Giurisprudenza – TRIBUNALE DI BARI – Ordinanza 18 aprile 2019

Lavoro e occupazione, Disciplina del contratto di lavoro a
tempo indeterminato a tutele crescenti, Tutela per ipotesi specificate di vizi
formali e procedurali del licenziamento, Meccanismo di determinazione
dell’indennità spettante al lavoratore., Decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di
lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), art. 4.

 

I fatti di causa.

La ricorrente ha impugnato il licenziamento per
giusta causa intimatole con nota del 23 ottobre 2017, ricevuta il 24 ottobre
2017, a seguito di procedimento disciplinare avviato con lettera di
contestazione dell’11 ottobre 2017.

In particolare, ha lamentato la
nullità/illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto materiale
contestato, deducendo la violazione del diritto di difesa e del procedimento ex
art. 7 St. Lav., nonché il
difetto di giusta causa e/o di giustificato motivo soggettivo.

Costituitasi in giudizio, la società convenuta ha
contestato integralmente la fondatezza delle avverse pretese, concludendo
pertanto per il rigetto del ricorso.

Nella comunicazione di recesso la parte datoriale ha
fatto riferimento a tre addebiti: in relazione a uno di essi (presunta condotta
reticente o mendace, per avere la lavoratrice taciuto la circostanza di essere
stata tratta in arresto) è stata accertata l’insussistenza materiale del fatto
contestato; in relazione ad altro addebito (assenza ingiustificata dal lavoro
per più di cinque giorni) è stata accertata la violazione dell’obbligo di
preventiva contestazione ex art.
7 St. lav.; il terzo e principale addebito (grave violazione degli obblighi
di diligenza, correttezza e buona fede per aver posto in essere, fuori dall’ambito
lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del
datore di lavoro) è stato invece ritenuto sussistente e sufficiente a
legittimare il licenziamento.

Tuttavia, l’intero iter disciplinare, dunque
relativo anche a tale ultimo addebito, è stato viziato dall’inosservanza, della
disposizione di cui all’art. 138, comma 3 del CCNL Turismo Confcommercio –
pubblici esercizi, pacificamente applicabile e applicato al rapporto in
questione, ai sensi del quale «La contestazione degli addebiti con la
specificazione del fatto costitutivo della infrazione sarà fatta mediante
comunicazione scritta nella quale sarà indicato il termine entro cui il
lavoratore potrà presentare gli argomenti a propria difesa. Tale termine non
potrà essere, in nessun caso, inferiore a cinque giorni».

Dai documenti ritualmente prodotti in giudizio
risulta infatti che nella nota di contestazione degli addebiti è stato del
tutto omesso l’avviso, diretto alla lavoratrice, concernente la facoltà di
rendere giustificazioni nel termine di cinque o più giorni, in violazione del
richiamato art. 138, comma 3 CCNL, che nel caso di specie ha integrato e reso
più stringente il precetto normativo di cui all’art. 7 St. lav.

Il licenziamento è stato dunque ritenuto illegittimo
in quanto affetto da un vizio procedurale o formale, con esclusione invece
della ricorrenza delle ipotesi di tutela reintegratoria ex art. 2 o ex art. 3, comma 2, decreto
legislativo n. 23/2015 (per nullità, o per insussistenza dei fatti
materiali posti a base del recesso) e con esclusione altresì della ricorrenza
dell’ipotesi di illegittimità sostanziale di cui all’art. 3, comma 1, decreto legislativo
n. 23/2015 (per difetto di giusta causa e/o di giustificato motivo
soggettivo).

Con sentenza non definitiva pronunciata in data 4
marzo 2019 (allegato n. 1 alla presente ordinanza) la causa è stata decisa
limitatamente all’accertamento dell’illegittimità procedurale del licenziamento
impugnato, con conseguente individuazione della tutela applicabile in favore
della lavoratrice in quella apprestata dall’art. 4, decreto legislativo n.
23/2015, ai sensi del quale «Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia
intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della legge n.
604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970,
il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e
condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a
contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a
dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del
lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle
tutele di cui agli articoli 2 e 3
del presente decreto»; il rapporto di lavoro è stato pertanto dichiarato
estinto a decorrere dal 24 ottobre 2017, data di ricezione della comunicazione
di licenziamento.

