Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 dicembre 2019, n. 31946

Affitto di ramo d’azienda, Verbale di conciliazione,
Rinuncia dei lavoratori a eventuali pretese, Prevista retrocessione del ramo
di azienda, Licenziamento collettivo per cessazione dell’attività aziendale

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 393 del 2017 il Tribunale di
Venezia, in funzione di giudice del lavoro, accoglieva le opposizioni proposte
dalle società Industrie M. s.r.l. e M.C. s.r.l. (già M. C. s.p.a.) in
liquidazione e in concordato preventivo, avverso l’ordinanza, pronunciata
secondo il rito previsto dalla L. n. 92 del 2012,
che aveva annullato il licenziamento di E .N., M.M. e D. D.C. disposto il 1°
ottobre 2014 dalla M. C., cedente, e ordinato la reintegrazione nel loro posto
di lavoro delle lavoratrici nei confronti della cessionaria industrie M.
s.r.l., rigettando i ricorsi delle stesse lavoratrici.

2. Avverso la citata sentenza le lavoratrici
proponevano reclamo alla Corte di appello di Venezia, che lo rigettava con
sentenza pubblicata il 9.11.2017 condannando le reclamanti al pagamento delle
spese di lite del grado.

3. La Corte di appello veneziana notava in fatto che
la società M.C. veniva posta in liquidazione il 15 febbraio 2013 e che con
decorrenza 5 marzo 2013 – conformemente all’accordo sindacale in tema del 27
febbraio 2013 – il personale era collocato in CIGS per cessazione di attività.
Il 5 marzo 2013 veniva concluso un accordo “in deroga” ai sensi dell’art. 47, comma 2, legge n. 428 del
1990, accordo che prevedeva la cessione in affitto di due rami di azienda
entro il 9 marzo successivo. Le lavoratrici sottoscrivevano nella stessa data
un verbale di conciliazione ai sensi dell’art. 411
cod.proc.civ. con il quale esse confermavano di non rientrare tra i
lavoratori interessati al trasferimento e rinunciavano espressamente a ogni
diritto o pretesa ai sensi dell’art. 2112 cod.civ.
Il 9 marzo 2013 veniva stipulato un contratto di affitto dei due rami di
azienda aventi ad oggetto i reparti produttivi della pressofusione e delle
lavorazioni meccaniche in favore della società M. s.p.a., soggetto diverso
dalla attuale controricorrente M. s.r.l.. Il 12 settembre 2013 la società M. C.
s.r.l. presentava domanda di concordato preventivo e veniva ammessa alla
procedura con decreto datato 26 settembre 2013. Il 9 luglio 2014 il giudice
delegato autorizzava l’acquisto dei due citati rami di azienda da parte della
società A.L. s.r.l., la cui denominazione era modificata in industrie N. s.r.l.
Il 22 settembre 2014 era avviata la procedura di licenziamento collettivo per
cessazione dell’attività aziendale nei confronti di tutti i lavoratori,
compresi quelli in forza all’affittuaria, che già aveva comunicato il recesso
il 28 agosto, con effetto dal 29 settembre dello stesso anno. Il 29 e 30
settembre successivi, contestualmente alla retrocessione dei due rami di
azienda, erano siglati i verbali di intesa sindacale ai sensi dell’art. 47, comma 4 bis, lettera b)
bis legge n. 428 del 1990, sulla messa in mobilità di 70 lavoratori
rispetto ai 152 indicati nella comunicazione iniziale, essendo gli altri
destinati al trasferimento con la cessione, stabilendosi al punto 10 “che
l’unico criterio di scelta dei lavoratori è identificato nelle esigenze tecnico
organizzative e produttive”. Il 1° ottobre 2014 veniva formalizzata la
vendita dei due rami di azienda alle Industrie M. s.r.l. ed erano licenziate
tra gli altri anche le odierne ricorrenti.

4. Per quanto qui interessa la Corte di appello
riteneva che la scelta operata rispondeva ad un’obiettiva esigenza
organizzativa e produttiva manifestata dall’acquirente dei due rami di azienda,
cioè del soggetto che con il proprio intervento avrebbe consentito di
salvaguardare l’occupazione per una quota rilevante di lavoratori, mentre si
doveva considerare irrilevante la questione relativa alla ricomposizione o meno
dell’azienda con la retrocessione dei due rami di azienda in prossimità della
loro vendita a Industrie M. s.r.l. giacché, una volta intervenuta la
retrocessione dei due rami di azienda dall’affittuaria alla concedente,
successivamente all’apertura della procedura di licenziamento collettivo si era
innestata la diversa e autonoma iniziativa della vendita dei due rami di
azienda nell’ambito della procedura concordataria, iniziativa che aveva inciso
solo sul numero dei licenziamenti. Non rilevava quindi la questione degli
eventuali effetti della conciliazione del marzo 2013 ai sensi dell’art. 411 cod.proc.civ. anche in relazione al nuovo
trasferimento, perché ogni questione risultava assorbita dalla soluzione
adottata in ordine alla cessione dei due rami di azienda “in deroga”
ai sensi dell’art. 47, comma 4
bis, della legge n. 428 del 1990.

