Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 gennaio 2023, n. 2245

Lavoro, Licenziamento collettivo, Progetto di ristrutturazione aziendale riferito in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, Esigenze tecnico produttive riferite al “complesso aziendale”, Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, Rigetto

 

Ritenuto che

 

1. Con la sentenza n. 1989/2019 la Corte di appello di Milano ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale della stessa sede con la quale erano stati dichiarati illegittimi i licenziamenti intimati, nell’ambito di una procedura collettiva, ai dipendenti (…), con ordine di reintegra in servizio e con condanna al pagamento delle retribuzioni perse dal licenziamento alla reintegrazione.

2. I giudici di seconde cure, dato atto che nelle more i lavoratori avevano esercitato il diritto di opzione, hanno rilevato che, dalla lettura di comunicazione di apertura della procedura, era emerso in modo evidente come la crisi e la riorganizzazione avessero riguardato l’intero complesso aziendale e non fosse stata limitata solo ad alcuni punti vendita aventi particolari caratteristiche per cui la limitazione dei licenziamenti operata, nel caso in esame, dalla società all’ambito provinciale (Milano) appariva del tutto illegittima ed ingiustificata; hanno precisato che l’eccezione formulata dalla società in ordine al fatto che, qualora la platea dei lavoratori da licenziare fosse stata estesa all’ambito nazionale, i dipendenti comunque sarebbero stati licenziati, era tardiva; hanno sottolineato, infine, che comunque i lavoratori non avrebbero potuto dimostrare, per il principio della vicinanza della prova, tale possibilità.

3. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la (…) affidato a tre motivi cui hanno resistito, con un unico controricorso, i tre lavoratori.

4. I controricorrenti hanno depositato memoria nella quale, tra l’altro, hanno fatto presente che la (…) era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano con sentenza n. 795 del 17.12.2021.

 

Considerato che

 

1. Preliminarmente deve specificarsi che l’intervenuta modifica dell’art. 43 I. fati. (ndr art. 43 I. fall.) per effetto dell’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006, nella parte in cui stabilisce che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”, non comporta l’interruzione del giudizio di legittimità, posto che in quest’ultimo, in quanto dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge (Cass. n. 27143/2017).

2. I motivi possono essere così sintetizzati.

3. Con il primo motivo la ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, il travisamento delle risultanze istruttorie relativamente a più fatti ritenuti decisivi dalla Corte di appello, con conseguente contraddittorietà tra il dato esistente in atti e quello preso in considerazione nella sentenza impugnata, il cui ragionamento risultava, pertanto, viziato: in particolare, per avere ritenuto i giudici di seconde cure che i lavoratori licenziabili erano quelli addetti ai soli punti vendita destinati alla chiusura; che dalla comunicazione di apertura della procedura, la crisi e la riorganizzazione riguardavano l’intero complesso aziendale; che la suddetta comunicazione era carente circa il fatto che non erano stati coinvolti i punti vendita dell’intero complesso aziendale; che le mansioni svolte dagli addetti ai punti vendita dislocati su tutto il territorio nazionale erano fungibili.

4. Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 co. 1 legge n. 223/1991, anche con riferimento all’art. 41 Cost., per avere escluso la Corte distrettuale la legittimità della selezione del personale in esubero in ambito provinciale, così violando e/o comunque falsamente applicando anche l’art. 24 legge n 223/91, non considerando che tale disposizione individuava il territorio della provincia quale ambito dell’impatto sociale che un licenziamento collettivo poteva interessare e che, nel caso di specie, la comparazione in ambito provinciale era l’unica in grado di garantire un risultato economicamente ed imprenditorialmente sostenibile.

5. Con il terzo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100 cpc, per avere la Corte di appello rilevato la tardività della eccezione di difetto di interesse ad agire dei lavoratori quando, invece, tale eccezione era rilevabile anche di ufficio, in ogni stato e grado del processo.

6. Il primo ed il secondo motivo, per la loro interferenza, devono essere esaminati congiuntamente.

7. Essi sono infondati.

8. In primo luogo, le censure sono in netto contrasto con l’orientamento costante di questa Corte secondo cui, in tema di licenziamento collettivo, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei – per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. n. 203/2015; Cass. n. 13698/2015; Cass. n. 2788/2016; Cass. n. 13182/2003; Cass. n. 12711/2000).

9. In tale precipua prospettiva, le esigenze tecnico produttive devono essere riferite al “complesso aziendale”, non essendovi spazio, dunque, per una restrizione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta che sia frutto della iniziativa datoriale pura e semplice, perché, ciò finirebbe nella sostanza con l’alterare la corretta applicazione dei criteri stessi, che la L. n. 223 del 1991, art. 5, intende espressamente sottrarre al datore, imponendo che questa venga effettuata o sulla base dei criteri concordati con le associazioni sindacali, ovvero, in mancanza, secondo i criteri legali. È dunque arbitraria e quindi illegittima ogni decisione del datore di lavoro diretta a limitare l’ambito di selezione ad un singolo settore o ad un reparto, se ciò non sia strettamente giustificato dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale. La delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, quando cioè gli esposti motivi dell’esubero, le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta (Cass. n. 25353/2009, Cass. n. 9711/2011; Cass. n. 13783/2006; Cass. n. 10590/2005).

