Giurisprudenza – TRIBUNALE DI VIBO VALENTIA – Ordinanza 13 marzo 2019

Impiego pubblico, Licenziamento disciplinare, Falsa
attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione
dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che
attesta falsamente uno stato di malattia, Applicazione “comunque”
della sanzione disciplinare del licenziamento., Decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), art. 55-quater, comma 1.

 

1. Il ricorrente agisce per l’accertamento
dell’illegittimità del recesso comminato dalla controparte datoriale, con
missiva avente prot. n. 990UD del 7 novembre 2018, retroagente alla data (della
sospensione cautelare, deliberata con provvedimento recante prot. n. 22136) del
9 ottobre precedente.

2. A tal fine, egli deduce:

I) d’aver prestato servizio, quale dipendente civile
del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, presso la Capitaneria di
porto di Vibo Valentia Marina, con qualifica XSB3;

II) d’aver ricevuto un addebito dì falsa
attestazione della propria presenza in ufficio, nei giorni del 7, 10, 12 e 14
settembre 2018;

III) d’aver subito, pertanto, la sospensione
dall’attività lavorativa e dalla percezione dello stipendio;

IV) d’esser stato convocato – il 29 ottobre 2018 – a
rendere le proprie giustificazioni, fatte pervenire (cinque giorni prima) al
competente Ufficio disciplina della Direzione generale del personale e degli
affari generali del Dicastero intimato;

V) d’esser stato richiesto – il 31 ottobre 2018 – di
un’integrazione documentale, adempiuta con e-mail del 5 novembre 2018, e
relativa alle modalità di autorizzazione all’espletamento di lavoro
straordinario, vigenti all’interno dell’ente di sua appartenenza;

VI) di non aver ottenuto lo scopo auspicato mediante
la propria partecipazione al contraddittorio disciplinare;

VII) d’esser stato definitivamente allontanato dal
servizio due giorni dopo.

2.1. Il ricorrente lamenta l’antigiuridicità della
determinazione espulsiva, poiché sproporzionata rispetto all’andamento dei
fatti.

3. Costituendosi in giudizio, l’Amministrazione
convenuta ha sostenuto la conformità alla legge della propria decisione,
argomentandone la rispondenza all’art. 55-quater, comma 1,
lettera a), decreto legislativo n. 165/2001, letto alla luce della
giurisprudenza formatasi successivamente alla sua entrata in vigore (avvenuta
mercè l’art. 69, decreto
legislativo n. 150/2009).

4. Alla prima udienza di discussione, il Tribunale
ha sollevato d’ufficio la presente questione – per contrasto fra l’art. 55-quater, comma 1, lettera a),
decreto legislativo n. 165/2001 e gli articoli
3, primo comma, 4, primo comma,
24, primo comma, 35,
primo comma, e 117, primo comma, Cost., di
cui si illustrano appresso le motivazioni.

5. In ordine alla rilevanza, non è dubitabile
l’ascrizione della fattispecie all’alveo applicativo del sopracitato art. 55-quater, comma 1, lettera a),
decreto legislativo n. 165/2001: la sanzione espulsiva controversa nel
giudizio origina dal comportamento del dipendente pubblico, il quale – per
quattro volte e a distanza ravvicinata di tempo – allontanandosi dalla sede di
servizio a conclusione dell’orario lavorativo ordinario, ha omesso di attestare
la circostanza attraverso l’apposito cartellino marcatempo, per poi rientrare
in ufficio e registrarsi definitivamente in uscita alcune ore dopo.

5.1. La vicenda va, pertanto, esaminata proprio in
relazione all’anzidetta disposizione: a mente della prima parte della lettera
a) in discorso, al cospetto di una «falsa attestazione della presenza in
servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o
con altre modalità fraudolente» va applicata «comunque la sanzione disciplinare
del licenziamento» (come stabilito dal primo periodo della disposizione).