5. Avverso la citata sentenza della Corte di appello
di Venezia le lavoratrici E .N., M.M. e D. D.C. propongono ricorso per
cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria. Le società M. C. s.r.l.
in liquidazione e concordato preventivo e N. s.r.l. resistono con separati
controricorsi.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato

2. Con il primo motivo le ricorrenti denunciano la
violazione dell’art. 5 L. n.
223 del 1991 con riferimento ai criteri di scelta dei lavoratori da
licenziare nell’ambito della procedura di mobilità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.; la
violazione dell’art. 111 della Costituzione per
omessa motivazione circa il carattere, “centrale” della questione relativa
alla individuazione dei lavoratori destinatari del trasferimento, rispetto a
quella dell’individuazione dei lavoratori da licenziare, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.; la
violazione dell’art. 111 della Costituzione con
riferimento alla “manifesta e irriducibile contraddittorietà” della
motivazione sulla questione della sussistenza della causale di cessazione
dell’attività aziendale indicata nella comunicazione di apertura della
procedura di licenziamento collettivo, ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.

3. Sono inammissibili tutti i profili dì questa
doglianza riferiti alla motivazione della sentenza impugnata. In particolare,
pur volendo prescindere dalla intestazione del motivo nei suoi aspetti inerenti
alla motivazione della sentenza della Corte territoriale, intestazione riferita
all’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ. e non
al n. 4 dello stesso comma, non vengono esplicitati i motivi per i quali sui
punti indicati – da una parte, il carattere in tesi “centrale” della
questione relativa alla individuazione dei lavoratori destinatari del
trasferimento e, dall’altra, la questione della sussistenza della causale di
cessazione dell’attività aziendale indicata nella comunicazione di apertura
della procedura di licenziamento collettivo — la motivazione della sentenza
impugnata sarebbe al di sotto del c.d. “minimo costituzionale”, vizio
che, se esistente, determinerebbe la nullità della sentenza (Cass., S. U., n.
853 del 2014. ) Ciò a fronte di una motivazione della sentenza della Corte
territoriale secondo la quale ogni questione risultava assorbita dalla
soluzione adottata in ordine alla cessione dei due rami di azienda “in
deroga” ai sensi dell’art.
47, comma 4 bis, della legge n. 428 del 1990.

4. Quanto al profilo della doglianza relativo alla
denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3,
cod.proc.civ., violazione dell’art. 5 l. n. 223 del 1991 con
riferimento ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare nell’ambito della
procedura di mobilità, la sentenza impugnata appare perfettamente in linea con
i principi elaborarti dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di
trasferimento di imprese, o di rami di esse, assoggettate a procedura
concorsuale.

5. In primo luogo si deve osservare che, come
condivisibilmente osserva la controricorrente M. C. s.r.l. in liquidazione e in
concordato preventivo, la doglianza viene presentata in modo non preciso dalle
ricorrenti: quando parla della “questione centrale” del giudizio, la
Corte milanese non si è riferita alla “individuazione dei lavoratori da
trasferire”, come si dice in ricorso, ma “alla legittimità
dell’individuazione dei lavoratori destinatari del trasferimento”. In
effetti, solo eventuali vizi di tale individuazione avrebbero potuto riverberarsi
sulla procedura di licenziamento collettivo.

6. Detto questo, in materia di trasferimento di
imprese assoggettate a procedura concorsuale o di rami di esse, l’art. 47, comma 5, della L. n. 428
del 1990, ha previsto ampia facoltà, per l’impresa subentrante, di
concordare condizioni contrattuali per l’assunzione ex novo dei lavoratori, in
deroga a quanto dettato dall’art. 2112 cod.civ.
nonché la possibilità di escludere parte del personale eccedentario dal
passaggio, in quanto tale derogabilità, laddove prevista dall’accordo
sindacale, anche se peggiorativa del trattamento dei lavoratori, si giustifica
con lo scopo di conservare i livelli occupazionali; ne consegue che i principi
dettati dagli artt. 4 e ss.
della L. n. 223 del 1991, e in particolare quelli relativi alla
obbligatoria indicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e
delle modalità di applicazione di tali criteri, non si estendono analogicamente
alla fattispecie disciplinata dall’art. 47 cit., stante la
diversità di ratio dei due istituti e l’assoluta diversità di disciplina (v. Cass. n. 1383 del 2018; v. anche n. 23473 del 2014).

