Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 dicembre 2019, n. 32074

Licenziamento, Qualifica di coordinatrice, Codatorialità,
Elementi istruttori, Utilizzo improprio ed arbitrario di somme detenute per
conto della società datrice di lavoro, Giustificazioni scritte, Rottura del
vincolo fiduciario

 

Rilevato che

 

1. Con ricorso depositato in data 8.6.2012 F.S. ha
adito il Tribunale di Roma al fine di sentire accertare e riconoscere il suo
rapporto di lavoro con la E. srl a decorrere dal 2.9.2009 fino alla data del
licenziamento e, pertanto, accertare e dichiarare il carattere fittizio ed
illegittimo e, quindi, nullo e/o inefficace del rapporto di lavoro con la
“C.I. Soc. Coop. arl” a partire dall’1.10.2010 fino alla data del
licenziamento; conseguentemente accertare e dichiarare la nullità e/o
illegittimità e/o inefficacia del licenziamento adottato dalla società
“C.I. Soc. Coop. arl” per totale assenza di giusta causa, per
infondatezza degli addebiti contestati e per la manifesta sproporzione tra gli
addebiti contestati ed il provvedimento espulsivo comminato, con ogni tutela di
tipo reintegratorio e risarcitorio.

2. Nel contraddittorio tra le parti l’adito giudice,
in accoglimento della domanda, ha ordinato alla società E. srl – previo
accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato in essere tra le parti – di riammettere la ricorrente nel suo
posto di lavoro oltre alla condanna della medesima società a corrispondere, a
titolo di risarcimento del danno, tutte le retribuzioni maturate
dall’11.7.2012, oltre accessori.

3. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n.
4853/2017, ha accolto il gravame proposto dalla società e, in riforma
dell’impugnata pronuncia, ha rigettato le originarie domande formulate da F.S..

4. A fondamento della decisione i giudici di seconde
cure hanno rilevato che: a) non era stata dimostrata che l’ingerenza,
realizzata per mezzo dei responsabili della società E. nella gestione
organizzativa e funzionale dell’attività posta in essere dalle educatrici nella
sede operativa ove prestava servizio la ricorrente, con la qualifica di
coordinatrice, fosse un elemento di valutazione bastevole a fare ritenere la
medesima società l’effettiva unica datrice di lavoro della S.; b) neppure erano
stati acquisiti elementi certi ed univoci sufficienti a dare tranquillante
dimostrazione dell’esistenza, nella specie, di un fenomeno di codatorialità
che, peraltro, non aveva costituito oggetto specifico della prospettazione in
fatto da parte della S.; c) il licenziamento adottato si dimostrava legittimo
perché immune dalle censure di tipo procedurale eccepite dalla lavoratrice,
giustificato dalla condotta contestata (non avere provveduto a versare sul c/c
intestato alla società la somma di euro 7.3655,51 trattenendo l’importo nella
propria disponibilità) che aveva minato in modo profondo ed irrimediabile la
fiducia di parte datoriale nell’affidabilità della propria dipendente,
proporzionato rispetto all’entità del comportamento compiuto.

5. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto
ricorso per cassazione F.S. affidato a cinque motivi, cui hanno resistito con
un unico controricorso la E. srl e la Società C.I. Cooperativa Sociale arl.

6. Le parti hanno depositato memorie.

7. Il PG non ha formulato richieste scritte.

 

Considerato che

 