5.2. Risulta sufficientemente documentato (dal
materiale fotografico allegato alla memoria di costituzione ministeriale) il
contegno di C. consistito nel tentativo di sottrarre al raggio visivo del
personale in forze alla Capitaneria i movimenti posti in essere, mediante il
concomitante posizionamento della propria autovettura all’esterno del sedime
portuale, diversamente da quanto normalmente compiuto: la reiterazione della condotta
addebitata all’attore – nonché, in particolare, la prossimità cronologica fra i
diversi episodi rilevati dall’Autorità datoriale – autorizzano a escludere
l’involontarietà e la casualità del comportamento del prestatore, piuttosto
deponendo nel senso indicato dalla disposizione sopraddetta, avuto riguardo al
riferimento – ivi contenuto – alle «altre modalità fraudolente» d’integrazione
dell’illecito.

6. Ciò chiarito, è d’uopo procedere alla
ricognizione della non manifesta infondatezza.

6.1. La disposizione esaminata è inequivoca
nell’introdurre un automatismo sanzionatorio: accertato il contegno del
lavoratore, il medesimo viene estromesso per legge dalla compagine lavorativa,
a conclusione del relativo procedimento disciplinare.

6.2. Il tenore letterale della proposizione – e, più
segnatamente, l’impiego dell’avverbio «comunque» – preclude interpretazioni
adeguatrici, e conduce alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro, quale
epilogo normativamente necessitato in tutti i casi in cui il precetto in
questione trovi applicazione.

6.2.1. Premessa la puntualizzazione secondo la quale
– come sostenuto dal giudice ad quem con sentenza n. 51/2015 – «per aversi una
questione di legittimità validamente posta, è sufficiente che il giudice a quo
fornisca un’interpretazione non implausibile della disposizione contestata», la
stessa Corte (con sentenza n. 262/2015) ha statuito come «ai fini
dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che il giudice a quo esplori
la possibilità di un’interpretazione conforme alla Carta fondamentale e, come
avviene nel caso di specie, la escluda consapevolmente».

6.2.2. La giurisprudenza di legittimità, invero, si
è interrogata circa le ricadute della norma qui esaminata sull’esperibilità di
un sindacato (disciplinare e) giurisdizionale effettivo e non soltanto
apparente, concludendo per la conformità a Costituzione dell’art. 55-quater, decreto legislativo n.
165/2001, sostenendo (con sentenza n. 9314/2018) come «L’art. 55-quater, testo
unico del 2001, lungi dall’aver reintrodotto un’ipotesi di destituzione di
diritto in contrasto con le norme costituzionali richiamate dal ricorrente, ha
individuato alcune ipotesi, della cui particolare gravità la legge si è
riservata ex ante la valutazione, ai fini dell’attribuzione in capo alle
pubbliche amministrazioni del potere di recesso nella sua forma più
“forte”».

6.2.3. Più diffusamente, la Corte di cassazione (con
sentenza n. 24574/2016, e mediante ampio
richiamo ai propri orientamenti pregressi) ha precisato come «d(ebba)
escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo
nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano
nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla
proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (Cass. 17259/2016, 17335/2016,
11639/2016, 10842/2016, 1315/2016, 24796/2010, 26329/2008; Corte Costituzionale
971/1988, 239/1996, 286/1999). (…). La
proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è,
infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali,
amministrative) e risulta trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106
del codice civile, con conseguente possibilità per il giudice di annullamento
della sanzione «eccessiva», proprio per il divieto di automatismi sanzionatori,
non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto,
sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari».
(…). I principi sopra richiamati sono stati affermati anche con riguardo all’art. 55-quater (Cass. 17259/2016,
1351/2016), sul rilievo che l’art. 2106 del codice civile risulta oggetto di
espresso richiamo da parte dell’art. 55, comma 2 e sul
rilievo che alla giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento il comma
1 dell’art. 55-quater. (…) Va,
inoltre, considerato che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale
di questa Corte, al quale va data continuità, l’operazione valutativa, compiuta
dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 del codice civile, e da effettuarsi con
riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del
singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado dì affidamento richiesto
dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato,
alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro
verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello
colposo (Cass. 1977/2016, 1351/2016, 12059/2015 25608/2014),
non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass. 17259/2016, 17335/2016,
11630/2016, 1351/2016,
12069/2015, 6501/13, 18247/2009), poiché l’operatività in concreto di
norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili
dall’ordinamento.

