Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 novembre 2019, n. 28927

Licenziamento disciplinare, Impugnazione, Alterazione dati
pratiche, Irregolarità amministrative addebitate, Onere di generale ordinaria
diligenza

 

Svolgimento del fatto

 

1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n.
1547 del 2018, accoglieva il reclamo proposto dall’INPS nei confronti di M.P.
avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Viterbo rigettava
l’opposizione, proposta dal medesimo Istituto ex lege
n. 92 del 2012, avverso l’ordinanza che aveva accolto l’impugnazione del
licenziamento disciplinare proposta dal P..

Il giudice di secondo grado, pertanto, dichiarava
legittimo il licenziamento disciplinare senza preavviso disposto nei confronti
del lavoratore con determinazione n. 16/2016 del 22 febbraio 2016.

2. Il P., nella qualità di addetto con qualifica
contrattuale B2, in concorso con altri, avrebbe alterato i dati di alcune
pratiche di ricongiunzione di periodi assicurativi o riscatti di periodi di
laurea.

Il Tribunale aveva ritenuto non sufficientemente
provati i fatti addebitati al P. e l’irrilevanza dell’esistenza di danno
effettivo per l’Istituto, atteso il numero esiguo delle pratiche contestate.

3. La Corte d’Appello, quanto alle pratiche in
ordine alle quali il Tribunale non aveva ravvisato l’irregolarità nella
indicazione della data di trattazione da parte del lavoratore, ha affermato che
l’errore in cui era incorso il giudice di primo grado consisteva nel non aver
considerato che l’operato del P. era stato posto in essere in violazione degli
artt. 7 e 9 della legge n. 247 (recte: 274) del 1991, che stabiliscono le
modalità di individuazione della data della domanda, che deve coincidere con la
data di spedizione della lettera raccomandata, quando essa sia stata presentata
con lettera raccomandata, o con la data di protocollazione se presentata a
mano, anche in ragione della circolare dell’Istituto n. 40 del 1995.

Qualora il lavoratore si fosse trovato a lavorare
pratiche arretrate avrebbe dovuto trattarle in ragione dei dati in suo possesso
a quella data, e non, invece, facendo riferimento un momento arbitrariamente
individuato e antecedente, anche in ragione dell’ordinaria diligenza.

Vi erano poi pratiche per le quali il P. aveva
svolto una duplice lavorazione, con effetto di una retrodatazione della domanda
e conseguente vantaggio per il soggetto che aveva beneficiato di un calcolo di
oneri minori, in quanto svolto sulla retribuzione goduta all’epoca di
presentazione della domanda, che tuttavia non aveva una data certa e che era
antecedente alla data di acquisizione della domanda da parte del sistema
informatico.

La modalità di lavorazione contestata al lavoratore
aveva determinato il danno quantificabile nel ribasso irregolare degli oneri
dovuti.

Erroneamente, il Tribunale aveva ritenuto che non
esistevano regole positive a regolamentare la lavorazione delle pratiche.

Infine, ulteriori pratiche presentavano irregolarità
nell’individuazione della retribuzione da utilizzare come base di calcolo,
incontestata la data della domanda.

Anche per queste ultime il quadro complessivo delle
violazioni denotava la responsabilità del lavoratore per i fatti addebitatigli,
contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale.

Inoltre, era emerso un accordo tra il lavoratore e
altri dipendenti impiegati nel medesimo settore e oggetto di procedimento
disciplinare.

Doveva escludersi l’esiguità e la non rilevanza del
danno economico conseguente alle pratiche irregolari, sia perché persisteva la
gravità dei fatti e l’idoneità a ledere il rapporto fiduciario, sia per
l’entità del danno stesso, di poco minore della somma di euro 400.000,00.

La Corte d’Appello escludeva la violazione del
principio di proporzionalità della sanzione, non assumendo peraltro rilievo le
sanzioni conservative inflitte agli altri soggetti anch’essi coinvolti
nell’accordo.

