Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 gennaio 2020, n. 987

Mansioni di contabilità e biblioteca, Contratto triennale,
Rinnovo a tempo indeterminato, Sttoscrizione di un contratto a tempo
indeterminato regolato dalla legge italiana, Conversione del contratto in
precedenza stipulato secondo la legge cinese, Uniforme determinazione della
retribuzione annua

Rilevato

 

1. Che P.L. adiva il Tribunale di Roma, nei
confronti del Ministero degli affari esteri (MAE), premettendo di aver
stipulato con l’Istituto italiano di cultura a Pechino, in data 14 dicembre
1994, un contratto triennale, regolato dalla legge locale, per svolgere
mansioni di concetto, prevalentemente di contabilità e biblioteca. Il contratto
veniva approvato con decreto del 31 luglio 1995, e il rapporto di lavoro aveva
inizio nel settembre 1995.

Tale contratto veniva rinnovato a tempo
indeterminato con successivo contratto, approvato con decreto del 12 maggio
1998, con decorrenza dal 27 settembre 1998.

In data 31 ottobre 2000 essa lavoratrice optava per
la sottoscrizione di un contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge
italiana, ai sensi del decreto legislativo n. 103
del 2000. In data 11 maggio 2001 stipulava il contratto individuale di
lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 12 maggio 2001.

2. Tanto premesso, la L. chiedeva che il contratto a
tempo indeterminato stipulato in ragione dell’opzione prevista dal dlgs. n. 103 del 2000 fosse inteso come conversione
del contratto in precedenza stipulato secondo la legge cinese, sia ai fini del
trattamento economico, sia ai fini del trattamento inerente la cessazione dal
servizio, nonché delle quote per aggiunta di famiglia nella misura del 15%
sugli stipendi spettanti dal 14 maggio 2002 in poi.

La L. aveva dedotto, inoltre, di percepire una
retribuzione inferiore a quella di altra dipendente che svolgeva analoghe
mansioni, in violazione dell’art.
157 del dPR n. 18 del 1967, chiedendo, pertanto, la giusta retribuzione,
con il trattamento di famiglia in quota percentuale.

3. Il Tribunale accoglieva solo la domanda relativa
alla uniforme determinazione della retribuzione annua, facendo applicazione
dell’art. 157, terzo comma, del
dPR n. 18 del 1967, che aveva contenute analogo all’art. 45 del d.lgs. n. 165 del
2001.

Rigettava, invece, le domande aventi ad oggetto a
conversione del contratto, in quanto era intervenuta novazione, e la quota
famiglia, perché l’art. 162,
comma 5, del dPR n. 18 del 1967, era stato abrogato dall’art. 3 del d.lgs. n. 103 del 2000.

4. la Corte d’Appello di Roma ha accolto appello
principale proposto dal MAE avverso la suddetta sentenza, e ha rigettato
l’appello incidentale proposto dalla lavoratrice medesima.

La Corte d’Appello, pertanto, ha rigettato la
domanda proposta con il ricorso introduttivo del giudizio dalla L..

5. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre la lavoratrice prospettando quattro motivi di impugnazione.

6. Resiste il MAE con controricorso.

7. In prossimità dell’adunanza camerale la
lavoratrice ha depositato memoria.

 

Considerato

 

1. Che con il primo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1239,
1231, 2120, 2697, cod. artt. 112
e 115, cod. proc. civ., dell’art. 2, comma 5, del dlgs. n. 103
del 2000, tutti in relazione all’art. 360, n.
3, cod. proc. civ.

Assume la ricorrente che l’avvenuta assunzione che
il contratto stipulato a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana,
senza immissione nei ruoli del Ministero, in particolare tenendo conto dell’art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 103
del 2000, non dava luogo alla novazione del precedente contratto, come
affermato dalla Corte d’Appello.

Inoltre, il contratto individuale di lavoro aveva
previsto la liquidazione degli effetti economici del precedente rapporto di
lavoro, ma “se e per quanto previsto”, né l’Amministrazione aveva
provato che era intervenuta la corresponsione dell’indennità di fine rapporto.