6.2.4. L’interpretazione avallata dalla Suprema
Corte, tuttavia, non persuade.

6.2.4.1. Rammentato come – coerentemente alle
indicazioni rivenienti da Corte costituzionale, sentena n. 221 del 2015 – al
giudice a quo sia richiesto un «accurato ed esaustivo esame delle alternative
poste a disposizione dal dibattito giurisprudenziale, se del caso per
discostarsene motivatamente. Solo se avviene ciò infatti si può dire che
l’interpretazione adeguatrice è stata davvero “consapevolmente
esclusa” dal rimettente», nella specie la formulazione letterale della
disposizione non sembra offrire margini di discostamento dall’approdo
ermeneutico propugnato con la presente ordinanza.

6.2.4.1.1. In particolare, l’inciso (appunto veicolato
dall’art. 55-quater, comma 1,
decreto legislativo n. 165/2001) secondo il quale «si applica comunque la
sanzione disciplinare del licenziamento» è perentorio nel derivare
dall’illecito – dettagliato nel prosieguo dell’articolo – la misura espulsiva,
degradando il vaglio dell’organo disciplinare prima – e dell’autorità
giudiziaria poi – a una constatazione estrinseca e formale, evocativa dello
schema «norma-fatto-effetto».

6.2.4.1.2. L’utilizzo del modo verbale indicativo e
del tempo presente – in funzione deontica – unitamente all’impiego
dell’avverbio «comunque» inibiscono letture alternative della disposizione, e
impongono l’incardinamento della presente questione di legittimità.

6.3. Ciò detto, la corrispondenza tra la falsa
attestazione della propria presenza in servizio e il pedissequo recesso della
pubblica amministrazione confligge innanzitutto con l’art. 3 Cost., poiché irragionevole.

6.3.1. Come argomentato dalla Corte costituzionale,
sentenza n. 197/2018, «in materia di sanzioni disciplinari, sono invero
numerose le sentenze di questa Corte che hanno ritenuto illegittime, per
contrasto con l’art. 3 Cost, disposizioni che
comportavano l’automatica destituzione del pubblico dipendente in conseguenza
della sua condanna in sede penale per determinati reati (così, ex multis,
sentenze n. 268 del 2016, n. 363 del 1996, n. 197 del 1993 e n. 16 del 1991).
Tali pronunce riposano essenzialmente sul presupposto secondo cui il principio
di eguaglianza-ragionevolezza esige, in via generale, che sia conservata
all’organo disciplinare una valutazione discrezionale sulla proporzionale
graduazione della sanzione disciplinare nel caso concreto (così, in
particolare, la citata sentenza n. 268 del 2016)».

6.3.2. Nella specie, la controparte del prestatore è
tenuta a recedere dal rapporto nel momento in cui si avveda di anomalie nella
formalizzazione degli ingressi e delle uscite del dipendente dalla sede
lavorativa: nessuna progressione sanzionatoria è consentita, e anche
nell’ipotesi in cui – come nel caso in esame – l’incolpato ammetta la storicità
della condotta (salvo negarne la rilevanza disciplinare sotto il profilo
psicologico), l’ente-datore non ha accesso ad alcuno strumentario disciplinare,
potendo (e dovendo) solamente addivenire al licenziamento dell’impiegato.

6.3.3. A ciò si aggiunga, inoltre, come la
tipizzazione dell’ineluttabilità della sanzione espulsiva risulti prevista
nelle sole ipotesi d’infedele autodichiarazione della propria presenza a
lavoro.

