7, legge 300 del 1970, degli artt. 2118 e 2119 c.c. e degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c.

15. Con il quarto motivo si censura la sentenza d’appello adducendosi la nullità o annullabilità del licenziamento per carenza di giusta causa o giustificato motivo; violazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3, legge 604 del 1966.

16. Il primo motivo del ricorso principale è infondato.

17. Questa Corte ha affermato che l’ampio ambito applicativo dell’art. 2087 cod. civ. rende necessario l’apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale (così. Cass. n. 7405/15). In tema di obblighi di prevenzione ex art. 2087 c.c., l’adozione di particolari misure di sicurezza (cd. “innominate”) viene in rilievo con riferimento a condizioni lavorative obiettivamente, ma anche solo potenzialmente, pericolose, in cui la pericolosità derivi dalla movimentazione di somme di denaro (Cass. n. 29879 del 2019; Cass. n. 34 del 2016).

18. Sul tema dell’inadempimento di una delle parti nei contratti a prestazioni corrispettive, come è quello di lavoro, si è sostenuto, in linea generale, che l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, secondo comma c.c., in base al quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede (Cass. n. 434 del 2019; Cass. n. 14138 del 2018; Cass. n. 11408 del 2018).

19. Il giudice deve quindi procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, con la conseguenza che ove l’inadempimento di una parte non sia grave oppure abbia scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 cod. civ., il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non potrà considerarsi in buona fede e, quindi, non sarà giustificato ai sensi dell’art. 1460, secondo comma, cod. civ. (Cass. n. 11430 del 2006). La valutazione di gravità dell’inadempimento contrattuale non può che essere rimessa all’esame del giudice di merito, incensurabile in cassazione se la relativa motivazione risulti immune da vizi logici o giuridici (Cass. n. 434 del 2019 cit.; Cass. n. 11430 del 2006 cit.; Cass. n. 4709 del 2012).

20. Con specifico riferimento alla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., si è considerato legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore (v. Cass. n. 28353 del 2021; Cass. n. 6631 del 2015), posto che è in gioco il diritto alla salute di rilievo costituzionale.

21. In tema di licenziamento per giusta causa, che rileva nella fattispecie in esame, questa Corte ha precisato che il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete (v. Cass. n. 12777 del 2019).

22. La Corte di merito si è scrupolosamente attenuta ai principi appena richiamati e, con accertamento in fatto non censurabile in questa sede di legittimità, ha ritenuto che la parte datoriale fosse venuta meno, in quello specifico frangente, all’obbligo di protezione della dipendente rispetto ai comportamenti minacciosi da parte dei tre clienti, o, comunque, così percepiti dalla cassiera secondo un atteggiamento di buona fede (tanto da avere indotto la stessa a chiedere l’intervento della guardia giurata) e come tali idonei ad esporre la stessa a pericolo per la propria incolumità; con la conseguenza che l’inadempimento posto in essere dalla dipendente, non come rifiuto di svolgere la prestazione bensì come esecuzione della stessa in maniera non conforme alle modalità prescritte dalla società (obbligo dei clienti di riporre tutta la merce sul nastro trasportatore), dovesse giudicarsi legittimo e giustificato, nella prospettiva del citato art. 1460, comma 2, cod. civ.

23. Da tale convincimento, la Corte di merito ha correttamente tratto la conseguenza di ritenere il fatto contestato privo di rilievo disciplinare, con applicazione della tutela di cui all’art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012. In tal senso v. Cass. n. 19579 del 2019, secondo cui, in tema di licenziamento disciplinare, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall’accertata illegittimità dell’ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d’inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell’illiceità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, prevista dall’art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012.

24. Neppure il secondo motivo del ricorso principale può trovare accoglimento.

25. Premesso che, come recita l’art. 2727 c.c., le presunzioni sono le conseguenze che la legge (presunzioni legali) o il giudice (presunzioni semplici o giudiziali) trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, nella giurisprudenza di legittimità si è più volte sottolineato come, nel dedurre dal fatto noto quello ignoto, il giudice di merito incontri il solo limite del principio di probabilità (Cass. n. 13546 del 2006).

Non occorre cioè che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire la esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile, secondo un criterio di necessità assoluta ed esclusiva (v. Cass. n. 6387 del 2018 e precedenti ivi citati), ma è sufficiente che l’inferenza del fatto noto da quello ignoto sia effettuata in base ad un canone di ragionevole probabilità, con riferimento alla connessione degli accadimenti la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza basate sull’id quod plerumque accidit (v. Cass. n. 14762 del 2019; Cass. n. 6387 del 2018 cit.; Cass. n. 6081 del 2005; Cass. n. 13169 del 2004; Cass. n. 9961 del 1996).

