Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2019, n. 26031

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Indennità
risarcitoria, Vaghezza della motivazione, Prova

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza
pubblicata il 5 dicembre 2017, in riforma della pronuncia di primo grado, ha
annullato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comunicato a F.B.
in data 22 giugno 2016 dalla Società I.T. Srl ed ha condannato all’immediata
reintegrazione del dipendente la H. Srl, quale società effettiva datrice di
lavoro; la Corte ha poi condannato tale ultima società a corrispondere una
indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale di
fatto, oltre accessori e versamento contributi previdenziali, “dedotto
quanto pagato con la sentenza di primo grado”.

2. La Corte milanese, conformemente al primo
giudice, ha ritenuto che al momento del recesso si era già “consolidato un
regime spiegabile solamente con l’assunzione della titolarità datoriale del
rapporto – pretermessa di fatto la I.T. Srl, per la quale non vi è in atti
qualsivoglia indizio probatorio di segno contrario – esclusivamente in capo
alla H. Srl”, concretandosi “per fatti concludenti” il
“fenomeno di somministrazione irregolare accertato in primo grado”.

Quanto al licenziamento, pur essendo stato
comunicato dalla I. il 22 giugno 2016, esso era “a tutti gli effetti da
ascrivere alla H. Srl”, in ragione dell’applicazione del comma 2 dell’art. 27 del d. Igs. n.
276 del 2003, secondo cui “tutti gli atti compiuti dal somministratore
(ndr. irregolare) … si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha
effettivamente utilizzato la prestazione”; la successiva lettera dell’11
luglio 2016 – con cui la H. Srl, dopo aver affermato la sua terzietà rispetto
al licenziamento intimato da altri, subordinatamente confermava “la
cessazione del rapporto di lavoro così come già formalizzata dalla I.T.
Srl” – secondo la Corte milanese non poteva essere intesa quale “ratifica
dell’altrui operato”.

Affermato poi che “la sussistenza del
giustificato motivo oggettivo fondamentalmente presuppone la sua correlazione
causale con la realtà organizzativa propria del datore di lavoro che intende
modificarla sopprimendo la posizione lavorativa in base ad una nuova
valutazione delle esigenze produttive e organizzative”, la Corte di
Appello ha ritenuto che, “nel caso di specie, a voler prescindere dalla
vaghezza della motivazione, che non ha trovato (e non poteva trovare) plausibili
riscontri in quella che era la realtà di fatto in cui in quel tempo operava la
I., resta il dato, pregiudiziale e assorbente, di una scissione tra l’autore
del negozio di licenziamento e il soggetto divenuto – di fatto e giuridicamente
– il datore di lavoro, di modo che, …, è persino impraticabile ogni analisi
sul fondamento dell’enunciata causale del recesso”.

La Corte ne ha tratto la conseguenza della “più
completa insussistenza della causale enunciata per giustificare il
licenziamento e, dal punto di vista della tutela applicabile, “la
manifesta insussistenza del fatto” con applicazione del quarto comma dell’art. 18 I. n. 300 del 1970,
come novellato dalla I. n. 92 del 2012.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la società soccombente con 4 motivi, cui ha resistito con controricorso
F.B..

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia
“violazione e falsa applicazione degli artt.
1362, 1363, 2094
c.c., 112, 115,
414, 416 c.p.c.
e 27 d. Igs. n. 276 del 2003”
contestando l’accertamento dei giudici in ordine all’imputazione di un rapporto
di lavoro subordinato in capo alla H. Srl; si sostiene che avrebbero
“completamento omesso ogni effettivo accertamento in merito” non
considerando neanche il contenuto di taluni “documenti espressamente menzionati
dalla H. nelle proprie difese”.

Il motivo è inammissibile.