6.3.3.1. L’art.
55-quater, appunto rubricato «Licenziamento disciplinare», contempla la
misura in discorso in un’articolata serie di fattispecie, ma ciascuna di esse –
con la sola eccezione di quella qui rilevante – assegna al datore di lavoro (e
correlativamente al giudice, se investito della vertenza) il potere-dovere di
saggiare la consistenza dell’illecito.

6.3.3.2. Le ipotesi disciplinate dall’articolo in
questione, a ben vedere, si caratterizzano per la previsione di clausole
generali in virtù delle quali è richiesto alla parte pubblica di verificare la
giustificabilità della condotta del dipendente, la sua protrazione o serialità,
il grado del suo discostamento dai principi di correttezza e laboriosità.

6.3.3.3. Non lo stesso è a dirsi, di contro,
nell’ambito di cui alla lettera a) dell’art. 55-quater, connotato dalla
previsione di un meccanismo pressochè deterministico di causa ed effetto, la
cui operatività è prefissata dal legislatore, e si rivela impermeabile alle
cadenze concrete della vicenda considerata: l’assoggettamento alla medesima
sanzione di condotte rispetto alle quali così eterogenea appare l’ampiezza del
controllo esercitabile dal datore e dal giudice si risolve, dunque, in un
profilo d’irragionevolezza.

6.4. In merito, poi, alla violazione degli articoli 4 e 35, primo
comma, Cost., sempre la Corte costituzionale – con sentenza n. 194/2018 –
ha riconosciuto come il diritto al lavoro, «fondamentale diritto di libertà
della persona umana», pur non garantendo diritto alla conservazione del
lavoro», tuttavia «esige che il legislatore (…) adegui (…) la disciplina
dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a
tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie (…) e di
opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a
licenziamenti» (sentenza n. 45 del 1965, punti 3. e 4. del Considerato in
diritto). Questa esortazione, come è noto, fu accolta con l’approvazione della legge n. 604 del 1966, che sancì, all’art. 1, il principio della
necessaria giustificazione del licenziamento, da considerarsi illegittimo se
non sorretto da una «giusta causa» o da un «giustificato motivo». Si è in
seguito affermato il «diritto (garantito dall’art.
4 Cost. a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o
irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9. del Considerato in
diritto) e si è poi ribadita la «garanzia costituzionale (del) diritto di non
subire un licenziamento arbitrario» (sentenza n. 541 del 2000, punto 2. del
Considerato in diritto e ordinanza n. 56 del 2006). L’«indirizzo di progressiva
garanzia del diritto al lavoro previsto dagli articoli
4 e 35 Cost., che ha portato, nel tempo, a
introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro» (sentenza n.
46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto), si riscontra in una
successiva pronuncia, in cui si afferma che «la materia dei licenziamenti
individuali è oggi regolata, in presenza degli articoli
4 e 35 della Costituzione, in base al
principio della necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del
2003, punto 2.1. del Considerato in diritto)».

6.4.1. Non è secondario rilevare come la tutela del
lavoro – «in tutte le sue forme applicazioni» – assolva a una missione
trascendente l’equilibrato svolgimento del rapporto, e si ponga quale canale
privilegiato di salvaguardia dell’individuo e della sua dignità:
nell’ordinamento costituzionale il lavoro esplica, infatti, una funzione
promozionale dei valori della persona umana, contribuendo alla sua
emancipazione e al suo sviluppo.

6.4.1.1. Consentire il licenziamento del lavoratore
– qualora irrogato prescindendo dall’accertamento (soprattutto giudiziale)
delle molteplici sfaccettature coessenziali alla singola vicenda – mal si
concilia con l’affidamento alla Repubblica – ex art.
4, primo comma, Cost. – del compito di «promuovere le condizioni che
rendano effettivo (il) diritto (al lavoro)», poiché equivale a tollerare
l’inflizione al prestatore della massima sanzione datoriale – causativa
dell’interruzione del rapporto – pur in assenza di ragioni impositive di una
tale misura.