26. Il giudizio valutativo sugli indizi costituisce un giudizio di fatto, come tale rimesso al giudice di merito che, nel suo libero apprezzamento, può valutarli, ove anche provenienti dalla parte, come idonei alla dimostrazione di un fatto determinato e porli, in concorso o meno con altri elementi significativi, a base del proprio convincimento (v. Cass. n. 5645 del 2006; Cass. n. 17371 del 2003; Cass. n. 7935 del 2002; Cass. n. 13213 del 2001; v. anche Cass. n. 15383 del 2010; Cass. n. 8126 del 2004).

27. La valutazione degli indizi è incensurabile in sede di legittimità, spettando a questa Corte soltanto la verifica sul rispetto dei principi che regolano la prova per presunzioni (cfr. Cass. n. 5332 del 2007; Cass. n. 1216 del 2006; Cass. n. 3974 del 2002) e quindi sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute (senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento o nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti); appartiene al giudizio di legittimità, inoltre, il sindacato sulle massime di esperienza utilizzate nella valutazione delle risultanze probatorie. Tale controllo non può peraltro spingersi fino a sindacarne la scelta, dovendo questa S.C. limitarsi a verificare che il giudizio probatorio non sia fondato su congetture, ovvero su ipotesi non rispondenti all’id quod plerum accidit o su regole generali prive di una sia pur minima plausibilità invece che su vere e proprie massime di esperienza (in tal senso Cass. n. 6387/18 cit.).

28. Nel caso in esame, la Corte di merito ha ricostruito in fatto l’accaduto rilevando che i clienti, in numero di tre (rispetto alla cassiera lasciata sola) e “individuati dalla cassiera come sospetti”, avessero volutamente omesso di posizionare la merce sul nastro e “preteso” di indicare essi stessi alla cassiera la merce da pagare e di “oltrepassare la cassa con carrelli ricolmi di merce, all’evidenza in quantità ben superiore a quella indicata”. Ha ritenuto che tale modalità di condotta avesse in sé un carattere intimidatorio e che, comunque, fosse stata ragionevolmente percepita come intimidatoria da parte della dipendente, tanto da indurla a chiedere l’intervento della guardia giurata. Ha considerato il comportamento della stessa guardia giurata (che “nonostante la segnalazione del pericolo da parte della cassiera, non ha ritenuto di intervenire a suo supporto ed ha preferito attendere l’arrivo dei carabinieri” e della caporeparto “) come una conferma del contegno minaccioso dei tre clienti.

29. Rispetto a tale ricostruzione, i rilievi mossi dalla società col motivo di ricorso in esame non investono la correttezza del ragionamento presuntivo ma si limitano a contestare l’esistenza in fatto degli elementi indiziari (la “pretesa di indicare essi stessi la merce di pagare non è (fatto) noto per il semplice motivo che tale circostanza non è affatto emersa nel corso del processo”) e a richiamare ulteriori indizi di segno contrario (l’essere il supermercato gremito di clienti, la presenza nel negozio della caporeparto e del responsabile del punto vendita, oltre che della guardia giurata), senza tuttavia fornire dati o argomenti in grado di mettere in dubbio la plausibilità logica della valutazione compiuta dai giudici di merito e la conformità della stessa alle comuni regole di esperienza.

30. Il terzo e il quarto motivo del ricorso principale, che pongono la medesima censura da diversi angoli di visuale, sono inammissibili.

31. L’art. 115 c.p.c. si limita a richiedere che la decisione si basi su elementi validamente acquisiti al processo e vieta al giudice di utilizzare prove non dedotte dalle parti o acquisite d’ufficio al di fuori dei casi in cui la legge conferisce un potere officioso d’indagine (v. Cass. n. 27000 del 2016; Cass. n. 13960 del 2014).

Per costante giurisprudenza, esula dall’ambito applicativo di tali disposizioni ogni questione che involga il modo in cui siano stati selezionati e valutati gli elementi probatori acquisiti, profilo su cui il controllo di legittimità può svolgersi solo con riguardo alla motivazione, in termini di violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., nella specie neanche dedotta, oppure nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (v. Cass., S.U. nn. 8053 e 8054 del 2014). Quest’ultima disposizione presuppone la denuncia di omesso esame di un fatto storico, determinato e avente valore decisivo, idoneo cioè a condurre, ove considerato, ad un esito diverso della controversia. Nessuno di questi requisiti ricorre nel caso di specie in cui si invoca l’omesso esame non di un fatto storico, bensì del contenuto delle sommarie informazioni rese nel procedimento penale iniziato nei confronti della cassiera, delle quali non è ipotizzabile, ma neanche prospettata, la decisività.

32. Per le ragioni esposte il ricorso principale deve essere respinto, risultando di conseguenza assorbito il ricorso incidentale condizionato.

33. La regolazione delle spese del giudizio segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo e raddoppio del contributo unificato, se dovuto, ricorrendone i presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (v. Cass., S.U. n. 23535 del 2019).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.

Condanna la ricorrente principale alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 gennaio 2023, n. 770
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