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24
e 11 Cost. e 112,
113, 345 e 437 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte di
merito, da un parte, completamente ignorato l’eccezione, sollevata da essa
allora appellata, di inammissibilità dei fatti nuovi dedotti e dei documenti
nuovi prodotti dalle società appellanti per la prima volta in appello (relativi
ad un “incarico e retribuzione della concessione in outsourcing” tra
le due società, mai dedotto prima) e, dall’altra, per avere basato il proprio
libero convincimento anche e soprattutto su tali fatti e documenti nuovi, senza
peraltro dare alcuna motivazione al riguardo.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e
falsa applicazione dell’art. 112 cpc, dell’art. 116 cpc e dell’art.
2697 cc, in relazione all’art. 360 n. 3 cpc
nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 n. 5 cpc, per avere la Corte territoriale
omesso ogni accertamento volto alla individuazione dell’effettivo datore di
lavoro e, quindi, del soggetto legittimato ad irrogare la sanzione espulsiva e
per avere invertito l’onere probatorio, ponendo a carico della lavoratrice
l’onere di dimostrare fatti, come la codatorialità, dedotti ed eccepiti
esclusivamente dalle società appellanti, peraltro solo in grado di appello; si
sostiene, inoltre, che in tale esame la Corte di merito aveva omesso ogni esame
su decisive deposizioni e non aveva considerato che il contratto di assunzione
della S. con la Cooperativa era stato sottoscritto dal Procuratore della E.
srl.

4. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 604/1966,
degli artt. 112 e 116
cpc, nonché degli artt. 58,
59, 64, 65 e 66 del CCNL
Aninsei, in relazione all’art. 360 n. 3 cpc
nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto
di discussione tra le parti, in relazione all’art.
360 n. 5 cpc, per avere erroneamente individuato la Corte territoriale la
giusta causa del recesso in un comportamento mai dedotto dalla società né in
primo né in secondo grado, mentre, invece, gli addebiti pretesi erano stati
contestati con più lettere e non solo con quella dell’aprile del 2011; per non
avere la Corte di merito mai accertato la fondatezza di tutti gli addebiti
contestati ed il cui concorso aveva determinato il licenziamento; per avere i
giudici di seconde cure erroneamente richiamato precedenti giurisprudenziali,
riferiti a funzionari e cassieri di Banca, non pertinenti al caso de quo e per
avere omesso di valutare fatti decisivi quali l’assenza di una particolare
procedura per custodire somme di denaro, l’avviso alla società circa le somme
incassate dalla ricorrente e la mancata contestazione, da parte del datore di
lavoro, circa un utilizzo improprio ed arbitrario di somme ricevute per conto
della società.

5. Con il quarto motivo si deduce la violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 112 cpc e degli artt. 58, 59, 64, 65, 66 del CCNL Aninsei,
in relazione all’art. 360 n. 3 cpc nonché
l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, in relazione all’art. 360
n. 5 cpc, per non avere la Corte territoriale, ai fini di verificare la
congruità e la proporzionalità della sanzione, eseguito alcun accertamento
volto a verificare se i pretesi fatti posti a fondamento del licenziamento
disciplinare rientrassero tra le ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro
espressamente e tassativamente indicate nella contrattazione collettiva
applicata (CCNL Aninsei) peraltro neppure depositata dalla Cooperativa.

6. Con il quinto motivo la ricorrente si duole della
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 cpc
nonché dell’art. 7 della legge
n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360 n. 3
cpc, per avere erroneamente la Corte di merito valutato il documento 23
prodotto agli atti come regolamento e codice disciplinare riconducibile alla
Crescere, non considerando che la Cooperativa non aveva mai prodotto alcun
codice deontologico che, pertanto, non risultava essere stato pubblicato.

7. Il primo motivo presenta profili di
inammissibilità e di infondatezza.

8. E’ inammissibile, per difetto di specificità,
perché non è stato riportato il testo integrale dei documenti, ritenuti
costituenti nuova produzione asseritamente non consentita in appello, onde
permettere a questa Corte la verifica se effettivamente la decisione di secondo
grado – sulla questione sottesa alla censura – abbia utilizzato anche detti
documenti.

9. E’ infondato perché, formalmente, la motivazione
della Corte di appello è imperniata – sul punto in contestazione rappresentato
dalla dedotta finzione del rapporto formale di lavoro da analizzarsi
necessariamente sotto tutti gli aspetti aventi connessione con quelli già
dedotti, senza che ciò possa costituire introduzione nel giudizio di fatti
nuovi (in quanto non costituenti una ragione di indagine diversa e non
alterando i termini sostanziali della controversia -cfr. Cass. n. 2641 del
2013; Cass. n. 5051 del 2016) – oltre che
sulle risultanze della prova orale, sull’esame dei seguenti documenti,
espressamente menzionati: n. 1, 7, 14, 15, 16, 17 e 21.