6.5. Nella pronuncia poc’anzi richiamata, peraltro,
la Corte afferma – pur nella parziale diversità di contesto – come «non
poss(a)no che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente
discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia».

6.6. La norma, tuttavia, osta alla ponderazione – in
concreto – della portata offensiva della condotta oggetto d’incolpazione, e
sottrae alla sede giudiziale la verifica della proporzionalità fra illecito
riscontrato e licenziamento adottato.

6.7. La perentorietà del disposto di cui all’art. 55-quater impedisce,
nondimeno, la valorizzazione delle coordinate fattuali in cui s’inscrive la
vicenda giudicata: ne riesce frustrato l’esercizio della funzione
giurisdizionale, e compromesso il rapporto fra la condotta da reprimere e il
provvedimento disciplinare all’uopo predisposto.

6.8. Al giudice, infatti, viene preclusa a monte la
constatazione della congruità della misura espulsiva, laddove quest’ultima
implicherebbe – al contrario – un doveroso vaglio circa (la sussistenza, e)
l’intensità del coefficiente psicologico, la gravità del comportamento
sanzionato, l’andamento pregresso del rapporto e gli eventuali precedenti
(specifici e non), il pregiudizio derivatone per gli interessi del datore di
lavoro, la compatibilità della condotta con l’eventuale prosecuzione del
rapporto (ovvero l’effettiva attitudine di essa alla definitiva compromissione
dell’elemento fiduciario intercorrente fra le parti), e la preferibilità di
strumenti sanzionatori conservativi.

6.9. Orbene, la scelta legislativa di provocare la
sistematica espunzione del dipendente dal contesto lavorativo, alla semplice
presa d’atto di sue azioni od omissioni realizzative di un illecito
disciplinare, sottrae all’autorità giusdicente ogni margine di apprezzamento
del fatto nella sua globalità, e nega un vaglio imparziale ed effettivo circa
le ricadute della condotta biasimata sulla dinamica del rapporto di lavoro.

7. La continuità del rapporto medesimo è
aprioristicamente sacrificata, e le finalità della repressione appaiono
ingiustificatamente privilegiate: ricorrendo al giudice, il lavoratore non è in
grado di articolare efficacemente motivi di doglianza (concernenti la
legittimità del licenziamento) alternativi a quello della radicale
insussistenza del fatto materiale, poiché il loro contenuto – quand’anche
ipoteticamente condivisibile dalla giurisdizione adita – non potrebbe tradursi,
a diritto positivo invariato, in una rimozione della sanzione espulsiva,
siccome prestabilita dalla legge.

7.1. Tale conseguenza, allora, infirma la
legittimità della norma censurata anche alla luce dell’art. 24 Cost., risolvendosi nella compressione
della possibilità di agire in giudizio per la tutela delle proprie situazioni
soggettive: il diritto di difesa, infatti, postula non solamente la possibilità
di rivolgersi all’autorità giurisdizionale, ma anche la completezza della
tutela ricevibile da quest’ultima, tuttavia ampiamente depotenziata dalla
predetta opzione normativa, poiché indirizzata al sistematico licenziamento del
pubblico dipendente.

8. La sterilizzazione del sindacato giudiziale –
derivante dall’architettura della norma in questione – è motivo di ulteriore
contrasto dell’art. 55-quater, comma
1, lettera a), decreto legislativo n. 165/2001 con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 24 della Carta sociale europea.