Non si è tuttavia proceduto alla quantificazione
dell’indennità spettante alla ricorrente ai sensi del menzionato art. 4, decreto legislativo n.
23/2015, ritenendosi che la disposizione non vada esente da censure di
incostituzionalità e che, d’altro canto, non vi siano margini per una sua
interpretazione conforme a Costituzione.

Con separata ordinanza pronunciata nella medesima
data del 4 marzo 2019 (allegato n. 2) è stata disposta la prosecuzione del
giudizio esclusivamente ai fini della determinazione dell’importo
dell’indennità ex art. 4, decreto
legislativo n. 23/2015 (nonché ai fini della regolamentazione delle spese
di lite), e in tale sede è stata prospettata la necessità di sollevare
d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della norma citata
limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio» in riferimento agli articoli
3, 4 comma 1 e 35
comma 1 Cost., nei termini che saranno di seguito esposti.

La causa è stata perciò rinviata all’udienza di
discussione dell’8 aprile 2019, con contestuale autorizzazione rivolta alle
parti a depositare brevi note in ordine alla questione di legittimità
costituzionale.

Parte ricorrente ha condiviso il dubbio di
costituzionalità prospettato dall’ufficio, richiamando la sentenza della
Consulta n. 194/2018 che ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 3, comma 1, decreto legislativo
n. 23/2015, e ritenendo che le motivazioni ivi espresse siano perfettamente
estensibili all’art. 4.

Parte convenuta ha dichiarato di rimettersi alla
decisione dell’ufficio in ordine alla questione di costituzionalità dell’art. 4 del decreto legislativo n.
23/2015.

La questione di legittimità costituzionale.

Come già accennato in sede di esposizione dei fatti
di causa, si ritiene necessario procedere alla rimessione degli atti alla Corte
costituzionale affinché sia scrutinata la legittimità costituzionale della
norma di cui all’art. 4, decreto
legislativo n. 23/2015.

Tale disposizione è sicuramente applicabile e
rilevante nel giudizio a quo, all’esito del quale. con sentenza non definitiva,
la domanda proposta dalla ricorrente è stata accolta solo parzialmente, sicché,
escluse la nullità o l’illegittimità sostanziale del licenziamento, ne è stata
invece accertata l’illegittimità procedurale e il rapporto di lavoro è stato
dichiarato estinto, proprio ai sensi dell’art. 4, decreto legislativo n.
23/3015.

Si riporta qui nuovamente il testo della norma:
«Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito
di motivazione di cui all’art.
2, comma 2, della legge n, 604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970,
il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e
condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a
contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a
dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del
lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle
tutele di cui agli articoli 2 e 3
del presente decreto».

Nelle more del giudizio principale è intervenuta la sentenza n. 194 depositata l’8 novembre 2018, con
la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 3. comma 1, decreto
legislativo n. 23/2015, limitatamente alle parole «di importo pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

Prima della pronuncia appena menzionata, l’art. 3, comma 1 cosi recitava:
«Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non
ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per
giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro
al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di
importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura
comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».

La Consulta ha ritenuto che il meccanismo di rigida
predeterminazione dell’indennizzo spettante in caso di licenziamento
illegittimo, ancorato all’unico parametro dell’anzianità di servizio, contrasti
tanto con il principio di eguaglianza, quanto con quello di ragionevolezza, non
realizzando un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto; ha quindi
chiarito che. nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui
va quantificata r indennità spettante al lavoratore illegittimamente
licenziato, deve tenersi conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, nonché
degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della
disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati,
dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

Con la medesima pronuncia la Corte ha dichiarato
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, di cui in questa sede
occorre fare applicazione.

La declaratoria di inammissibilità è però scaturita
dal giudizio di irrilevanza della questione, essendo il menzionato art. 4
inapplicabile in quel giudizio a quo, sicché l’eventuale risoluzione della
questione prospettata con riferimento alla citata disposizione non avrebbe avuto
alcuna incidenza sul procedimento pendente dinanzi al rimettente.

