Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 dicembre 2019, n. 31621

Tributi, IRPEF, Reddito di lavoro autonomo professionale,
Determinazione, Costi deducibili, Immobile adibito ad uso promiscuo
(abitazione ed ufficio), Condizioni

 

Rilevato che

 

E.P. ricorre con due motivi contro l’Agenzia delle
Entrate per la cassazione della sentenza n.3474/35/14 della Commissione
Tributaria Regionale del Lazio, emessa il 14/5/2014, depositata il 23/5/2014 e
non notificata, che, in controversia relativa all’impugnativa dell’avviso di
accertamento, con cui l’Amministrazione Finanziaria, ai fini Irpef, aveva
rettificato il reddito per l’anno di imposta 2009 con la ripresa di costi
illegittimamente dedotti, non documentati e non inerenti, ha rigettato
l’appello del contribuente, confermando la sentenza della C.T.P. di Roma; il
contribuente aveva impugnato l’avviso di accertamento deducendo:

a) la carenza di motivazione in ordine al recupero
di costi non riconducibili al professionista per complessivi euro 1.426,00, che
non erano stati specificamente individuati;

b) la mancata prova della duplicazione delle
ritenute per contributi previdenziali per euro 15.572,00;

c) l’erronea interpretazione dell’art. 54 d.P.R. n. 917/86, con la
conseguente esclusione della possibilità di dedurre il 50% della rendita o del
canone di locazione dell’immobile adibito ad uso promiscuo (abitazione ed
ufficio) per il fatto che il contribuente disponesse di altro immobile, in
parte locato ed in parte adibito ad uso professionale esclusivo;

d) erronea ripresa a tassazione dei costi non
inerenti per spese di viaggio non riconducibili al professionista; con la
sentenza impugnata, la C.T.R. del Lazio (di seguito C.T.R.) riteneva che: sul
punto a) l’Ufficio avesse recuperato a tassazione i costi sulla base di
addebiti noti al contribuente, esaminando la documentazione prodotta dalla
parte in risposta all’invito notificatole ed escludendo la deduzione delle
spese comprovate da scontrini privi dei requisiti di legge; sul punto b)
l’Ufficio, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, si fosse
limitato a recuperare somme indebitamente duplicate dal contribuente alle righe
RE 19 e RP 23 (ritenute per contributi per il medesimo importo e riferite allo
stesso periodo di imposta), senza che il contribuente avesse dimostrato che le
poste, di identico importo e natura, fossero riferite a spese diverse; sul
punto c), la C.T.P. di Roma avesse correttamente interpretato l’art. 54 d.P.R. n.917/86, ritenendo
che la circostanza che il contribuente disponesse di un immobile, in parte
locato ad altri professionisti ed in parte adibito ad uso esclusivo della
professione, precludesse la possibilità di dedurre il 50% della rendita o del
canone di locazione dell’immobile adibito ad uso promiscuo (abitazione ed
ufficio); sul punto d), il contribuente non avesse dimostrato l’inerenza
all’attività professionale delle spese di viaggio; a seguito del ricorso,
l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso; il ricorso è stato fissato
per la camera di consiglio del 18 settembre 2019, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ., il primo come
modificato ed il secondo introdotto dal d.l.
31.08.2016, n.168, conv. in legge 25 ottobre
2016, n.197;

 

Considerato che

 

con il primo motivo, il ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione dell’art.42
d.P.R. n. 600/73, in relazione all’art.360,
comma 1, n.3, c.p.c.;

in particolare il ricorrente evidenzia che: quanto
al punto a), l’Ufficio avrebbe provveduto solo in sede contenziosa a
specificare nel dettaglio le spese contestate, con evidente vizio motivazionale
dell’avviso di accertamento; quanto al punto b), la C.T.R. , confermando quanto
già sostenuto dalla C.T.P. di Roma, avrebbe erroneamente ritenuto onere del
contribuente la dimostrazione della assenza di duplicazione delle spese per
contributi previdenziali; quanto al punto c), la C.T.R. avrebbe erroneamente
ritenuto che il contribuente avesse altro immobile adibito esclusivamente ad uso
professionale, poichè parte di tale immobile risultava locato ad altri
professionisti; quanto al punto d), la C.T.R. avrebbe erroneamente ritenuto che
il contribuente non avesse dimostrato l’inerenza all’attività professionale
delle spese di viaggio, ben potendosi avvalere quest’ultimo di collaboratori;

con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione dell’art.54,
comma 3, d.P.R. n.917/86, in relazione all’art.360,
comma 1, n.3, c.p.c.;

secondo il ricorrente, con la sentenza gravata, la
C.T.R., nel condividere quanto sostenuto dal giudice di prime cure, avrebbe
erroneamente ritenuto che la circostanza che il contribuente disponesse di un
immobile, in parte locato ad altri professionisti ed in parte adibito ad uso
esclusivo della professione, precludesse la possibilità di dedurre il 50% della
rendita o del canone di locazione dell’immobile adibito ad uso promiscuo
(abitazione ed ufficio);

i motivi, esaminati congiuntamente perchè connessi,
sono infondati;

ai sensi dell’art.42 d.P.R. n.600 del 29 settembre
1973, vigente ratione temporis, “l’avviso di accertamento deve recare
l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote
applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni,
delle ritenute di acconto e dei crediti d’imposta, e deve essere motivato in
relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno
determinato e in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni di cui ai
precedenti articoli che sono state applicate con distinto riferimento ai
singoli redditi delle varie categorie e con la specifica indicazione dei fatti
e delle circostanze che giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici
e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni”;