8.1. Giusta Corte costituzionale, sentenza n.
120/2018, la «Carta sociale europea, oggetto di revisione nel 1996, che
riunisce in un solo trattato i diritti riconosciuti dalla versione originaria
del 1961 e quelli che sono stati aggiunti attraverso il Protocollo addizionale
del 5 maggio 1988, entrato in vigore il 4 settembre 1992 (…) Ai fini
dell’ammissibilità dell’evocazione di tale parametro interposto, va rilevato
che esso presenta spiccati elementi di specialità rispetto ai normali accordi
internazionali, elementi che la collegano alla CEDU. Se quest’ultima, infatti,
ha inteso costituire un «sistema di tutela uniforme» dei diritti fondamentali
civili e politici (sentenza n. 349 del 2007), la Carta ne costituisce il
naturale completamento sul piano sociale poiché, come si legge nel preambolo,
gli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno voluto estendere la tutela anche
ai diritti sociali, ricordando il carattere indivisibile di tutti i diritti
dell’uomo. (…). Per queste sue caratteristiche la Carta, dunque, deve
qualificarsi fonte internazionale, ai sensi dell’art.
117, primo comma, Cost. Essa è priva di effetto diretto e la sua
applicazione non può avvenire immediatamente ad opera del giudice comune ma
richiede l’intervento di questa Corte, cui va prospettata la questione di
legittimità costituzionale, per violazione del citato primo comma dell’art. 117 Cost., della norma nazionale ritenuta in
contrasto con la Carta».

8.2. Ai sensi dell’art. 24 della Carta sociale
europea, «Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in
caso di licenziamento, le parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei
lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro
attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento
dell’impresa, dello stabilimento o del servizio».

8.2.1. Orbene, la disposizione testè enunciata
richiama l’attenzione su due esigenze parimenti compromesse dalla norma ex art.
55-quater. l’effettività della tutela invocabile a fronte di un recesso
datoriale, e il divieto di licenziamento del lavoratore (qualora allontanato
per ragioni estranee alla funzionalità dell’impresa) in assenza dì una causale
ascrivibile alle sue attitudini ovvero al suo comportamento.

8.2.2. La disciplina della cui costituzionalità si
dubita, a ben vedere, snatura la tutela giudiziaria fruibile dal lavoratore,
negando di fatto al ricorrente la possibilità di dedurre la sussistenza – nella
vicenda considerata – di peculiarità del proprio comportamento da cui dovrebbe
attendersi l’applicazione di una sanzione conservativa.

8.2.3. Specularmente, all’autorità giudiziaria la
vicenda non risulta accessibile nella sua complessità, ma solamente nel
presupposto materiale d’irrogazione del provvedimento datoriale, condizione
necessaria ma sufficiente – nell’economia della norma medesima – a provocare
l’epilogo espulsivo.

8.2.4. In tal modo, però, non viene assicurato
alcuno scrutinio circa la validità del motivo di recesso, da intendersi come
appropriatezza delle ragioni poste a base della destituzione, e adeguatezza (e
inevitabilità) dell’allontanamento rispetto alla gravità dello specifico
comportamento attuato dal lavoratore, parametrato al vissuto lavorativo di
quest’ultimo.

9. Per le ragioni appena illustrate, dunque, va
sollecitato l’intervento del giudice delle leggi, affinché rimuova
l’automatismo denunziato, ripristinando la possibilità di individualizzazione
della risposta sanzionatoria, insieme all’integrale espandibilità del sindacato
giudiziale.

 

P.Q.M.

 

Visti gli articoli
23 e seguenti, legge n. 87/1953, dichiara rilevante e non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale, sollevata d’ufficio, dell’art. 55-quater, comma 1, decreto
legislativo n. 165/2001, in riferimento agli articoli
3, primo comma, 4, primo comma, 24, primo comma,
35, primo comma, e 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta
sociale europea, riveduta, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, e ratificata
con legge n. 30/1999, limitatamente alla parte in cui prevede che la sanzione
disciplinare del licenziamento, nell’ipotesi prevista dalla lettera a) del
predetto primo comma dell’art.
55-quater, si applichi «comunque»;

Per l’effetto, sospende il giudizio in corso;

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale;

Incarica la cancelleria di notificare copia della
presente ordinanza alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri,
nonché di comunicare la stessa ai Presidenti della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. del 13 novembre 2019, n. 46

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI VIBO VALENTIA – Ordinanza 13 marzo 2019
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