All’esito dell’esercizio del diritto di opzione, si
era realizzata solo una mera conversione-trasformazione del contratto già
stipulato in precedenza, senza alcuna soluzione di continuità.

1.1. Va premesso che la Corte d’Appello ha affermato
che, dalla lettera della legge e dal testo contrattuale, emergeva che le parti
avevano inteso stipulare un nuovo contratto, in soluzione di continuità con il
precedente contratto.

Il giudice di secondo grado ha richiamato il testo
dell’art. 5 (recte: art. 2, comma
5) del d.lgs. n. 103 del 2000, ponendo in evidenza come, nello stesso, il
contratto a tempo indeterminato, regolato dalla legge italiana, veniva indicato
come nuovo contratto.

Rileva che nel contratto individuale si dava atto
che il precedente contratto, del settembre 1995, era liquidato a tutti gli
effetti giuridici ed economici.

1.2. Il motivo è fondato e va accolto in ragione dei
principi già enunciati da questa Corte con l’ordinanza n. 30239 del 2017, alla
quale si intende dare continuità, e la cui motivazione si richiama ai sensi
dell’art. 118, disp. att. cod. proc. civ., che
ha affermato, in particolare: «nel comma 5 dell’art. 2 non è contenuta alcuna
espressione letterale che consenta di ritenere che il legislatore abbia inteso
escludere in via generale la continuità giuridica del contratto stipulato in
esito all’opzione rispetto a quelli stipulati in precedenza e che abbia inteso
derogare al principio generale di infrazionabilità della anzianità di servizio
ai fini della indennità di fine rapporto, principio che trova fondamento nell’art. 2120 cod. civ., disposizione questa che trova
applicazione nella fattispecie in esame, essendo incontestato che i rapporti
intercorsi tra la ricorrente ed il Ministero prima e dopo l’esercizio del
diritto di opzione furono rapporti di lavoro subordinato» (…) «in assenza di
disposizioni derogatorie del principio di infrazionabilità dell’anzianità di
servizio contenuta nel richiamato art.
2 del d.lgs n. 103 del 2000, deve ritenersi che la sottoscrizione del
contratto a tempo indeterminato, regolato dalla legge italiana, all’esito della
opzione di cui all’art. 2,
comma 5, del richiamato decreto legislativo, non ha comportato alcuna
interruzione giuridica tra il rapporto sorto in virtù di tale contratto e quelli
nati dai contratti a termine stipulati in precedenza, perché i rapporti, pur
sottoposti a disciplina giuridica diversa (legge locale i contratti più remoti,
legge italiana quello a tempo indeterminato stipulato a seguito della opzione),
sono incontestatamente proseguiti senza soluzione fattuale nei confronti della
medesima Amministrazione datrice di lavoro».

1.3. Pertanto, la Corte d’Appello non ha fatto
corretta applicazione dei principi innanzi affermati, in quanto ha interpretato
erroneamente il citato art. 2,
comma 5, del d.lgs. n. 103 del 2000, e ha ritenuto, conseguentemente, in
modo errato, che il contratto sottoscritto in data 11 maggio 2001, nel
prevedere “il precedente rapporto è liquidato a tutti gli effetti
giuridici ed economici (…)”, avrebbe inteso in via consensuale dare vita
ad un rapporto giuridico nuovo e distinto rispetto a quelli sorti dai
precedenti contratti sottoposti alla legge locale, benchè il rapporto di
lavoro, in modo significativo, fosse proseguito senza soluzione fattuale nei
confronti della medesima Amministrazione datrice di lavoro.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione degli artt. 2934,
2935, 2948, n.
4, e 2697, cod. civ., degli artt. 112 e 115, cod.
proc. civ., dell’art. 111 Cost., tutti in
riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

È censurata la statuizione che ha ritenuto
prescritti i crediti maturati a far data dal quinquennio precedente il deposito
de tentativo di concilazione.

