Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 marzo 2020, n. 6436

Retribuzioni maturate e non percepite, Pagamento, Contratto
di cessione di un ramo di azienda, Illegittimità

 

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza
n. 590 del 2014, ha confermato la pronuncia di primo grado che, in sede di
opposizione ex art. 645 cpc, rimodulando i
crediti azionati in via monitoria per il pagamento delle retribuzioni maturate
e non percepite per il periodo 1.3.2003 – 31.3.2012, aveva condannato T.I. spa
alla corresponsione, in favore di P.L., della somma di euro 3.267,56
(commisurata ai solo mesi di febbraio – marzo 2012, considerando che nel
periodo residuo egli aveva lavorato presso la cessionaria CEVA percependo
congrua retribuzione), in favore di S.L. della somma di euro 127.708,85
(dovendosi sottrarre il solo periodo lavorato con congrua retribuzione presso
T. dal marzo 2003 al dicembre 2005), in favore di P.M. della somma di euro
116.058,25 (considerato che era stato occupato presso T. fino al 6.8.2004 con
congrua retribuzione e incentivo all’esodo e riconoscendogli una somma P. allo
stipendio mensile dal periodo 2006 – aprile 2011, epoca in cui era avvenuto il
pensionamento).

2. La Corte territoriale ha premesso che, con
precedente sentenza del 2012, successivamente passata in cosa giudicato, era
stata dichiarata l’inefficacia del contratto di cessione di un ramo di azienda
ex art. 2112 cc nel trasferimento, a decorrere
dal 1° marzo 2003, da T.I. spa a T.L.I. spa (poi C.L.I. srl) della struttura
logistica denominata “D.W. – A. – L.” e che tale trasferimento non
aveva determinato il passaggio dei ricorrenti alle dipendenze della società
cessionaria, con conseguente permanenza del loro rapporto di lavoro con la
società cedente.

3. La Corte di merito ha rilevato che: 1) la
dichiarazione giudiziale circa l’insussistenza di una valida cessione di
azienda comportava il mero accertamento che l’originario rapporto di lavoro non
era mai venuto meno, con obbligo del cedente di ripristinare la continuità
contributiva e retributiva del rapporto stesso che non aveva mai subito
interruzioni; 2) era documentato che i tre lavoratori avevano coltivato il
giudizio fino alla pronuncia del giudicato, relativamente al giudizio di
cessione, offrendo di svolgere anche mansioni differenti rispetto al passato
con lettera ar del 22.5.2003; 3) non era quindi appropriata la tematica
dell’aliunde perceptum alla fattispecie in cui il lavoratore era stato estromesso
dal posto di lavoro ferma restando la continuità giuridica del rapporto; 4) la
indennità di mobilità non costituiva il corrispettivo di una prestazione
lavorativa e, inoltre, avendo natura previdenziale, nel caso di ripristino del
rapporto andava restituita all’ente previdenziale; 5) la circostanza che i
dipendenti P. e S. avessero sottoscritto un accordo conciliativo con T.L. non
significava che essi avessero rinunciato alla loro pretesa nei confronti di
T.I. spa; 6) andava applicato il principio di diritto stabilito in analoga
controversia dalla sentenza di legittimità n. 13617/2014.

4. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto
ricorso per la cassazione T.I. spa affidato a tre motivi, cui hanno resistito
con controricorso L.P., L. S. e M.P.

5. Nelle more è stato depositato verbale di
conciliazione, in data 19.6.2019, tra L.P. e la società ricorrente.

6. Le parti hanno depositato memorie.

7. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.

 

Considerato che

 

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 1223, 1256, 1463, 2112 e 2126, in
relazione all’art. 360 n. 3 cpc, per non avere
la Corte territoriale considerato che, avendo i lavoratori P. e S. accettato la
messa in mobilità da parte di T. a seguito di verbale di conciliazione, per effetto
del quale avevano percepito anche un incentivo all’esodo, le loro pretese
riguardanti il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro con T.
erano infondate perché era venuto meno l’unico rapporto di lavoro che essi
avevano all’epoca: rapporto che non poteva essere poi ricostituito per effetto
di una sentenza che aveva accertato la illegittimità della cessione del ramo di
azienda.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1208, 1217 e 1223 cc, in
relazione all’art. 360 n. 3 cpc, per non avere
rilevato la Corte di merito la invalidità della costituzione in mora dei
dipendenti nei confronti della cedente T.I. spa in quanto gli stessi non
potevano svolgere alcuna attività di lavoro presso terzi in quanto collocati in
mobilità durante la quale pacificamente percepivano i trattamenti di legge.

4. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta, in via
subordinata, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 cc,
in relazione all’art. 360 n. 3 cpc, per non
avere la Corte di appello detratto, a titolo di aliunde perceptum, quanto
percepito dai dipendenti a titolo di mobilità.

5. Preliminarmente, va dichiarato estinto il
processo, limitatamente al rapporto processuale tra la società ricorrente e
P.L., essendovi stata, al punto 7 del verbale di conciliazione del 19.6.2019 in
atti, rinunzia al presente giudizio con relativa accettazione.
Conseguentemente, ai sensi dell’art. 391 cpc,
nulla va disposto in ordine alle spese di giudizio relativamente a dette parti.

6. Il primo motivo non è fondato.

7. Invero, si è affermato, in sede di legittimità,
che “accertata la nullità della cessione del rapporto, il rapporto con il
cessionario è instaurato in via di mero fatto e le vicende risolutive dello
stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere,
rimasto in vita con il solo cedente” (cfr. Cass. n. 5998 del 2018; Cass.
n. 21160 del 2019).

8. Ne consegue che, nel caso in esame, a differenza
di quanto ritenuto dalla società, la cessazione del rapporto di lavoro
intervenuta con T.L. Italia spa, a seguito di verbale di conciliazione, non può
spiegare alcun effetto con riguardo all’originario rapporto dì lavoro
ripristinato con T.I. spa.

9. Il secondo motivo è P.menti infondato.

10. Quanto alla costituzione in mora, infatti, è da
escludere che la prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo preclude
l’offerta di prestazione all’originario datore (cfr. Cass. n. 9747 del 2019),
atteso che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora, manifestasse
la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di
rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente,
in favore di essa. Lo stesso discorso vale a maggior ragione qualora i
lavoratori siano collocati in mobilità a seguito di procedura richiesta dalla
azienda cessionaria.

11. Infine, anche il terzo motivo non è meritevole
di accoglimento.

12. La questione della natura dei crediti vantati
dai lavoratori per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da
parte di T.I. spa, nonostante la sentenza di accertamento della illegittimità
della cessione del ramo di azienda (cui erano addetti) a T.L.I. spa, con
decorrenza dalla messa in mora, trova soluzione nel senso della natura
retributiva e non più risarcitoria, sulla scorta dell’insegnamento posto
recentemente dalle Sezioni Unite civili di questa Corte (sent. 7 febbraio 2018
n. 2990).

13. A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di
diritto vivente sopravvenuto dalla Corte
Costituzionale, con la sentenza 28 febbraio 2019 n. 29, anche avuto
riguardo alla fattispecie della cessione del ramo di azienda.

14. Pertanto, una volta sancita la natura
retributiva delle somme da erogarsi dal cedente inadempiente al comando
giudiziale ed escluso che la richiesta di pagamento dei lavoratori abbia titolo
risarcitorio, non trova applicazione il principio della “compensalo lucri cum damno”
su cui si fonda la detraibilità “dell’aliunde perceptum” dal risarcimento e,
quindi, di detraibilità dell’indennità di mobilità non è dato parlare (cfr.
Cass. n. 21160/2019).

15. Nella fattispecie, non vi è neanche questione di
efficacia estintiva del pagamento del terzo perché la somma richiesta è
relativa al periodo successivo alla cessazione dei rapporti con la cessionaria.

16. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso, nei
confronti di S. e P., deve pertanto essere rigettato.

17. Al rigetto del ricorso segue la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si
liquidano come da dispositivo.

18. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, sempre
come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara estinto il processo limitatamente alla
posizione di P.L.; rigetta il ricorso nei confronti di S.L. e P.M..

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei
suddetti controricorrenti S. e P., delle spese del presente giudizio di
legittimità che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro
200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

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