Non vi era violazione del principio del ne bis in
idem, in quanto i fatti per cui è causa erano coevi a quelli oggetto di un
precedente procedimento disciplinare, ma distinti, e la contestazione era stata
tempestiva tenuto conto dei tempi di accertamento.

4. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre M.P. prospettando sei motivi di ricorso.

5. Resiste l’INPS con controricorso.

6. In prossimità dell’udienza pubblica il lavoratore
ha depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio
di falsa applicazione dell’art.
7, comma 6, e dell’art. 9,
comma 2, della legge n. 274 del 1991 (art. 360,
n. 3, cod. proc. civ.).

Dopo aver richiamato il contenuto precettivo delle
disposizioni invocate, il ricorrente contesta che in mancanza di data certa,
risultante da lettera raccomandata o da protocollo di arrivo, le pratiche
devono essere istruite dando alle stesse la data del giorno in cui l’operatore
le lavora.

Richiama in tal senso le argomentazioni del
Tribunale, e afferma che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte
d’Appello, dalle disposizioni della legge n. 274
del 1991 si desume solo che per le domande di ricongiunzione o di riscatto
che fossero state presentate con lettera raccomandata, la data di presentazione
era da considerare quella di spedizione (e non quella di arrivo all’Ente), ma
nulla veniva disposto per le domande presenti agli atti, ma prive di protocollo
in arrivo, e non pervenute con lettera raccomandata.

Pertanto, la Corte d’Appello aveva superato il dato
normativo obiettivo, non desumendosi dalle suddette disposizioni la disciplina
dell’ipotesi della giacenza di pratiche presso la sede INPS di Viterbo, prive
di protocollo in arrivo delle relative domande e sprovviste di ricevute di
raccomandata, risultando arbitrario il riferimento alla data in cui l’Istituto
le inseriva nel sistema.

2. Il motivo non è fondato.

Occorre premettere che come riportato dal ricorrente
(pag. 4 del ricorso) la contestazione riguardava irregolarità amministrative addebitate
al P. “in particolare per avere proceduto al calcolo degli oneri prendendo
a riferimento la data – sempre notevolmente antecedente a quella della
lavorazione – apposta manualmente sulla domanda senza protocollo o timbro di
ricevimento e quindi priva di data certa”.

Le disposizioni della cui falsa applicazione si
duole il ricorrente prevedono quanto segue.

L’art. 7 “Riscatti” della legge n. 274 del 1991, al comma 5 stabilisce: «Nel
caso di domanda presentata a mezzo lettera raccomandata, come data di
presentazione si considera quella di spedizione».

L’art. 9 “Ricongiunzione”, al comma 2,
prevede: «Per le domande di ricongiunzione, ai sensi della legge 7 febbraio 1979, n. 29, presentate alle
Casse pensioni degli istituti di previdenza a mezzo lettera raccomandata, come
data di presentazione si considera quella della spedizione».

La Corte d’Appello, in ragione del chiaro dettato
normativo delle suddette disposizioni – che tende ad ancorare la data di
presentazione all’INPS della domanda di riscatto o di ricongiungimento ad un
evento certo, quale la data di spedizione, al fine di cristallizzare
temporalmente i dati rilevanti per l’espletamento della stessa nel rispetto dei
principi di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa – ha
affermato che in caso di presentazione di una domanda con modalità diverse da
quella della spedizione con raccomandata o presentazione a mano, la pratica
doveva essere lavorata secondo i dati in possesso alla data della lavorazione
stessa, e non ad un momento arbitrariamente individuato e antecedente.

Resta fermo che il lavoratore poteva confrontarsi
con gli altri colleghi, e chiedere, formalmente agli interessati di produrre
elementi che potessero giustificare ufficialmente la presentazione della
pratica in un momento diverso, così tenendo un comportamento trasparente, senza
generare incertezze in ordine al modus operandi per le irregolarità che erano
poi state riscontrate.