La Corte d’Appello rilevava che i crediti in
questione potevano essere fatti valere sin dal momento in cui ebbe effetto il
contratto di lavoro regolato dalla legge italiana, a seguito dell’esercizio del
diritto di opzione (12 maggio 2001).

Assume la ricorrente che la misura della
retribuzione degli altri colleghi era rimasta sconosciuta fino alla data di
presa visione del messaggio prot. n. 032/14013 dell’11 marzo 2003, pervenuto
all’ambasciata di Pechino il 13 giugno 2003, di cui aveva appreso il contenuto
solo poche settimane prima del deposito del tentativo di conciliazione.
Spettava pertanto al Ministero dimostrare la ricezione di detta comunicazione
da parte della lavoratrice.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Come si può rilevare, il motivo di ricorso si
incentra sul messaggio prot. n. 032/14013 dell’11 marzo 2003, atteso che la
lavoratrice deduce che solo in ragione della conoscenza del contenuto de lo
stesso, aveva rilevato di essere destinataria di un trattamento retributivo
inferiore rispetto a quello dei colleghi, non essendo a ciò sufficiente il
contratto individuale.

Tuttavia, tale documento non è né riprodotto ne
contenuto, né allegato al ricorso indicandone la sede di rituale produzione nel
giudizio.

Pertanto, la censura è inammissibile ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ.,
novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006 (cfr.,
Cass., n. 19048 del 2016).

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione degli artt. 157, commi 1 e 3, del dPR n.
18 del 1967, dell’art.
45, commi 1, 2 e 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 7 dell’Accordo
per il personale assunto a tempo indeterminato presso le rappresentanze
italiane all’estero del 12 aprile 2001, dell’art.
2697 cod. civ., degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., dell’art. 3, 36 e 97, Cost., in riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

È censurata la statuizione del giudice di appello
che ha ravvisato nel comma 1 dell’art. 157 del dPR n. 18 del 1967,
e non nel comma 3, la norma di riferimento della fattispecie in esame,
affermando di conseguenza che, in ragione del contenuto precettivo della
stessa, sarebbe stato preciso onere della lavoratrice appellata allegare
concreti elementi di fatto, e poi provarli, relativamente all’inadeguatezza
della retribuzione erogatale in riferimento ai criteri previsti, onere che
nella specie non, sarebbe stato ottemperato.

Ed infatti, assume la ricorrente la norma richiamata
dal giudice di appello attiene agli elementi accessori del personale MAE che
presta temporaneamente servizio all’estero, mentre nella vicenda in esame viene
in rilievo la retribuzione base del personale assunto in loco, con contratto di
lavoro a tempo indeterminato, per svolgere servizio istituzionalmente, e
soltanto, in una specifica sede diplomatica e consolare dell’Amministrazione.

Pertanto, occorreva far riferimento ai principi di
cu all’art. 45, commi 1 e
2, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Inoltre, dagli atti di causa emergeva che, a pari:à
di incarico e mansioni, la retribuzione base annua della ricorrente era
inferiore a quella di altra collega, che costituiva parametro di riferimento,
risultando così provato l’assunto di essa lavoratrice.

Dunque, doveva trovare applicazione l’art. 157, comma 3, del d.P.R. n.
18 del 1967, secondo cui la retribuzione annua è determinata in modo
uniforme per Paese e per mansioni omogenee.

In base ai principi che regolano l’onere della
prova, spettava al datore di lavoro dimostrare l’avvenuto adempimento della
corresponsione del giusto trattamento economico.

D’altro canto, l’applicabilità al pubblico impiego
del diritto a ricevere una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro
prestato è stata affermata con riguardo alle mansioni superiori, e prova
riscontro in numerosi atti sovranazionali e internazionali, quali la
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la Convenzione
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il Patto Internazionale relativo
ai Diritti economici, sociali e culturali, la Carta Sociale Europea.