Nonostante l’involucro solo formale della denuncia
di violazione di legge, peraltro promiscuamente formulata con riferimento a
plurime norme sostanziali e processuali senza che sia dato capire come possano coesistere
nello stesso motivo pretesi errores in iudicando con errores in procedendo,
nella sostanza si invoca una rivalutazione della ricostruzione fattuale operata
dai giudici ai quali esclusivamente compete, anche attraverso il riferimento a
materiali istruttori (in particolare a documenti di cui si postula una diversa
interpretazione), che è invece affidata al sovrano apprezzamento del giudice di
merito; vengono così travalicati i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto
dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.,
come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU.
nn. 8053 e 8054 del 2014, con principi costantemente ribaditi dalle stesse
Sezioni unite (v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre
che dalle Sezioni semplici) di cui parte ricorrente non tiene adeguato conto.

Per di più in una ipotesi in cui l’accertamento
della titolarità effettiva del rapporto di lavoro in capo alla H. Srl è stato
conformemente ritenuto in entrambi i gradi di merito, sicché è anche operativa
sul punto la preclusione dell’art. 348 ter, ultimo
comma, c.p.c., in base al quale il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non è deducibile in
caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme” (v. Cass. n. 23021 del 2014).

2. Con il secondo motivo si denuncia
“violazione e falsa applicazione degli artt.
1362, 1363, 1366,
1371, 2094 c.c.,
112, 115 c.p.c.
e 27 d. Igs. n. 276 del 2003, 2 e 3 della legge n. 604 del 1966
e 18 della legge n. 300 del
1970”.

Si deduce che, ai sensi dell’art. 27 del d. Igs. n. 276 del 2003,
“la lettera di licenziamento della I. doveva ritenersi atto compiuto dalla
H. ad ogni effetto e, quindi, sia come decisione, sia come formalizzazione e
sia come contenuto”. Si sostiene che i giudici di appello avrebbero errato
ad escludere “l’esistenza di un licenziamento scritto per giustificato
motivo adottato dalla H.” nonché “a ravvisare l’esistenza di un
licenziamento con motivazione inesistente”, nonostante la richiamata
previsione legislativa che, ove correttamente applicata, avrebbe condotto a
dichiarare la legittimità del recesso, essendo stata soppressa la posizione
lavorativa cui era adibito il B.. Si deduce che, con la lettera dell’11 luglio
2016, la H. Srl, pur contestando in radice di essere la datrice di lavoro del
B., subordinatamente faceva “integralmente propria la comunicazione di
licenziamento e relative motivazioni inviata dalla I.T.”.

Anche tale motivo è inammissibilmente formulato
mediante la promiscua e contemporanea deduzione di violazione di innumerevoli
disposizioni di legge, sostanziale e processuale, che non consentono una
adeguata identificazione del devolutum.

Invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad
oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in
specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle
cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione.

Il rispetto del principio di specificità dei motivi
del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale
“della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra
l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative
delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come
abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n.
23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della
impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il
contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass.
n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n.
3941 del 2002).

L’osservanza del canone della chiarezza e della
sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere
processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo
espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione
(Cass. n. 19100 del 2006, conf. Cass. 9228 del
2016) ed è dunque inammissibile un motivo che non consenta di individuare
in che modo e come le numerose norme richiamate nella rubrica sarebbero state
violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto
asseritamente trasgrediti nonché i punti della motivazione specificamente
viziati (Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata).

In particolare, poi, anche le Sezioni Unite, al cospetto
di un motivo che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità
di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c.,
hanno avuto modo di ribadire la propria giurisprudenza che stigmatizza tale
tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la
impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure
caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242
del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del
2016; tra le più recenti v. Cass. n. 3141 del 2019, Cass.
n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019; Cass.
n. 18560 del 2019). Infatti tale modalità di formulazione risulta
irrispettosa del canone della specificità del motivo di impugnazione nei casi
in cui, nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non
risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro
vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da
rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure
(v. Cass. n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n. 9470 del 2008).

Il motivo in esame, inoltre, non coglie neanche la
effettiva e decisiva ratio deciderteli della sentenza impugnata.

