Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 marzo 2020, n. 6954

Malattia professionale, Rischio radiogeno da esposizione per
indagini diagnostiche e terapeutiche, Riconoscimento, Evento dannoso e
mansioni lavorative, Giudizio di correlazione causale di ragionevole
probabilità

Rilevato che

 

La Corte d’appello di Milano, con la sentenza n.
566/2018, rinnovata la ctu medico legale in fase di gravame, rigettava
l’appello proposto da S.R. avverso la sentenza che aveva respinto la sua
domanda intesa ad ottenere il riconoscimento di malattia professionale da
rischio radiogeno da esposizione per indagini diagnostiche e terapeutiche con
richiesta di condanna dell’Inail al riconoscimento del grado di invalidità pari
all’85% e la costituzione della rendita nella corrispondente misura. A
fondamento della sentenza, per quanto qui interessa la Corte affermava che
l’asserita natura tabellata della malattia oggetto di causa sulla scorta del D.M. 10/6/2014 andasse esclusa atteso che il D.M.
invocato dall’appellante ha valore conoscitivo epidemiologico con precise
finalità preventive ex art.
139 t.u. 1124/1965 non idoneo a fondare la presunzione di origine
professionale, come per le tabelle previste invece dall’art. 3 del t.u.; sosteneva
inoltre che non sussistesse il nesso di causa sulla scorta della CTU, rinnovata
in fase d’appello, la quale aveva riconosciuto che gli elementi a disposizione
potessero giungere ad un giudizio di correlazione causale di ragionevole
probabilità senza tuttavia raggiungere una correlazione causale in termini di
ragionevole certezza tra evento dannoso e mansioni lavorative del dr. R.,
secondo il grado richiesto per il riconoscimento della natura professionale
della malattia multifattoriale.

Contro la sentenza ha proposto ricorso per
cassazione R. Sebastiano con due motivi, illustrati da memoria; l’INAIL è
rimasto intimato.

È stata comunicata alle parti la proposta del
giudice relatore unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di
consiglio.

 

Considerato che

 

1. – con il primo motivo viene dedotto vizio di
omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione rispetto a un fatto
controverso e decisivo per il giudizio previsto dall’articolo
360, comma 1 n. 5; in quanto la Corte milanese non si è attenuta alle
conclusioni dell’oncologo nominato dal CTU il quale aveva riconosciuto un danno
biologico complessivo attribuibile agli esiti menomativi derivati dai due
tumori attorno alla percentuale del 38%; l’oncologo aveva escluso i fattori di
rischio non professionali relativi al fumo e al consumo di alcool nonché le
infezioni da virus; aveva affermato che dovesse essere tenuta in forte
consideratone, con nesso di causalità assai probante l’esposizione alle
radiazioni ionizzanti con cui il paziente è stato esposto in forza della sua
attività protrattasi anni; rilevando altresì che l’area delle vie aeree-
digestive fosse esclusa dai mezzi di protezione individuale.

2. – Col secondo motivo viene dedotta la mancata
applicazione della regola contenuta nell’articolo
41 c.p.c. dal momento che il rapporto causale tra l’evento e il danno è regolato
dal principio di equivalenza delle condizioni secondo il quale va riconosciuta
efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito anche in maniera
indiretta e remota a determinare l’evento; inoltre la Corte non aveva fatto
applicazione della tutela assicurativa delle malattie professionali tabellate
ai sensi D.M. 10/6/2014 senza che l’Inail
avesse provato la diagnosi differenziale fornendo la prova contraria idonea a
vincere la presunzione legale dal momento che il legislatore ha ammesso
l’elevata probabilità di tumori del sistema emolinfopoietico nella tabella
aggiornata con D.M. 10/6/2014.

3. I motivi di ricorso da esaminare congiuntamente
sono fondati nei termini di seguito indicati.

La Corte d’appello di Milano, in relazione alla
malattia professionale di cui si discute (si tratta della metastasi
laterocervicale, mentre per la neoplasia mammaria il ricorrente – medico
chirurgo specialista esposto a rischio radiogeno del 1970 al 2003 – è già stato
riconosciuto dall’INAIL come affetto da malattia professionale da radiazioni
ionizzanti) ha affermato che la malattia in questione rientri tra quelle
elencate nel D.M. del 2014 (per le quali è fatto
cioè obbligo a qualsiasi medico di inoltrare la denuncia ex art. 139 TU), il quale D.M.
non ha però fini di tabulazione del nesso di causa ma solo fini conoscitivi
epidemiologici. E che, pertanto, sul lavoratore gravasse l’onere della prova
del nesso di causa la quale, versandosi in materia di malattia multifattoriale,
dovesse essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che,
esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa
può essere ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità.