7. La sentenza della Corte territoriale ha
correttamente osservato che il criterio indicato da parte datoriale, cioè
quello identificato nelle esigenze tecnico organizzative e produttive, trovava
ampia esplicitazione nel tenore dell’accordo sindacale risultante dal verbale
di intesa del 29 settembre 2014, verbale nel quale è stata fornita adeguata
spiegazione in ordine alle ragioni del trasferimento, ossia l’interesse
manifestato dall’acquirente per i due rami di azienda già detenuti
dall’affittuaria, la cui individuazione non lasciava adito a dubbi circa il
senso e lo scopo di detta manifestazione di interesse, cioè l’acquisto dei due
rami, già nota e riferita al precedente affitto, per cui la Corte di appello
escludeva che potesse parlarsi di genericità del criterio e di violazione del
principio di buona fede e di correttezza.

8. Dal punto di vista della l. n. 223 del 1991, sono condivisibili i rilievi
della sentenza impugnata, secondo cui è irrilevante discutere della
ricomposizione o meno dell’azienda, perché, anche volendo considerare sotto il
profilo patrimoniale il dato dell’unicità del compendio aziendale, una volta
intervenuta la retrocessione dei due rami di azienda dall’affittuaria alla
concedente, successivamente all’apertura della procedura di licenziamento
collettivo si è innestata la diversa e autonoma iniziativa della vendita dei
due rami di azienda. Non sussiste, dunque, la dedotta violazione dell’art. 5 L. 223 del 1991 per
assenza dei criteri di scelta. Le due vicende del trasferimento dei due rami di
azienda da una parte e del licenziamento collettivo dall’altra sono da
analizzare separatamente. Correttamente la Corte veneziana osserva che la
causale indicata nella comunicazione di apertura della procedura di
licenziamento collettivo, cioè quella della cessazione dell’attività
dell’impresa, era rimasta tale anche a seguito dell’alienazione, nel rispetto
della l. n. 428 del 1990, di parte del
compendio aziendale. L’incapacità della società in liquidazione e concordato
preventivo di continuare l’attività rendeva impraticabile qualsivoglia
soluzione alternativa.

9. In memoria le lavoratrici sollevano una questione
di diritto dell’Unione europea, facendo valere la contrarietà dell’applicazione
alla fattispecie litigiosa della disciplina di cui alla legge n. 428 del 1990, che trae origine dalla Direttiva 2001/23.

In particolare si deduce la non ricorrenza nella
fattispecie litigiosa delle condizioni che giustificano l’applicazione dell’art. 5, comma 1, della
Direttiva che, in deroga alle tutele previste per i lavoratori in caso di
trasferimento d’impresa agli art.
3 e 4 dello stesso strumento, rende inapplicabili tali tutele nei casi in
cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura
d’insolvenza analoga, che questa procedura sia stata aperta al fine di
liquidare i beni del cedente e che si svolga sotto il controllo di un’autorità
pubblica competente (Corte di giustizia dell’UE, sentenza
22.6.2017, Federatie Nederlandse Vakveniging e a., C-126/16, punto 44). Nel
caso di specie, trattandosi di concordato preventivo, mancherebbe il fine liquidatorio,
per cui non sarebbe applicabile l’art. 5, comma 1, della
Direttiva (Corte di giustizia dell’UE, sentenza 16.5.2019, Ch.P1. e.
Prefaco, C-509/17, punto 44).

10. Il concordato preventivo è uno strumento che
consente all’imprenditore commerciale che si trova in stato di crisi o di
insolvenza di poter evitare la liquidazione giudiziale attraverso la proposta
di un piano che consenta di soddisfare i creditori attraverso la continuità
aziendale ovvero la liquidazione del patrimonio.

Nel caso di specie la Corte di appello di Venezia ha
accertato in fatto l’impossibilità della continuazione dell’attività
dell’azienda datrice di lavoro, per cui la procedura concorsuale che interessa
la stessa ha necessariamente un fine liquidatorio, e ricorrono quindi le
condizioni per l’applicazione dell’art. 5, comma 1, della
Direttiva. La stessa sentenza della Corte di giustizia dell’UF, nella causa
C-509/17 citata dalle lavoratrici nella memoria afferma che i requisiti dell’art. 5, comma 1, della
Direttiva non sono soddisfatti da “una procedura che miri al proseguimento
dell’attività dell’impresa interessata”, riprendendo la decisione nella
causa C-126/16 (punto 44 della sentenza del
2019). Tale non è il caso della società datrice di lavoro, come accertato dalla
Corte territoriale. Nessuna tensione vi è quindi con il diritto dell’Unione
europea con la soluzione qui adottata, essendo pacifica la sussistenza delle
altre due condizioni, cioè l’esistenza di una procedura concorsuale e il
controllo di un’autorità pubblica competente.