Ciò tenuto conto che il lavoratore era tenuto al
rispetto anche della generale ordinaria diligenza, che nella specie, afferma il
giudice di secondo grado, non si ravvisava attesa la valutazione complessiva
dei fatti tutti univocamente indirizzati a un agire contrario al dato normativo.

Pertanto, non è ravvisabile il vizio dedotto, atteso
che la Corte d’Appello, in ragione della ratio degli artt. 7 e 9 della legge n. 274 del
1991 e dei principi di trasparenza, imparzialità e buon andamento che
governano l’attività amministrativa (art. 97 Cost.),
ha ritenuto che, in mancanza di dati certi, occorresse fare riferimento alla
data di lavorazione della domanda, e che sussisteva in capo al lavoratore un onere
di generale ordinaria diligenza, che poteva essere assolte sia con il confronto
con i colleghi, sia mediante adempimenti istruttori integrativi, anche
rivolgendosi agli interessati, al fine di colmare la mancanza di timbro di
spedizione o di timbro di ricevimento.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale della
proporzionalità tra fatto e sanzione. Violazione dell’art. 2106 cod. civ. (richiamato dall’art. 55, comma 2, del d.lgs.
n. 165 del 2001).

Il ricorrente ricorda quanto statuito dal Tribunale,
sia con l’ordinanza che con la sentenza, di cui riporta ampi stralci, che aveva
ritenuto la sanzione disciplinare del licenziamento non proporzionale agli
errori addebitati al lavoratore per un limitato numero ci casi rispetto al
complesso delle pratiche dallo stesso trattate.

Quindi censura la statuizione della Corte d’Appello
che ha ritenuto proporzionale la sanzione in base all’erroneo assunto che nella
fattispecie esistesse una normativa di legge che regolava la trattazione di
pratiche prive di protocollo in arrivo e non spedite con raccomandata con
ricevuta di ritorno, facendo derivare dalla violazione di tali norme di legge
l’assenza di diligenza del lavoratore, l’assenza di buona fede, e presupponendo
un accordo tra il P. e i suoi superiori diretto a violare tali disposizioni.

Poiché tale normativa di legge non sussisterebbe, e
la fictio iuris di dare alle pratiche prive di protocollo in arrivo una data
coincidente con quella in cui sono trattate non avrebbe fondamento giuridico,
la valutazione della proporzionalità della sanzione sarebbe illegittima.

2.1. Il motivo non è fondato.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini
della valutazione di proporzionalità è sempre necessario valutare in concreto
se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la
fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto
si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare
attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad
attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona
fede e correttezza (cfr., Cass., n. 18195 del 2019).

Come si è affermato nella trattazione del primo
motivo di ricorso, correttamente la Corte d’Appello ha ritenuto che, in
mancanza di dati certi, occorresse fare riferimento alla data di lavorazione
della domanda, e che sussisteva in capo al lavoratore un onere di generale
ordinaria diligenza.

Ciò non in ragione di una norma inesistente come
afferma il ricorrente, ma tenuto conto della disciplina di cu agli artt. 7 e 9 della legge n. 274 del
1991, che pone in evidenzia la necessità di un criterio certo per fissare
la data delle domande, in conformità ai principi di trasparenza, imparzialità e
buon andamento dell’amministrazione di cui all’art.
97 Cost., che la Corte d’Appello, in mancanza di quanto previsto dalla
suddetta legge, salvo gli esiti di un’attività istruttoria, ha ravvisato nella
data di lavorazione della pratica.

Inoltre, nello svolgere il giudizio sulla
proporzionalità della sanzione irrogata, la Corte d’Appello, nel fare corretta
applicazione della giurisprudenza sopra richiamata, ha considerato sia
l’esistenza di un accordo tra le parti consapevole e volontariamente diretto a
porre in essere le violazioni in questione, di per sé dannose sia dal punto di
vista economico che etico e di fiducia, sia l’assenza di buona fede, anche
considerata la pluriennale esperienza professionale e la non giovane età del P.
che non consentivano di considerarlo alla stregua di un inesperto impiegato.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la
violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale del ne bis
in idem sanzionatorio (art. 360, n. 3, cod. proc.
civ.).