10. Non è fatto alcun riferimento ai documenti che,
secondo la ricorrente, sarebbero stati introdotti per la prima volta in grado
di appello e, cioè, quelli dal numero 24 al numero 30 della produzione delle
appellanti di talché, anche sotto questo aspetto, la doglianza non è meritevole
di accoglimento.

11. Anche il secondo motivo è in parte inammissibile
e in parte infondato.

12. In primo luogo, va rilevato che non rientra nel
perimetro della nuova formulazione dell’art. 360 n.
5 cpc l’omesso esame di elementi istruttori, se il fatto storico rilevante
in causa è stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché non abbia
dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 22.9.2014 n. 19881).

13. Nel caso in esame, il problema della
individuazione dell’effettivo datore di lavoro della S. è stato esaminato dalla
Corte territoriale e risolto con adeguata e congrua motivazione sicché non può
ipotizzarsi un nuovo sindacato in sede di legittimità che si risolverebbe in un
riesame dei fatti di causa. Analogamente non può ipotizzarsi alcun vizio di
omessa pronuncia che si ha unicamente nel caso di inesistenza di una decisione
su un punto per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla soluzione
del caso concreto (tra le altre Cass. n. 2085 del 1995) salva l’ipotesi in cui
ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della
deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie (Cass
n. 4079 del 2005; Cass. n. 14486 del 2004).

14. In secondo luogo, in ordine alla violazione di
cui all’art. 116 cpc, va precisato che la
stessa non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio
compiuta dal giudice di merito, ma allorché abbia disatteso, valutandole
secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia
considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico,
elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016; Cass n. 13960 del 2014): ipotesi queste non
denunziate né ravvisabili nel caso in esame.

15. Quanto, invece, alla tematica della
codatorialità, deve osservarsi, da un lato, che la problematica è stata
valutata dalla Corte territoriale a completamento della indagine sulla
individuazione dell’effettivo datore di lavoro, ravvisato dalla lavoratrice
nella società E. srl e non nella Cooperativa C. che aveva intimato il
licenziamento, escludendo poi la fondatezza di tale assunto sulla base delle
prove raccolte.

16. Correttamente, inoltre, la Corte di merito ha
posto il relativo onere della prova a carico della lavoratrice che aveva esteso
l’ambito applicativo della capacità datoriale, al di là del dato formale,
ipotizzando di fatto una fraudolenta somministrazione di lavoro (cfr. in
termini Cass. n. 9815 del 1991).

17. Il terzo motivo è infondato.

18. La Corte territoriale, da tutte le contestazioni
disciplinari formulate nei confronti della S., ha enucleato – in particolare da
quella del 29 aprile 2011 – la condotta di utilizzo improprio ed arbitrario di
somme detenute per conto della società datrice di lavoro (che andavano versate
in banca appena ricevute o al più a fine giornata), senza autorizzazione al
riguardo ma in forza di una non meglio precisata prassi aziendale.

19. La Corte ha ritenuto dimostrato l’addebito sulla
base delle stesse giustificazioni scritte inviate alla società datrice ove la
lavoratrice aveva dichiarato di avere provveduto alla restituzione delle somme
richieste e degli oggetti di pertinenza aziendale.

20. La decisione è conforme all’orientamento di
legittimità (Cass. 2.2.2009 n. 2579; Cass. 31.10.2013 n. 24574) secondo il quale ben
può il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del
licenziamento del datore di lavoro- individuare anche solo in alcuni o in uno
di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti
il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 cc.