10. Nel caso di specie, la sentenza si è correttamente pronunciata sulla questione, non ravvisando le esigenze di cui all’art. 5, comma 1, della I. n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale, che potessero costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, ravvisando un’assoluta carenza nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della I. n. 223 citata, sia per le ragioni che limitassero i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia per le ragioni per cui non fosse stato ritenuto ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine.

11. I giudici di seconde cure, pertanto, seguendo l’orientamento di questa Corte, hanno dichiarato l’illegittimità dei licenziamenti intimati per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali, avendo ravvisato come la comunicazione facesse generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere (Cass. n. 16834/2019; Cass. n. 22178/2018; Cass. n. 19105/2017; Cass. n. 5718/1999; Cass. n. 11465/1997).

12. E’, infine, opportuno evidenziare come nel caso in esame la Corte territoriale abbia anche evidenziato che la insussistenza di concrete ed effettive esigenze aziendali ex art. 5, comma 1, I. n. 223 del 1991 derivasse dall’assoluta fungibilità delle mansioni svolte dai lavoratori degli stabilimenti della società ricorrente (circostanza incontestata), essendo stato previsto un progetto di “standardizzazione delle attività di gestione dei punti vendita sul territorio” adottato già nel 2015 avente finalità di uniformità dei modelli direzionali con strutture gerarchiche il più possibile simili ai fini di uno scambio dei vari dipendenti tra le diverse unità territoriali.

13. Pertanto, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, i giudici di seconde cure hanno coerentemente interpretato l’orientamento costante di questa Corte secondo cui in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, ai fini di una delimitazione del personale a rischio è imprescindibile che sussistano contemporaneamente sia un’autonomia dello ‘stabilimento oggetto della procedura che l’infungibilità delle mansioni svolte presso l’unità produttiva; siffatte esigenze tecnico produttive ed organizzative devono essere necessariamente enunciate ed illustrate dal datore con la comunicazione di cui all’art. 4, comma 3 I. 223/91 (Cass. n. 2429/2012; Cass. n. 25353/2009; Cass. n. 9711/2011).

14. La censura, inoltre, incorre in una violazione del principio di c.d. “doppia conforme” ex art. 348 ter, commi 4 e 5 c.p.c., ovverosia quando la sentenza d’appello conferma la decisione di primo grado, in tali fattispecie il ricorso per Cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1 – 2 – 3 e 4 c.p.c. (Cass. n. 10627/2021; Cass. n. 11439/2018; Cass. n. 26860 del 18/12/2014).

15. Invero, nel caso in esame, sia il Tribunale di Milano che la stessa Corte territoriale hanno dichiarato illegittimi i licenziamenti intimati ai lavoratori per violazione delle disposizioni di cui agli artt. 5, comma 1 e art. 4, comma 3, della I. n. 223/91, per genericità della comunicazione ed assenza delle esigenze aziendali ai fini della procedura di riduzione del personale esclusivamente per alcuni punti vendita.

16. Per ragioni di completezza, è opportuno ribadire che il giudice di merito non è obbligato a prendere in esame tutte le risultanze processuali prospettate dalle parti, essendo sufficiente che egli abbia indicato gli elementi posti a fondamento della statuizione adottata. In tal senso, la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito il quale non è tenuto a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie – sprnpreché la o le risultanza/e non considerata/e partitamente non sia/siano tale/i da condurre ad una diversa decisione – dovendo solo fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti (Cass. n. 16467/2017; Cass. n. 12751/2001; Cass. n. 5045/1999).

17. Il terzo motivo è inammissibile per carenza di interesse.

18. La Corte distrettuale, oltre alla ritenuta tardività della eccezione sulla questione che i lavoratori, anche se la platea fosse stata estesa all’ambito nazionale, comunque sarebbero rientrati in quelli da licenziare, ha posto a fondamento della propria decisione un’ulteriore ratio, ovverosia l’omessa indicazione, da parte della società, nella comunicazione di chiusura della procedura, dei criteri per individuare la comparazione con gli altri lavoratori delle diverse unità produttive della società, essendo stata precisata solo la tabella con i punteggi dei dipendenti di Milano e provincia; da qui l’assunto dei giudici di seconde cure circa l’impossibilità, per gli odierni controricorrenti, di adempiere l’onere di provare che, in applicazione dei criteri di scelta in ambito nazionale, non sarebbero rientrati tra i lavoratori in esubero.

19. La sentenza impugnata si fonda, quindi, su due rationes decidendi, tutte astrattamente idonee a sorreggere la decisione, con la conseguenza che la mancata specifica impugnazione del profilo riguardante l’insufficienza della comunicazione di chiusura della procedura di licenziamento collettivo, con conseguente impossibilità per i lavoratori di adempiere all’onere della prova, rende inammissibile il motivo di ricorso, per difetto di interesse (cfr. Cass. Sez. Un. n. 16602/2005; Cass. n. 24540/2009; Cass. n. 3633/2017), rispetto alla censura sulla rilevata tardività dell’eccezione il cui esame diverrebbe ultroneo perché non potrebbe mai portare alla cassazione della sentenza.

20. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

21. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

22. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

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