Ne consegue che non è preclusa la riproposizione
della questione sull’art. 4
nel corso di un giudizio, come il presente, ove esso è sicuramente rilevante.

Essendo perfettamente sovrapponibile il criterio di
calcolo dell’indennità, è inevitabile valutare l’incidenza della pronuncia n.
194/2018 anche sull’art. 4.

Le parole censurate dalla Consulta, contenute nell’art. 3 («di importo pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»), sono infatti
identiche, tranne che per il numero di mensilità (due invece che una), alla
dizione dell’art. 4 («di
importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»).

Orbene, si ritiene che la declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 3,
comma 1 non possa spiegare effetti immediati e diretti sulla norma applicabile
nel presente procedimento (art. 4):
sia perché quest’ultima contiene una previsione distinta e autonoma rispetto
all’art. 3, a differenza, per
esempio, dell’art. 9, decreto
legislativo n. 23/2015. che rinvia invece espressamente all’art. 3, comma 1 per stabilire la
base di calcolo dell’indennizzo dovuto ai dipendenti delle piccole imprese; sia
perché la questione di costituzionalità dell’art. 4, pure sollevata dall’altro
giudice rimettente, è stata dichiarata inammissibile (per difetto di
rilevanza); sia perché alcune delle argomentazioni espresse dalla Consulta a
sostegno della declaratoria di illegittimità dell’art. 3, comma 1 fanno riferimento
al caso specifico del licenziamento «ingiustificato», cioè privo di valido
motivo, non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo, che è
ipotesi diversa da quella qui in discussione, concernente un licenziamento
illegittimo in quanto affetto da vizio procedurale.

D’altronde, le due norme sono state introdotte
nell’ordinamento per sanzionare diversi tipi di illegittimità, risultando
l’art. 3, comma 1 applicabile «nei casi in cui risulta accertato che non
ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per
giustificato motivo soggettivo o giusta causa», e venendo invece in rilievo l’art. 4 «Nell’ipotesi in cui il
licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui
all’art. 2, comma 2, della
legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970».

Il meccanismo previsto dall’art. 4 non può quindi restare
travolto dalla declaratoria di incostituzionalità che ha interessato l’art. 3.

Tuttavia, proprio perché le due disposizioni
adottano lo stesso congegno, ancorato esclusivamente all’anzianità di servizio,
i dubbi circa la legittimità dell’una non possono discostarsi da quelli già
acclarati in ordine all’illegittimità dell’altra, e conducono a richiedere una
espressa pronuncia della Corte costituzionale.

Come già accennato, infatti, oggetto delle doglianze
di illegittimità non è stato il quantum delle soglie minima e massima entro cui
può essere stabilita l’indennità, bensì il meccanismo di determinazione
dell’indennità stessa, posto che la norma presa in esame dalla Consulta (art. 3), al pari di quella da
applicare nel presente giudizio (art.
4), introduce un criterio rigido e automatico, basato sull’anzianità di
servizio, tale da precludere qualsiasi discrezionalità valutativa, in
violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in
contrasto con l’esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto
pregiudizio subito dal lavoratore, nonché un’adeguata dissuasione del datore di
lavoro dal licenziare ingiustamente o illegittimamente.

La Corte, con la
sentenza n. 194/2018, ha rilevato che «Il meccanismo di quantificazione
indicato connota l’indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione
a parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i
lavoratori con la stessa anzianità, L’indennità assume così i connotati di una
liquidazione legale forfettizzata e standardizzata, proprio perché ancorata
all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al
lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo
indeterminato.

Il meccanismo di quantificazione dell’indennità
opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l’alto», giungendo
ad affermare che «In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel
momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non
può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono
che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale
valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale
discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore
per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una
soglia minima e una massima.

All’interno di un sistema equilibrato di tutele,
bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde,
infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore,
pure essa imposta dal principio di eguaglianza.

La previsione di una misura risarcitoria uniforme,
indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei
licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita
omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza
concreta – diverse».

Pertanto, l’art. 3, comma 1, nella parte in
cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio», è stato ritenuto contrastante con il principio di
eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni
diverse.