Assume il ricorrente che le contestazioni mosse a sé
medesimo nel 2013 (caso relativo all’iscritto G.P., per cui, con determinazione
n. 30 del 18 settembre 2013, gli era stata comminata la sanzione disciplinare
della sospensione dal servizio e dallo stipendio per 6 mesi) e nel 2016 (recte:
2015; altri casi per fatti coevi a quello del 2013) si riferissero a pratiche
trattate nello stesso periodo e affette da analoghe (presunte) irregolarità,
sicché oggettivamente sussisteva la violazione del divieto del ne bis in idem
da parte dell’INPS, attuata mediante la determinazione di licenziamento
dell’UPD n. 16/16 del 22 febbraio 2016.

3.1. Il motivo non è fondato.

Come questa Corte ha già affermato (Cass. 26815 del
2018) in tema di licenziamento, qualora il datore di lavoro abbia esercitato
validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in
relazione a determinati fatti, complessivamente considerati, non può
esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti singolarmente considerati,
il detto potere ormai consumato anche sotto il profilo di una sua diversa
valutazione o configurazione giuridica, essendogli consentito soltanto di tener
conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della
recidiva.

Tanto premesso, occorre precisare che la violazione
del principio del ne bis in idem richiede che la contestazione disciplinare e
la sanzione siano irrogate per lo stessa condotta.

Nella specie, invece, le condotte oggetto della
sanzione disciplinare conservativa e di quella espulsiva sono diverse
riguardando irregolarità analoghe ma effettuate nello svolgimento di distinte
pratiche sia pure coeve.

Ed infatti (Cass., n. 27657 del 2018) per il
principio di consunzione del potere disciplinare ed in linea con quanto affermato
dalla Corte EDU, nella sentenza 4.3.2014, Grande Stevens ed altri c. Italia,
(che ha sancito la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto
“punitivo”, del divieto di “ne bis in idem”), che una
identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione
o configurazione giuridica.

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la
violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale di diritto
desumibile dall’art. 7 della
legge n. 300 del 1970 della tempestività della contestazione (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).

Il ricorrente contesta la statuizione della Corte
d’Appello che ha considerato tempestiva la contestazione disciplinare
intervenuta il 19 novembre 2015 (si v. controricorso pag. 18) affermando che
l’INPS aveva avuto compiuta conoscenza dei fatti oggetto del procedimento
disciplinare conclusosi con l’irrogazione del licenziamento, dopo la conoscenza
dei diversi fatti – anche se della stessa natura e coevi – oggetto del primo
procedimento disciplinare del 2013 (contestazione 16 luglio 2013, v.
controricorso pag. 4).

Espone che le condotte ascrittegli erano coeve a
quelle del procedimento disciplinare del 2013 (fattispecie relativa
all’assistito P.) e che sempre nell’anno 2013 l’INPS aveva presentato una
denuncia alla Procura della Repubblica di Viterbo (fornendo gli elementi in
base ai quali venivano prelevati pratiche dalla sede dell’Istituto di Viterbo),
e designava i dott.ri C. e F. come esperti per analizzare le pratiche.

Dunque, la denuncia penale era incompatibile con il
differimento della contestazione in ragione della genericità delle notizie.

Ciò anche considerando che l’INPS disponeva dei dati
dei propri registri informatici che gli avrebbero permesso di conoscere con
immediatezza gli errori del lavoratore.

4.1. Il motivo è inammissibile.

La giurisprudenza di legittimità ha statuito (Cass.
16706 del 2018) che in tema di procedimento disciplinare, ai fini della decorrenza
del termine perentorio previsto per la contestazione dell’addebito dall’art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165
del 2001, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l’ufficio
competente abbia acquisito una “notizia di infrazione” di contenuto
tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al
procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva
solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in
possesso degli elementi necessari per procedere, sicché il suddetto termine non
può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta
la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere
preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito.

