Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 febbraio 2020, n. 3470

Autorizzazione ai versamenti volontari Inps, Revoca, Verbale
di conciliazione sottoscritto dall’assicurato con il datore di lavoro,
Risoluzione del rapporto di lavoro antecedente l’entrata in vigore del D.L. 201/2011, Clausola di salvaguardia,
Giudicato esterno è rilevabile in sede di legittimità

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 21.5.2014, la Corte
d’appello di Ancona ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva
dichiarato la legittimità dell’autorizzazione ai versamenti volontari concessa
dall’INPS all’ing. S.B. e il diritto di costui ad essere incluso tra i soggetti
beneficiari della deroga di cui all’art. 24, comma 14, d.l. n. 201/2011
(conv. con I. n. 214/2011) ai fini del
conseguimento del trattamento pensionistico.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che dal
verbale di conciliazione sottoscritto dall’assicurato con l’allora suo datore
di lavoro, con il quale si era convenuta la risoluzione consensuale del
rapporto di lavoro previo collocamento in aspettativa non retribuita fino al
30.9.2012, potesse in realtà evincersi la comune volontà delle parti di
considerare il rapporto cessato prima dell’anzidetta data, e segnatamente prima
dell’entrata in vigore del d.l. n. 201/2011,
che aveva fatto salve, ai fini del mantenimento del precedente regime
pensionistico, le autorizzazioni ai versamenti volontari già concesse, con la
conseguenza che malamente l’INPS aveva ritenuto di poter revocare
l’autorizzazione al versamento dei contributi volontari sulla base della mera
indicazione della data della cessazione apposta sul verbale di conciliazione,
da ritenersi viceversa pattuizione inter partes preordinata a consentire al
lavoratore di fruire dei benefici previdenziali del fondo aziendale e, come
tale, priva di effetti nei confronti dell’ente previdenziale.

Ricorre contro tali statuizioni l’INPS, deducendo
due motivi di censura. S.B. ha resistito con controricorso, illustrato con
memoria, eccependo tra l’altro l’inammissibilità del ricorso per intervenuta
acquiescenza dell’INPS alla statuizione di merito, e ha depositato sentenza del
Tribunale di Ascoli del 30.3.2015, passata in cosa giudicata, che – muovendo
dai medesimi presupposti di fatto accertati nel giudizio culminato con la
sentenza oggi qui impugnata – ha riconosciuto all’odierno controricorrente il
diritto alla pensione di anzianità a decorrere dal 1°.10.2013, condannando
l’INPS a versargli i ratei maturati e non riscossi.

 

Ragioni della decisione

 

Ritiene il Collegio che preliminare allo scrutinio
dei motivi di ricorso, con i quali l’INPS denuncia l’erroneità dell’interpretazione
del verbale di conciliazione precorso tra l’odierno controricorrente e il suo
datore di lavoro e della consequenziale attribuzione al controricorrente
medesimo della qualità di beneficiario della clausola di salvaguardia di cui
all’art. 24, comma 14, d.l. n.
201/2011 (conv. con I. n. 214/2011), sia
l’esame delle eccezioni di inammissibilità proposte nel controricorso,
riguardanti anzitutto la presunta acquiescenza prestata dall’Istituto nei
confronti della sentenza impugnata e, in secondo luogo, il sopraggiunto
giudicato esterno costituito dalla sentenza del Tribunale di Ascoli citata in
narrativa.

La prima delle due eccezioni è infondata:
costituisce infatti orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa
Corte il principio secondo cui l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva
dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c.,
consiste nell’accettazione della sentenza, ovverossia nella manifestazione da
parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale, per
configurarsi in forma tacita, presuppone che l’interessato abbia posto in
essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il
proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, ciò che non
può dirsi della spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole
alla controparte, anche quando la riserva d’impugnazione non le venga resa
nota, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla
mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei
successivi atti di esecuzione (così, tra le tante, Cass. nn. 8537 del 2012, 698
del 2013).

E’ invece fondata l’eccezione di inammissibilità per
sopravvenuto giudicato.

Premesso al riguardo che il giudicato esterno è
rilevabile in sede di legittimità anche quando si sia formato successivamente
alla sentenza impugnata, trattandosi della regula iuris che, essendo destinata
a conformare con carattere di stabilità il caso concreto, incide sullo stesso
interesse delle parti alla decisione, con la conseguenza che i documenti che ne
attestano la sussistenza rientrano nel novero di quelli producibili ex art. 372 c.p.c. (Cass.
S.U. n. 13916 del 2006), e che, essendo il giudicato assimilabile agli
elementi normativi, il giudice di legittimità può direttamente accertarne
l’esistenza e la portata con cognizione piena, tenendo conto che la sua
interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e
non già degli atti e dei negozi giuridici (Cass. n. 21200 del 2009), deve
rilevarsi che la sentenza del Tribunale di Ascoli del 30.3.2015, passata in
cosa giudicata, muovendo precisamente dai medesimi presupposti di fatto
accertati nel giudizio culminato con la sentenza oggi qui impugnata, peraltro
espressamente citata nella parte motiva, ha riconosciuto all’odierno
controricorrente il diritto alla pensione di anzianità a decorrere dal
1°.10.2013, condannando l’INPS a versargli i ratei maturati e non riscossi. Ed
essendo ormai consolidato il principio di diritto secondo cui, qualora due
giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico
e uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato,
l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla
soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale
comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della
statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello
stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio
abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum
del primo (cfr. fra le tante Cass. nn. 8650 del 2010, 25269 del 2016, 26704 del 2018), le censure
dell’INPS risultano senz’altro inammissibili.

Le spese del giudizio di legittimità vanno
compensate tra le parti in ragione della sopravvenienza della causa
d’inammissibilità del ricorso per cassazione. E per il medesimo motivo, deve
escludersi che l’INPS sia tenuto al pagamento della somma di cui all’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, I. n. 228/2012),
che pone a carico del ricorrente rimasto soccombente l’obbligo di versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato, giacché, come chiarito da
questa Corte di legittimità, risiedendo la ratio della norma nella finalità di
scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, il meccanismo
sanzionatorio da essa previsto ha ragion d’essere per i casi di inammissibilità
originaria del gravame, non anche per quelli di inammissibilità sopravvenuta
(Cass. n. 13636 del 2015 e succ. conf.), quale deve ritenersi il giudicato
esterno intervenuto successivamente alla proposizione del ricorso, che,
precludendone l’esame, determina il venir meno dell’interesse ad impugnare
(cfr. in tal senso Cass. n. 1829 del 2007).

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Compensa le
spese.

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