Con riguardo al principio di ragionevolezza, la
Consulta ha censurato l’art. 3,
comma 1 per una duplice ragione.

Da un canto, è stata ravvisata l’inidoneità
dell’indennità a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito
dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo, in quanto «(…) la
rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita
dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di
anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio a quo. In tali casi, appare
ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento
illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura
minima dell’indennità di quattro (e, ora, di sei) mensilità».

Dall’altro, la Consulta ha ritenuto l’indennità
inidonea a costituire un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal
licenziare illegittimamente, poiché «l’inadeguatezza dell’indennità
forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla sua primaria
funzione ripartorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore
ingiustamente licenziato è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la
funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datare di lavoro,
allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di
compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto».

In relazione ai parametri costituzionali degli articoli 4, primo comma e 35, primo comma, Cost., si è poi osservato che
«Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma l, del decreto
legislativo n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela
economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei
vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro
dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una sfatta tutela
dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi
rispettosa degli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse.
appunto, proteggono.

L’irragionevolezza del rimedio previsto dall’art. 3, comma 1, del decreto
legislativo n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore
alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (articoli 1, primo comma, 4 e 35 Cost.), per
realizzare un pieno sviluppo della personalità umana».

Così sintetizzati alcuni dei profili di
illegittimità costituzionale riscontrati con riferimento all’art. 3, comma 1, decreto legislativo
n. 23/2015, si osserva che dubbi analoghi investono la conformità alla
Costituzione dell’omologo criterio di quantificazione dell’indennità previsto
dal successivo art. 4,
ritenendosi che i principi affermati dalla Corte costituzionale siano
estensibili anche a quella parte dell’art. 4 che ricalca fedelmente
l’inciso dell’art. 3 ormai
espunto dall’ordinamento in quanto incostituzionale.

Invero, le esigenze di adeguato ristoro del
pregiudizio subito, di commisurazione del costo del licenziamento illegittimo
anche alla capacità economica dell’impresa, di valorizzazione delle peculiarità
del caso concreto, valutate dalla Consulta in relazione all’ipotesi del
licenziamento illegittimo per ragioni sostanziali, non possono essere ignorate
nei casi di licenziamento viziato sotto il profilo formale o procedurale,
atteso che anche le violazioni procedurali possiedono diverse gradazioni di
gravità, e anche un licenziamento illegittimo per questioni di forma può
produrre pregiudizi differenziati in base alle condizioni delle parti,
all’anzianità del lavoratore, alle dimensioni dell’azienda.

Né può sostenersi che, stante la minore gravità dei
vizi procedurali rispetto a quelli sostanziali (minore gravità che non è in
discussione, essendo stata sancita a monte dal legislatore tramite la
diversificazione delle soglie minima e massima dell’indennità negli articoli 3 e 4, decreto legislativo
n. 23/2015), le argomentazioni espresse dalla Consulta in ordine all’art. 3 non potrebbero valere per
l’art. 4, in quanto, lo si
ribadisce, oggetto di censura non sono la misura in sé dell’indennità o i
limiti minimo e massimo della stessa, bensì esclusivamente il meccanismo
automatico di calcolo, che è (era) previsto in maniera assolutamente analoga
dagli articoli 3 e 4, decreto
legislativo n. 23/2015.

E’ del resto innegabile che il diritto a essere
licenziati solo all’esito di un regolare procedimento disciplinare, o comunque
in virtù di un provvedimento chiaro, espresso. specifico, motivato, non
riceverebbe adeguata tutela da un meccanismo risarcitorio che consentisse di
predeterminare in maniera fissa l’importo dell’indennità sulla base del solo
criterio dell’anzianità del dipendente, risultando tale rimedio non congruo
rispetto alla finalità di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere
licenziamenti affetti da vizi di forma: parimenti, un tale congegno automatico
di quantificazione dell’indennità impedirebbe di valorizzare la differente
gravità delle violazioni commesse, che invece il precedente legislatore ha
espressamente mostrato di voler tenere in considerazione, indicandola quale
criterio di commisurazione del risarcimento (cfr. art. 18, comma 6 St. lav.
così come modificato dalla legge n. 92/2012:
«Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione
del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della legge 15
luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui
all’art. 7 della presente legge, o della procedura di cui all’art. 7 della legge 15 luglio 1966,
n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto
comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria
onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale
o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo
di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di
specifica motivazione a tale riguardo»).