I giudici del merito hanno espressamente considerato
applicabile nella fattispecie sottoposta al loro giudizio il secondo comma
dell’art. 27 del d. Igs. n. 276
del 2003 – in dichiarata conformità alla giurisprudenza di legittimità che
ha applicato la norma anche ai licenziamenti (Cass.
n. 17969 del 2016; conf. Cass. n. 6668 del 2019) – e, conseguentemente, non
hanno in concreto ritenuto l’illegittimità del licenziamento per difetto di
forma ovvero per mancanza di motivazione (avendo esplicitamente voluto – come
ricordato nello storico della lite – “prescindere dalla vaghezza della
motivazione”), quanto piuttosto perché la causale espressa dalla
comunicazione della I. non poteva che fare riferimento all’organizzazione
produttiva dell’impresa presso cui il B. risultava formalmente inquadrato,
mentre tale causale non poteva ritenersi sussistente rispetto ad altra
organizzazione di impresa, quella della H., che peraltro si era sempre
dichiarata estranea alla titolarità del rapporto di lavoro, per cui non poteva
giustificarsi una soppressione del posto di lavoro in correlazione causale con
le ragioni addotte evidentemente con riferimento ad altra “realtà
organizzativa”, anche avuto riguardo all’impossibilità di ricollocazione
del dipendente. La sentenza impugnata, in proposito, dichiara
“impraticabile ogni analisi sul fondamento dell’enunciata causale del
recesso”.

Si tratta di ratio decisoria plausibile, che investe
apprezzamenti di circostanze di fatto, come tali non suscettibili di sindacato
in questa sede di legittimità.

3. Con il terzo motivo si denuncia “violazione
e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1371 2094 c.c., 112, 115 c.p.c. e 27 d. Igs. n. 276 del 2003, 6 della legge n. 604 del 1966
e 18 della legge n. 300 del 1970”,
per avere la sentenza impugnata escluso che la lettera della H. dell’11 luglio
2016 potesse “integrare valida ratifica ex art.
1399 c.c.”.

Anche tale motivo, oltre i profili di
inammissibilità legati da una tecnica di formulazione già censurata in
precedenza per la seriale ed indistinta elencazione di norme asseritamente
violate, non coglie la decisiva ratio della decisione impugnata: infatti la
Corte territoriale, pur avendo escluso la ratifica, ha comunque imputato direttamente
l’atto di licenziamento alla H. ai sensi dell’art. 27 comma 2 d. Igs. n. 276 del
2003, per cui la questione della ratifica risulta sostanzialmente priva di
decisività perché non occorre ratificare un atto che si ritiene già imputabile
al soggetto che dovrebbe essere invece chiamato a ratificare un atto compiuto
da altri e non a lui direttamente riferibile.

4. Con l’ultimo motivo si denuncia “violazione
e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 18 quarto e settimo comma della
legge n. 300 del 1970”; “omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione”, per non avere la Corte
territoriale detratto dall’ammontare delle 12 mensilità riconosciute l’aliunde
perceptum che il B. avrebbe incassato dalla prestazione di attività lavorativa
in favore di terzi.

La censura non merita accoglimento perché non indica
adeguatamente come l’eccezione di aliunde perceptum sia stata sottoposta al
giudizio nei gradi di merito, atteso che le deduzioni riportate nel ricorso per
cassazione sono generiche (neanche viene riportato nel corpo del motivo il
contenuto del documento che dovrebbe supportarle), mentre ai fini della
sottrazione dell’aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore, è
necessario che risulti la prova, il cui onere grava sul datore di lavoro, non
solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una
nuova occupazione, ma anche di quanto percepito, essendo questo il fatto che
riduce l’entità del danno presunto (Cass. n. 21919 del 2010; conf. Cass. n. 5676 del 2012).

5. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese
liquidate secondo soccombenza come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei
presupposti di cui all’art. 13, co.
1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2019, n. 26031
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