4. – La Corte ha poi rilevato che il CTU nominato in
appello avesse affermato che “gli elementi a disposizione possono giungere ad
un giudizio di correlazione causale di ragionevole probabilità e che, in quanto
tale, permane su un piano prevalentemente presuntivo, sebbene sostenuto da
argomentazioni tecniche, cliniche e medico legali, non trascurabili oltre che,
apparentemente, anche da alcune valutazioni statistiche sopra esposte”. Ed ha
aggiunto che il CTU presa visione delle osservazioni inviate dai consulenti di
parte abbia affermato che “il complesso dei dati emersi rende la correlazione
causale con l’esposizione lavorativa a radiazioni ionizzanti probabile in quanto
sussisteva un rischio lavorativo documentato ed accertato, sono stati esclusi
altri fattori di rischio neoplastici, vi era coesistenza di altra patologia
neoplastica radio indotta il che rendeva maggiormente probabile (nel complesso)
la derivazione di entrambe da radiazioni”.

5. Ciò posto ritiene il collegio che la decisione
della Corte non si sottragga alla censure sollevate con il ricorso. Ed invero,
va ricordato che, in materia di nesso causale (su cui v. da ultimo Cass. nn. 27952/2018, 8773/2018,
23653/2018, 6105/2015), l’ordinamento è
ispirato al principio di equivalenza delle cause (artt.
40 e 41 c.p.); per cui, al fine di
ricostruire il nesso, occorre tener conto di qualsiasi fattore, anche
indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico, che abbia
concretamente cooperato a creare nel soggetto una situazione tale da favorire
comunque l’azione dannosa di altri fattori o ad aggravarne gli effetti, senza
che possa riconoscersi rilevanza causale esclusiva soltanto ad uno dei fattori
patologici che abbiano operato nella serie causale.

6. – Negli stessi termini va quindi identificato
l’onere della prova posto a carico del lavoratore in materia di malattie non
tabellate e di malattie multifattoriali; pertanto, una volta che sia stato
provato l’intervento di un fattore dotato di rilevanza causale, anche soltanto
di natura concorsuale, nei termini sopra indicati, il nesso causale richiesto
dalla legge può essere escluso solo qualora possa ritenersi con certezza che
l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa sia stato di per sé
sufficiente a produrre l’infermità (Cass. 26 marzo
2015 n. 6105; Cass. 11 novembre 2014 n. 23990);
mentre, per contro, va negato che la modesta efficacia del fattore
professionale sia sufficiente ad escludere l’operatività del principio di
equivalenza causale (Cass. 12 ottobre 1987 n. 7551, Cass. 8 ottobre 2007 n.
21021). Pertanto anche la predisposizione morbosa o il concorso dei fattori di
diversa natura non esclude il nesso causale tra evento infortunistico e danno
biologico, in relazione al principio di equivalenza causale di cui all’articolo 41 codice penale che trova applicazione
della materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con la
conseguenza che un ruolo di concausa va attribuito anche ad una minima
accelerazione di una pregressa malattia, salvo che questa sia sopravvenuta in
modo del tutto indipendente dal fattore professionale concorrente ( tra le
tante Cass. 8165/2001 in tema di artrosi diffusa del rachide cervicale).

7. – Il principio di cui sopra, che attiene al
criterio identificativo del nesso causale ed al principio di equivalenza, si
applica perciò anche alle malattie multifattoriali, tabellate (per le quali in
prima battuta vale però la presunzione di origine professionale, salvo la prova
a carico dell’INAIL dell’intervento di un fattore esclusivo di origine non
professionale, su cui Cass. 21 novembre 2016 n.
23653); o non tabellate – una volta che il lavoratore abbia assolto il
proprio onere probatorio nei termini di cui sopra- e di cui la scienza medica
abbia accertato l’origine professionale.

8. – Tanto premesso, è vero che, come afferma la
sentenza in esame, trattandosi di malattie non tabellate e multifattoriali, il
nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da
ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di concreta e specifica
dimostrazione – quanto meno in via di probabilità – anche in relazione alla
concreta esposizione al rischio ambientale e alla sua idoneità causale alla
determinazione dell’evento morboso. Ed è pure esatta l’affermazione che ai
medesimi fini è sempre il lavoratore (o il suo familiare superstite) a dover
provare l’esposizione al rischio ed il nesso di causa (ex art. 2697 c.c.).