L’art.
4, decreto legislativo n. 23/2015 contrasta dunque con i principi di
ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall’art. 3
Cost., nonché con gli articoli 4, comma 1 e
35, comma 1 Cost., poiché una tutela inadeguata
a fronte di un licenziamento illegittimo sotto il profilo procedurale è
altrettanto lesiva del diritto al lavoro quanto l’analoga inadeguata tutela,
ormai dichiarata incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi
sotto il profilo sostanziale.

Va inoltre considerato che le garanzie procedurali
poste dall’ordinamento a presidio di un regolare e legittimo licenziamento
disciplinare (la cui violazione ha appunto determinato la valutazione di
illegittimità del licenziamento nel presente giudizio a quo) sono espressione
del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.,
sicché l’irragionevole modalità di calcolo dell’indennità prevista dall’art. 4, decreto legislativo n.
23/2015 finisce per contrastare anche con il precetto costituzionale del
richiamato art. 24.

Come ricordato dalla stessa Corte costituzionale
(sentenze n. 460 del 2000, n. 182 del 2008), vero è che la proclamazione
contenuta nell’art. 24 Cost. indubbiamente si
dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai
procedimenti giurisdizionali; essa non manca tuttavia di riflettersi, seppure
in maniera più attenuata, sui procedimenti disciplinari, in ragione della
«natura sanzionatoria delle pene disciplinari, che sono destinate ad incidere
sullo stato della persona nell’impiego o nella professione» (Corte cost.,
sentenza n. 71 del 1995). L’approdo del procedimento può toccare invero la
sfera lavorativa e, con essa, le condizioni di vita della persona e postula
perciò, anche in relazione ai procedimenti non aventi carattere
giurisdizionale, talune garanzie che non possono mancare, quali la
contestazione degli addebiti e la conoscenza, da parte dell’interessato, dei
fatti e dei documenti sui quali si fondano (Corte cost., sentenza n. 505 del
1995).

D’altro canto, gli ultimi arresti della
giurisprudenza di legittimità ribadiscono che l’esercizio dei diritto di difesa
ha piena copertura, in virtù dell’art. 24 Cost.,
anche in sede di procedimento disciplinare ex art. 7, legge n. 300/1970
(cfr. Cassazione n. 13383/2017, n. 16590/2018).

Si auspica pertanto che anche dall’art. 4, al pari di quanto
avvenuto per l’art. 3, siano
espunte le parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di
servizio», e che, nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in
cui va quantificata l’indennità (da due a dodici mensilità), possa tenersi
conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, nonché della gravità della
violazione formale o procedurale (criterio già espressamente previsto dall’art. 18, comma 6 St. lav.) e
degli altri parametri indicati dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
194/2018 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica,
comportamento e condizioni delle parti).

Rilevanza della questione.

Nel caso di specie, nella vigenza della norma qui
sospettata di incostituzionalità, la ricorrente avrebbe diritto a un’indennità
pari a due mensilità, posto che il suo rapporto lavorativo è durato poco più di
un anno (dal 5 settembre 2016 al 24 ottobre 2017).

Se, viceversa, la questione di legittimità fosse
accolta in termini analoghi a quanto avvenuto per l’art. 3, comma 1, i criteri da
utilizzare per la commisurazione dell’indennità, in aggiunta all’anzianità di
servizio, potrebbero essere ricercati nelle disposizioni di cui all’art. 8, legge n. 604/1966 e art. 18, comma 6 St. lav.
(che a sua volta richiama il comma 5, prevedendo l’applicazione del «regime di
cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità
risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della
violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo
di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo»).