11. Con il secondo motivo le ricorrenti si dolgono,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ.,
dell’omesso esame del fatto che nella comunicazione iniziale della procedura di
mobilità del 22 settembre 2014 e relativo “elenco personale abitualmente
impiegato ed in esubero”, tutti i 152 dipendenti (sia quelli
precedentemente trasferiti, sia quelli rimasti in CIGS) venivano indicati quali
appartenenti ai medesimi rami produttivi di pressofusione (unità di
Castelgomberto) e lavorazioni meccaniche (unità di Cornedo Vicentino), fatto in
tesi decisivo al fine di stabilire che la platea dei lavoratori da trasferire
(e licenziare) era data dalla totalità dei 152 lavoratori dipendenti di M. C. e
non era, invece, quella ridotta dei lavoratori precedentemente trasferiti con
l’affitto; sempre ai sensi dell’art. 360, comma 1,
n. 5 cod.proc.civ., dell’omesso esame del fatto che, in occasione della
procedura di vendita del 29 settembre 2014, veniva chiesta la rinuncia ex art. 2112 dei confronti della società acquirente
Industrie M. a tutti i lavoratori non trasferiti, comprese le ricorrenti, fatto
decisivo al fine di stabilire che la platea dei lavoratori da trasferire era
data dalla totalità dei 152 lavoratori dipendenti di M. C.; ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ. della
violazione dell’art. 111 della Costituzione con
riferimento alla “manifesta ed irriducibile” contraddittorietà della
motivazione in relazione alle questioni della rispondenza della scelta dei
lavoratori da trasferire ad un’obiettiva esigenza organizzativa e produttiva
manifestata dall’acquirente e al rispetto dei criteri di correttezza e buona
fede.

12. A parte l’evidente mancanza di decisività, alla
luce delle considerazioni svolte in occasione dell’esame del primo motivo di
ricorso, delle circostanze di fatto di cui si lamenta l’omesso esame, Il motivo
è inammissibile a tal riguardo poiché, secondo l’orientamento già espresso da
questa Corte ed al quale si intende dare seguito, nell’ipotesi di “doppia
conforme” prevista dal quinto comma dell’art.
348 ter cod. proc. civ., inserito dall’art. 54, comma 1, lett. a) del d.l.
22.6.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7.8.2012, n. 134, applicabile ratione
temporis, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo
di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.,
deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e
quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che
esse sono tra loro diverse (Cass. n. 10897 del
2018, Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014). Tale dimostrazione
è del tutto assente nel ricorso.

13. Quanto ai profili di doglianza con i quali, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 (e non
numero 4) si denuncia una violazione dell’art. 111
della Costituzione, così prospettando l’esistenza di una motivazione
inferiore al “minimo costituzionale”, perché omessa, in relazione alle
questioni della rispondenza della scelta dei lavoratori da trasferire ad
un’obiettiva esigenza organizzativa e produttiva manifestata dall’acquirente e
al rispetto dei criteri di correttezza e buona fede, essi sono inconferenti,
perché sui punti litigiosi la sentenza impugnata offre una motivazione
coerente, come si è già osservato (v. par. 7).

14. Il motivo è quindi complessivamente da
rigettare.

15. Con il terzo motivo le ricorrenti lamentano la
violazione dell’art. 4, comma 9,
L. n. 92 del 2012 (rectius, l. n. 223 del 1991)
con riferimento alla questione della “puntuale indicazione delle modalità
con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5” nella
comunicazione finale della procedura di mobilità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.

16. Il motivo è infondato. È corretta l’affermazione
della sentenza impugnata secondo cui, trattandosi di licenziamento per
cessazione di attività, ogni questione relativa alla platea dei dipendenti
nell’ambito dei quali occorresse scegliere doveva considerarsi superata, non
potendo sussistere criteri di scelta a fronte della necessità di licenziare
tutti i dipendenti, dopo la cessione dei due rami di azienda e la constatata
impossibilità di proseguire l’attività, per cui nessun difetto o vizio poteva
essere imputato alla comunicazione finale che, in ragione della necessità di
licenziare tutti i dipendenti, non richiedeva indicazioni circa l’applicazione
di criteri di scelta, necessariamente non sussistenti.

17. Alla luce delle considerazioni che precedono il
ricorso va complessivamente rigettato.

18. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

19. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al
pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in
favore di ciascuna società controricorrente in euro 200,00 per esborsi, euro
3.500,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 dicembre 2019, n. 31946
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