9. – Tuttavia non è vero che in materia di malattia
multifattoriale, il nesso causale con l’attività lavorativa non possa essere lo
stesso identificato, dovendo soltanto il giudice procedere agli accertamenti
del caso concreto rispettando i criteri sopraindicati, ricavati in base alla
giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. Cass. S.U. penali 30328/2002 e
Cass. S.U. civili n.581/2008). I quali confermano che, anche dinanzi
all’eventuale intreccio dei fattori causali, il giudice (nel rispetto delle
diverse regole probatorie vigenti nei vari settori dell’ordinamento) possa
pervenire lo stesso all’identificazione del nesso causale. La nostra
giurisprudenza (Sezioni Un. sopra cit.), infatti, ha rifiutato un approccio
rigidamente deterministico al tema causale ed ha ribadito che non è
indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta, una connessione
immancabile, tra i due termini del nesso causale; essendo sufficiente allo
scopo una relazione di tipo probabilistico; purché la prova della correlazione
causale tra fatto ed evento attinga, nel singolo caso concreto, non già ad una
qualificata probabilità di tipo quantitativo o statistico, bensì ad un livello
di “alta probabilità logica” (tipica dell’accertamento dei fatti all’interno
del processo), essendo impossibile nella maggior parte dei casi ottenere la
certezza dell’eziologia.

Allo scopo, perché l’evento risulti attribuibile ad
un agente partendo da una indagine epidemiologica o da una legge statistica
(anche con una frequenza medio-bassa) è necessario dimostrare nel singolo caso,
in modo razionalmente controllabile, che senza il comportamento dell’agente,
con un alto grado di probabilità logica, l’evento non si sarebbe verificato
(attraverso l’impiego del c.d. giudizio controfattuale). Occorre, in sostanza,
che le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale (la c.d. legge
scientifica o di copertura) vengano confrontate con le specifiche emergenze
relative al caso concreto, perché si possa restringere lo spettro delle
possibili cause alternative.

10. – Ora, nel caso in esame, il ctu ed il suo
ausiliario oncologo avevano affermato che si potesse pervenire “ad un giudizio
di correlazione causale di ragionevole probabilità” “sostenuto da
argomentazioni tecniche, cliniche e medico legali”, “oltre che da alcune
valutazioni statistiche”; cd avevano accertato un “rischio lavorativo
documentato” e la mancata protezione delle vie aree-digestive; essi avevano
pure escluso fattori alternativi di rischio neoplastici cd individuato la
coesistenza di altra patologia neoplastica radio indotta; arrivando a
sostenere, con un giudizio sintetico finale, che ciò rendesse ‘‘maggiormente
probabile (nel complesso) la derivazione di entrambe da radiazioni’’ ovvero che
dovesse tenersi “in forte considerazione, con nesso di causalità assai probante
l’esposizione alle radiazioni ionizzanti”.

11. – Pertanto, lungi dall’individuare un legame
causale con l’attività lavorativa solo in termini ipotetici o meramente presuntivi,
i predetti ausiliari avevano bensì individuato, anzitutto, la legge causale di
copertura generale, che correla la specifica malattia all’attività
professionale pericolosa, anche sul piano scientifico epidemiologico (tanto da
essere compresa nella tabella ex art. 139 T.U. che individua
le attività che con elevata probabilità possono cagionare una specifica
malattia; sul valore di tale tabella v. Cass.
n.8416/2018 ); hanno quindi confrontato la regola generale con le
specificità del caso concreto; arrivando a fornire una spiegazione del nesso
causale in termini di probabilità logica anche in relazione all’esclusione
dell’intervento di fattori alternativi e della presenza di elementi
individualizzanti rafforzativi. La sentenza impugnata, invece, violando i
principi sopra richiamati (sia quello dell’onere della prova; sia il criterio
legale su cui si fonda la nozione del nesso di causalità ex art. 40 e 41 c.p.)
si è attestata su un giudizio di rilevante probabilità astratta, del tutto
avulsa dalle emergenze del caso concreto e dalla logica del processo.

12. – In conclusione, deve ritenersi che la sentenza
impugnata si ponga in difformità dell’orientamento di legittimità cui questo
collegio intende dare continuità (Cass. n.
13954/2014, Cass. 23653/2016),
orientamento che riconosce l’esistenza del nesso di causa anche nelle malattie
professionali ad eziologia multifattoriale purché (quando non tabellate) siano
rispettati i principi di equivalenza delle condizioni e di alta probabilità
logica rispetto al singolo caso concreto (Cass.
nn. 27952/2018, 5066/2018, 23653/2018, 6105/2015).

13. – Per le ragioni fin qui espresse il ricorso va
accolto; la sentenza impugnata che non si è attenuta ai p re fati principi deve
essere quindi cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa
composizione, la quale si atterrà ai principi di diritto individuati ai punti
5-9 della presente decisione.

14. – Ai sensi dell’art.
384 c.p.c. la stessa Corte d’appello provvederà anche sulle spese del
giudizio di legittimità. Avuto riguardo all’esito del giudizio non sussistono i
presupposti di cui all’art. 13,
comma 1 quater, dpr n. 115/2002.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, anche per le
spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13 , comma 1 quater del dpr n.
115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1
bis , dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 marzo 2020, n. 6954
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