Occorrerebbe quindi considerare, da un lato, la ridotta
anzianità di servizio della ricorrente (un anno), fattore che sposta la misura
dell’indennità verso il limite minimo (due mensilità); dall’altro, gli elementi
che invece inducono ad aumentare detta misura, vale a dire le notevolissime
dimensioni dell’impresa convenuta in termini di fatturato e l’elevatissimo
numero di dipendenti occupati (nell’ordine di migliaia), nonché la non
trascurabile entità della violazione commessa dalla società datrice (mancata
indicazione del termine a difesa nella lettera di contestazione), unitamente
alla circostanza che uno solo degli addebiti posti a fondamento del recesso è
risultato sussistente: la valutazione ponderata di tali criteri indurrebbe a
ritenere equa, fra il minimo di 2 e il massimo di 12, un’indennità sicuramente
superiore al minimo.

Ma anche laddove, nell’ipotesi di accoglimento della
presente questione. i parametri cui ancorare la commisurazione dell’indennità
venissero individuati non già nel combinato disposto dei commi 5 e 6 dell’art. 18 St. lav., bensì
unicamente nel comma 6, dovendosi perciò valorizzare, unitamente all’anzianità
di servizio, solo la minore o maggiore gravità della violazione, è innegabile
che nel caso di specie la misura dell’indennizzo spettante alla ricorrente
sarebbe superiore al minimo, in quanto la violazione procedurale commessa dalla
datrice di lavoro non è di lieve entità: non solo è stata omessa l’indicazione
del termine entro cui rendere le eventuali giustificazioni, ma è stata anche
del tutto omessa la preventiva contestazione di uno degli addebiti (assenza
ingiustificata dal lavoro per più di cinque giorni).

Impossibilità di interpretazione conforme a
Costituzione.

La formulazione dell’art. 4, decreto legislativo n.
23/2015 (al pari di quella dell’art.
3, comma 1) non offre possibilità di interpretazione costituzionalmente
orientata, in quanto il criterio dell’anzianità lavorativa è categoricamente
indicato come l’unico in base al quale modulare il risarcimento, in rapporto di
una mensilità per ogni anno di servizio, sicché l’unica alternativa alla
applicazione letterale della norma sarebbe la sua disapplicazione, interdetta
in difetto di una pronuncia di incostituzionalità.

Nell’evidente impossibilità di un’interpretazione
costituzionalmente adeguata a fronte del chiarissimo tenore letterale della
disposizione, e nell’altrettanto evidente impossibilità, per le ragioni in precedenza
esposte, di estendere in via diretta all’art. 4 gli effetti della sentenza
n. 194/2018, è dunque inevitabile sollevare il presente incidente di
costituzionalità.

D’altro canto, questo giudice non si riconosce il
potere, in sede di interpretazione conforme, di determinare, in base al proprio
convincimento, la sanzione adeguata in caso di licenziamento illegittimo, né
tantomeno il potere di applicare al caso concreto una norma diversa da quella
prevista dal legislatore (in ipotesi applicando l’art. 18, comma 6, legge n.
300/1970, in luogo dell’art.
4, decreto legislativo n. 23/2015), non potendo l’interpretazione conforme
risolversi, com’è noto, in un effetto sostanzialmente abrogativo.

In conclusione, alla luce delle precedenti
considerazioni, si ritiene rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale della norma indicata in dispositivo in
relazione ai profili sopra esposti.

Il giudizio in corso deve quindi essere sospeso e
gli atti rimessi alla Corte costituzionale.

 

P.Q.M.

 

visto l’art.
23, comma 2 della legge 11 marzo 1953, n. 87,

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, decreto legislativo n.
23/2015 limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio», per contrasto con gli articoli 3, 4 comma 1,
35 comma 1, 24
della Costituzione;

Sospende il presente giudizio;

Dispone la immediata trasmissione alla Corte
costituzionale degli atti del giudizio, unitamente alla prova delle
comunicazioni di seguito prescritte;

Ordina che a cura della cancelleria la presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonché al Presidente del
Consiglio dei ministri, e che sia comunicata ai presidenti della Camera dei
deputati e del Senato della Repubblica.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. del 04 dicembre 2019, n. 49

 

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI BARI – Ordinanza 18 aprile 2019
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