La Corte d’Appello ha ritenuto la tempestività della
contestazione in quanto la compiuta conoscenza dei “nuovi fatti” è
avvenuta da parte dell’INPS successivamente alla fattispecie già contestata,
seppure siano coevi tra loro, facendo corretta affermazione del principio sopra
richiamato.

Tale statuizione non è adeguatamente censurata,
atteso che l’affermazione contenuta nel ricorso, e nella memoria, che nel 2013
l’INPS aveva presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Viterbo per
irregolarità nella trattazione delle pratiche a seguito della quale venivano
prelevati diversi fascicoli dalla sede INPS di Viterbo, e l’INPS designava due
funzionari per esaminarli, è priva di specificità non venendo riportato il
contenuto della denuncia stessa, anche ai fini del vaglio di rilevanza della
censura, e non venendo circostanziato il prospettato rapporto tra la denuncia
del 2013, quando veniva fatta la contestazione disciplinare per la pratica P.,
e la compiuta conoscenza delle condotte poi oggetto della contestazione
disciplinare del 2015.

Ciò anche considerato che l’INPS (pag. 5 del
controricorso) espone che i fatti relativi alla pratica dell’assistito P.
venivano rapportati all’autorità giudiziaria con segnalazione dell’INPS del 25
giugno 2013, in seguito alla quale la Procura della Repubblica di Viterbo
instaurava procedimento penale a carico del P. e altri dipendenti dell’INPS, e
che le indagini penali avrebbero poi accertato ulteriori gravi fatti che
sarebbero stati oggetto del nuovo procedimento disciplinare promosso dall’INPS
a carico del P. nel novembre 2015.

Priva di specificità e non circostanziato, e
pertanto inammissibile, è, altresì, il profilo della censura che fa riferimento
ai sistemi informatici dell’INPS, quale strumento, nella specie, di tempestiva
conoscenza delle irregolarità.

5. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la
violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale della
immodificabilità e specificità della contestazione disciplinare.

Rileva il ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe
ritenuto la responsabilità del lavoratore in quanto avrebbe agito per favorire
soggetti che conosceva, e per l’accordo con altri colleghi di lavoro.

Tali circostanze non rientravano nella contestazione
che era stata quindi modificata dalla Corte d’Appello in ragione delle
intercettazioni che erano state prodotte in giudizio dall’Istituto.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Il principio di necessaria corrispondenza tra
addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare,
vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli
contestati.

La giurisprudenza di legittimità ha, altresì,
affermato (Cass. n. 10853 del 2019) che la necessaria correlazione
dell’addebito con la sanzione deve essere garantita e presidiata, in chiave di
tutela dell’esigenza difensiva del lavoratore, anche in sede giudiziale, nella
quale le condotte del lavoratore medesimo sulle quali è incentrato l’esame del
giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle poste
a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del
giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro.

Nella specie, tuttavia, il motivo di ricorso che si
duole della violazione di tali principi, non supera il vaglio di ammissibilità,
in quanto il ricorrente non riporta il contenuto della contestazione
disciplinare effettuata dall’INPS, specificando in modo circostanziato la
censura in relazione allo stesso, anche al fine di consentire il vaglio di
decisività, e non si confronta con l’affermazione della sentenza di appello
della sussistenza della responsabilità disciplinare del lavoratore in
relazione: alle contestazioni relative alla violazione delle modalità di
individuazione della data della domanda (cfr., pagg. 8 e 9 della sentenza di
appello); alla duplice lavorazione, con effetto di retrodatazione della domanda
e conseguente vantaggio per il soggetto interessato (cfr., pag. 10 e pag. 12
della sentenza di appello); all’irregolarità nell’individuazione della
retribuzione da utilizzare come base di calcolo, incontestata la data della
domanda (cfr., pag. 13 della sentenza di appello); alla quantificazione erronea
degli oneri (cfr., pagg. 13 e 14 della sentenza di appello).

Tali contestazioni, peraltro, risultano contenute
nella contestazione disciplinare, per come riportata dall’INPS nel
controricorso (pagg. 18 e 19), così come l’aver agito in concorso con altri
dipendenti.