Infine, non poteva condividersi l’affermazione della
Corte d’Appello circa la non adeguatezza della retribuzione base di altra
collega a fungere anche solo da argomento meramente sintomatico dl una
disparità di trattamento, poiché sarebbe stata indicativa di un diverso
contesto giuridico ed economico, in cui vi era il riferimento del trattamento
economico dei contrattisti all’estero alla percentuale minima del 68%
dell’indennità di servizio all’estero corrisposta all’omologo personale di
ruolo in servizio nella stessa sede, stabilito dall’allora vigente art. 162 del d.P.R. n. 18 del 1967.

Tale circostanza, infatti, era stata contestata da
essa lavoratrice e non era stata provata dall’Amministrazione.

3.1. Il motivo non è fondato.

3.2. È corretta la statuizione della sentenza di
appello che ha rigettato la domanda della lavoratrice, ma va integrata la
motivazione ai sensi dell’art. 384, ultimo comma,
cod. proc. civ.

Occorre ricordare che l’art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 103
del 2000, ha stabilito: “Il personale di cittadinanza italiana, in
servizio con contratto a tempo indeterminato, o che ha già avuto almeno un
rinnovo contrattuale, presso gli Istituti italiani di cultura alla data di
entrata in vigore del presente decreto, ha la possibilità di optare, entro sei
mesi dalla stessa data, fra la sottoscrizione di un nuovo contratto a tempo
indeterminato regolato dalla legge italiana e pertanto sottoposto alla
disciplina di cui ai commi 2 e 3, ovvero di un contratto a tempo indeterminato
regolato dalla legge locale e pertanto sottoposto integralmente alle
disposizioni di cui al titolo VI del decreto del
Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18, come modificato dal
presente decreto”.

Il comma 2 del citato art. 2, del d.lgs. n 103 del 2003,
prevede: “I rapporti di impiego del personale di nazionalità italiana che,
alla data di entrata in vigore del presente decreto, é in servizio con
contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana continuano ad
essere disciplinati dalle norme contenute nell’Accordo successivo per il
personale di cui all’articolo 1,
comma 4, terzo alinea, del C.C.N.L. comparto Ministeri del 22 ottobre 1997
e nella successiva contrattazione collettiva applicabile agli impiegati a
contratto”.

Come già affermato dalla sentenza di questa Corte n.
30239 del 2017, il rapporto di lavoro del personale che, come la ricorrente, ha
optato ai sensi dell’art. 2,
comma 5, del d.lgs. n. 103 de 2000, per la sottoscrizione di un nuovo
contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana e, pertanto,
sottoposto alla disciplina di cui ai commi 2 e 3 dello stesso articolo 2, è
regolato dalle norme dell’Accordo successivo relativo al personale del Ministero
degli Affari Esteri di cui all’art.
1, comma 2, del C.C.N.L. del Comparto ministeri del 16 febbraio 1999,
Accordo sottoscritto il 16 aprile 2001.

Dunque la fattispecie in esame non è regolata dall’art. 157 del dPR n. 18 del 1967,
come erroneamente affermato dal a Corte d’Appello, e come prospettato dalla
ricorrente, invocando oltre alla disciplina del comma 3, le fonti
internazionali e sovranazionali a sostegno dell’applicazione del principio di
uniformità, ma dalla disciplina contrattuale.

Occorre rilevare, inoltre, che con riguardo
all’applicazione sia dell’art.
157 del dPR n. 18 del 1967, che dell’art. 2, comma 5, del dlgs. n. 103
del 2000, questa Corte, con la sentenza n. 16755 del 2019, la cui
motivazione si richiama ai sensi dell’art. 118
disp. att. cod. proc. civ., ha affermato che “il personale assunto a
contratto dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli
istituti di cultura, può pretendere una retribuzione diversa e superiore
rispetto a quella pattuita nel contratto individuale solo qualora quest’ultima
non sia conforme ai parametri indicati dall’art. 157 del dPR n. 18 del 1967,
attuativi del precetto di cui all’art. 36 Cost.,
o, per i rapporti assoggettati alla legge italiana, alla contrattazione
collettiva, che in parte a detti parametri rinvia”.