la necessità che l’avviso di accertamento sia
adeguatamente motivato è stata successivamente ribadita dall’art. 7 I. n.212 del 27 luglio 2000
(Statuto del Contribuente) ed è rivolta a garantire il diritto di difesa del
contribuente, delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella
successiva fase processuale contenziosa;

come è stato chiarito (cfr. Cass. sent.
n.30039/2018), dev’essere escluso ogni formalismo nell’indicazione, sia delle
norme di diritto violate, quando chiaramente evincibili, sia di tutti gli
elementi di prova, eventualmente integrabili in sede di giudizio, purché
nell’avviso siano stati indicati gli elementi di fatto e istruttori del
procedimento; in altri termini, dalla motivazione dell’avviso deve emergere una
fedele e chiara ricostruzione di tutti gli elementi costitutivi dell’obbligazione
tributaria, così da consentire una adeguata, efficace e piena difesa in
giudizio, non potendosi riscontrare alcun vizio di omessa motivazione ove tale
funzione sia stata assolta;

nel caso di specie, a parte l’inammissibilità del
profilo di doglianza che riguarda direttamente la denunzia del difetto di
motivazione, quale vizio dell’avviso di accertamento e non della sentenza
impugnata, non è riscontrabile alcuna violazione della norma citata da parte
del giudice di appello, il quale ha ritenuto che l’atto di accertamento fosse
correttamente e sufficientemente motivato, trattandosi di recupero di costi non
documentati e non inerenti;

invero, nel quadro dei generali principi che
governano l’onere della prova, vige il principio secondo cui “in tema di
accertamento delle imposte sui redditi, spetta all’amministrazione finanziaria
dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria
azionata, fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso
rivelatori dell’esistenza di un maggiore imponibile, mentre grava sul
contribuente l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno luogo ad
oneri e/o a costi deducibili, ed in ordine al requisito dell’inerenza degli
stessi all’attività professionale o d’impresa svolta. La corretta applicazione
del principio concernente la distribuzione dell’onere della prova dettato dall’art. 2697 cod. civ. impone quindi al giudice di
merito di accertare, in primo luogo, se la pretesa tributaria dedotta in giudizio
derivi dall’attribuzione al contribuente di maggiori entrate oppure dal
disconoscimento di costi o oneri deducibili esposti dallo stesso, perché solo
l’esatta individuazione della parte tenuta per legge a dare la prova afferente
consente al giudice di porre a carico di essa le conseguenze giuridiche
derivanti dall’accertata inosservanza di detto onere” (Sez. 5, Sentenza n.
11205 del 16/05/2007);

nel caso in esame, quindi, a fronte della
contestazione dell’Ufficio contenute nell’avviso di accertamento, era onere del
contribuente dimostrare l’inerenza dei costi portati in deduzione dalla base
imponibile; la C.T.R., con la sentenza impugnata, ha evidenziato che l’Ufficio
aveva recuperato a tassazione i costi sulla base di addebiti noti al
contribuente, esaminando la documentazione prodotta dalla parte in risposta
all’invito notificatole ed escludendo la deduzione delle spese comprovate da
scontrini privi dei requisiti di legge; inoltre, i giudici di appello, con
accertamento in fatto che non risulta impugnato in questa sede, hanno ritenuto
che l’accertamento fosse motivato adeguatamente anche in ordine alla
duplicazione delle spese sostenute per contributi, che emergerebbe dalla
dichiarazione e dall’ulteriore documentazione fornita all’Amministrazione dal contribuente,
il quale non avrebbe dimostrato che le poste indicate alle righe RE 19 e RP 23,
di identico importo e natura, fossero riferite a spese diverse; infine, per
quanto riguarda il recupero della deduzione del 50% della rendita dell’immobile
adibito ad uso promiscuo, l’art.54,
comma 3, secondo periodo, d.P.R. n. 917/86, vigente ratione temporis,
prevedeva :”Per gli immobili utilizzati promiscuamente, a condizione che
il contribuente non disponga nel medesimo comune di altro immobile adibito
esclusivamente all’esercizio dell’arte o professione, è deducibile una somma
pari al 50 per cento della rendita ovvero, in caso di immobili acquisiti
mediante locazione, anche finanziaria, un importo pari al 50 per cento del
relativo canone”; la sentenza impugnata risulta aver fatto corretta
applicazione della norma citata, escludendo che il contribuente potesse dedurre
il 50% della rendita o del canone di locazione dell’immobile adibito ad uso
promiscuo (abitazione ed ufficio), poichè lo stesso disponeva di altro
immobile, adibito esclusivamente all’uso professionale e non a quello
abitativo, a nulla rilevando che alcuni locali fossero locati ad altri
professionisti; la deducibilità, infatti, deve intendersi condizionata al fatto
che il contribuente non disponga nel medesimo comune di altro immobile adibito
esclusivamente all’esercizio della professione, circostanza esclusa nel caso di
specie;

l’avverbio “esclusivamente”, contenuto
nella norma in esame, deve leggersi in contrapposizione all’avverbio
“promiscuamente”, coerentemente con la ratio legis, che evidentemente
riconosce una deduzione pari al 50% della rendita catastale nei soli casi in
cui il professionista utilizza un bene immobile promiscuamente per l’esercizio
dell’attività dell’impresa e per il proprio uso personale o familiare,
subordinandola alla condizione che egli non disponga di un altro immobile nello
stesso comune, ove svolga esclusivamente l’attività professionale; pertanto il
ricorso va rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento, in favore
dell’Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità;

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità,
che liquida in euro 2.300,00, per compensi, oltre spese prenotate a debito;

sussistono i requisiti per porre a carico del
ricorrente il pagamento del doppio contributo, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, inserito dall’art.
1, comma 17, della I. n. 228 del 2012.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 dicembre 2019, n. 31621
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