Quanto ai rapporti con alcuni interessati (pag. 15
della sentenza) la Corte d’Appello ne prende in esame uno, quale dato per
evidenziare come il negare una conoscenza più approfondita rispetto a quella
palesata appariva funzionale a coprire le irregolarità e violazioni che erano state
oggetto di contestazione disciplinare.

6. Con il sesto motivo di ricorso è dedotto il vizio
di omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di
discussione tra le parti (art. 360, n.5, cod. proc.
civ.).

Il motivo si articola in due censure.

La Corte d’Appello avrebbe omesso di esaminare il
fatto decisivo costituito dalla contestazione della ritenuta irregolarità delle
pratiche S., R., S., F., B., G., F., effettuata dal P. con la memoria di appello.

Un altro fatto decisivo di cui si denunciava
l’omesso esame sarebbe la mancanza di danno, con conseguente insussistenza del
fatto contestato disciplinarmente per mancanza di grave nocumento.

Tale danno, infatti, era stato determinato
erroneamente, applicando il principio che per le pratiche prive di data certa
dovesse farsi riferimento alla data di lavorazione, principio che non trovava
fondamento normativo.

7. Il motivo è inammissibile.

7.1. Quanto alla prima censura si osserva che la
Corte d’Appello dopo aver evidenziato che il Tribunale di Viterbo aveva già
accertato e riconosciuto l’irregolarità della lavorazione di diverse pratiche
relative alle posizioni S., R., S., F., B., G., F., statuiva che la parte
reclamata non aveva svolto specifiche deduzioni contrarie e pertanto i relativi
fatti devono darsi per acquisiti.

Il ricorrente si duole dell’omesso esame delle
deduzioni difensive svolte in appello rispetto alla suddetta pronuncia del
Tribunale.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare
(Cass., n. 26305 del 2018) l’art. 360, comma 1, n.
5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012,
conv., con modif., dalla legge n. 134 del 2012,
introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione,
relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui
paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di
deduzioni difensive, con conseguente inammissibilità della censura in esame.

7.2. Quanto al secondo profilo, va premesso che la
Corte d’Appello ha ritenuto che il danno ammontava a poco meno di 400.000,00, e
non era di scarsa rilevanza, ed ha affermato che, comunque, l’eventuale
esiguità del danno non sarebbe utile a escludere la gravità dei fatti e la loro
idoneità a ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.

La Corte d’Appello ha ritenuto consistente il danno
come sopra quantificato, tenuto conto della necessità che le casse
dell’Istituto, che deve provvedere alle esigenze previdenziali e assicurative
della maggior parte dei lavoratori pubblici, non entrino ingiustificatamente in
deficit.

Il ricorrente contesta che per la quantificazione
del danno, che a proprio avviso non sussisteva, sia stata fatta applicazione
del criterio di datazione della domanda, priva di data certa, alla data di
lavorazione, con argomenti che hanno costituito oggetto anche del primo motivo
di ricorso e che per le ragioni sopra esposte, sono state ritenuti non fondati.

Anche in questo caso si è in presenza di deduzioni
difensive, peraltro disattese nella trattazione del primo motivo di ricorso,
per le quali non è deducibile l’omesso esame ex art.
360, n. 5, cod. proc. civ.

Inoltre va considerato che qualora il ricorrente, in
sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove documentali
(relazione Guardia di finanza del 30 marzo 2015 e relativa documentazione
citata a pag. 30 del ricorso), per il principio di specificità ha l’onere,
nella specie non adempiuto, non solo di trascrivere il testo integrale, o la
parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di
consentire il vaglio di

decisività, ma anche di specificare gli argomenti,
deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state
formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola
produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il
giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti
stessi ai fini della decisione.

6. Il ricorso deve essere rigettato.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

8. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 – quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 5.500,00, per compensi
professionali, oltre euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15%
e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 novembre 2019, n. 28927
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