La sentenza da ultimo richiamata (si. v. anche
Cass., n. 18407 del 2019) ha, altresì, statuito che la pretesa del lavoratore
non può, invece, essere fondata sulla circostanza che ad altro dipendente
assegnato alla stessa sede con le medesime mansioni sia stato riconosciute un
trattamento di miglior favore, perché quest’ultima attribuzione potrebbe
essere, in ipotesi, non giustificata, alla luce delle previsioni della legge e
della contrattazione collettiva, ed in tal caso la stessa, in quanto priva di
fondamento normativo, non potrebbe mai essere assunta a parametro ai fini della
quantificazione della “giusta” retribuzione.

3.3. Nella specie, la ricorrente, oltre a non aver
posto a fondamento della domanda la errata applicazione delle disposizioni
contrattuali, non ha comunque considerato che l’art. 157, terzo comma, del dPR n.
18 del 1967, indica un criterio tendenziale di omogeneità per le divierse
istituzioni operanti nella medesima realtà territoriale, ossia rappresentanza
diplomatica, uffici consolari, istituti di cultura, e detta finalità, si
riferisce principalmente agli uffici e solo in via indiretta al persona e, come
è reso evidente dalla seconda parte della disposizione, applicabile
nell’ipotesi in cui nel medesimo Paese si riscontrino diversità significative,
quanto al costo della vita, nelle diverse zone territoriali (citata Cass., n.
16755 del 2019).

Ciò, anche tenuto conto che “il principio di
pari trattamento di cui all’art.
45 del d.lgs. n. 165 del 2001 vieta trattamenti individuali migliorativi o
peggiorativi rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva, ma non
costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede,
dato che il legislatore ha lasciato piena autonomia alle parti sociali di
prevedere trattamenti differenziati in funzione dei diversi percorsi formativi,
delle specifiche esperienze maturate e delle diverse carriere
professionali” (in tal senso Cass. n. 6553 del 2019, e la giurisprudenza
ivi richiamata).

Pertanto è priva di fondamento la pretesa della
ricorrente di vedere parificato il trattamento retributivo a quello riservato
ad altri) dipendente, di pari qualifica e mansioni, assegnata alla stessa sede
di servizio.

3.4. Infine – in relazione alla censura relativa al
rilievo che, nel richiamare il raccordo del trattamento retributivo con le percentuali
riferite all’indennità ISE, sarebbe stato attribuito dalla Corte d’Appello all’art. 162 del dPR n. 18 del 1967,
quale disciplina che ratione temporis avrebbe escluso disparità di trattamento
– rileva il collegio che (si v., Cass., n. 11416 del 2017) gli automatismi
retributivi previsti dall’art.
162 del dPR n. 18 del 1967 sono stati eliminati a seguito dell’intervento
dell’art. 3 del d.lgs. n. 103 del
2000, atteso che la prima di tali norme non è stata riprodotta nella
novella introdotta dal predetto d.lgs.

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione dell’art. 157, terzo comma, del dPR n.
18 del 1967, e dell’art. 112 del cod. proc. civ.,
in relazione all’art. 360, n. 4 , cod. proc. civ.

La sentenza di Appello è sottoposta a censura per
non avere applicato l’art. 157,
comma 3, del dPR n. 18 del 1967, norma applicata dal Tribunale.

Benchè la mancata applicazione di tale norma aveva
costituito oggetto dei motivi di gravame, la Corte d’Appello aveva omesso di
pronunciarsi in merito.

4.1. Il motivo non è fondato, in ragione delle
considerazioni già svolte nella trattazione del terzo motivo di ricorso in
riferimento alla disciplina applicabile alla fattispecie in esame.

5. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso,
dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo ed il
quarto motivo di ricorso.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello
di Roma in diversa composizione.

6. Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, la
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara
inammissibile il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo ed il quarto
motivo di ricorso.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello
di Roma in diversa composizione.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

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