21. Quanto, invece, ai richiami giurisprudenziali
riferibili all’attività degli operatori bancari, deve osservarsi che i
riferimenti – per quanto pertinenti in astratto – sono irrilevanti perché la
Corte territoriale con una indagine di merito, adeguatamente e correttamente
motivata, ha precisato che nel caso in esame il vincolo fiduciario, sottostante
al rapporto, doveva ritenersi irrimediabilmente leso in considerazione del
fatto che la lavoratrice si era resa autrice di una condotta che la rendeva del
tutto inaffidabile in relazione alle pur sempre delicate funzioni
(coordinatrice delle educatrici con delega all’organizzazione gestionale e
lavorativa all’interno dell’asilo di via (…) ) assegnatele.

22. Si tratta, come detto, di un accertamento che
spetta al giudice di merito (Cass. n. 19742 del
2005) riguardando gli elementi che integrano il parametro normativo (Cass. n. 25144 del 2010; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 1788 del 2011) e la loro attitudine
concreta a costituire giusta causa, incensurabile in sede di legittimità perché
privo di errori logici e giuridici.

23. Il quarto motivo è inammissibile sia per la
mancanza di specificità della censura (Cass. 3.2.2015 n. 1926), sia perché
viene prospettata una questione senza specificare il “come” ed il
“dove” essa sia stata sottoposta nei precedenti gradi (Cass. n. 4787
del 2012; Cass. n. 3881 del 1998).

24. E’ opportuno evidenziare che al licenziamento in
esame, intimato il 30.5.2011, non si applicano le disposizioni di cui alla legge n. 92 del 2012.

25. Orbene, la ricorrente non ha specificato quando
abbia sottoposto ai giudici del merito la questione circa la riconducibilità,
alle ipotesi tassativamente previste dalla contrattazione collettiva (di cui
ella stessa dà atto del mancato deposito nei precedenti gradi), della
fattispecie ad essa contestata.

26. Inoltre, ai fini di non incorrere nel vizio di
genericità della censura, la ricorrente avrebbe dovuto riportare quanto meno il
testo di tutte le disposizioni contrattuali che assume essere state violate
nella rubrica del motivo, consentendo in tal modo a questa Corte di effettuare
un valido e completo scrutinio della doglianza in relazione alla formulazione
della censura.

27. Ciò al fine di evitare il rischio di un
soggettivismo interpretativo da parte del giudice con riguardo alla esatta
portata dell’atto di impugnazione la cui responsabilità fa carico
esclusivamente al ricorrente.

28. Il quinto motivo è, infine, anche esso
inammissibile perché, a fronte della argomentazione della Corte territoriale,
che ha ritenuto assolto l’adempimento formale dell’affissione del codice
disciplinare nel luogo di lavoro, con il richiamo al documento 23 di parte
convenuta, la ricorrente si è limitata a fornire una diversa valutazione
probatoria rispetto a quella operata dalla Corte territoriale, sostanziante il
suo accertamento in fatto, di esclusiva spettanza del giudice di merito e
insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 27197 del 2011; Cass. n. 6288
del 2011).

29. In ogni caso, deve sottolinearsi che la Corte di
appello, al riguardo, ha fatto riferimento anche alle circostanze del caso e
alla tipologia delle violazioni contestate da ultimo, relativamente
all’indebito trattenimento nella propria disponibilità di somme di denaro e di
materiale documentale di pertinenza della società, ancora in atto al momento
della elevazione della contestazione.

30. Ebbene esse, in quanto immediatamente
percepibili dal lavoratore nella loro illiceità e contrarie al cd. minimo etico
e a norme di rilevanza penale, per la loro legittimità potevano benissimo
prescindere dalla affissione del citato codice disciplinare (cfr. Cass. n.
13414 del 2013; Cass. n. 1926 del 2011; Cass. n. 21032 del 2016).

31. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve
essere rigettato.

32. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al
pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di
legittimità liquidate come da dispositivo.

33. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02,
nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228,
deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da
dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di
legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro
200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del DPR n.
115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 dicembre 2019, n. 32074
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