Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 giugno 2020, n. 12632

Assenza di dotazione dei dispositivi di controllo,
Risarcimento del danno patrimoniale e non, Menomazione della capacità di
lavoro, Postumi permanenti incompatibili con l’attività svolta
dall’infortunato, ma non con altre tipologie di lavoro confacenti, Mancanza di
motivazione nella sentenza, Causa di nullità, Casi di radicale carenza della
motivazione, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a
rivelare la “ratio decidendi”, Non sussiste

 

Fatti di causa

 

Con ricorso 22/11/2010 E.L. conveniva in giudizio la
C.E.A. s.r.l. innanzi al Tribunale di Chieti onde conseguire pronuncia di
condanna della società datoriale al risarcimento del danno – patrimoniale e non
patrimoniale – risentito per effetto dell’infortunio occorsogli in data
14/9/2004. Nell’espletare le mansioni a lui ascritte, era infatti salito su di
un traliccio E. – in assenza del compimento della preventiva doverosa
operazione di richiesta di distacco della corrente elettrica da parte del capo
squadra ed in assenza di dotazione dei dispositivi di controllo – rimanendo
così folgorato.

Costituitesi in giudizio, la C.E.A. s.r.l. e la
R.S.A. S.I. Itd dalla prima chiamata in causa, contestavano il fondamento della
domanda chiedendone il rigetto.

Il primo giudice, in accoglimento delle domande
attoree, liquidava in favore del ricorrente, la somma di euro 72.118,87 a
titolo di danno non patrimoniale, e di euro 236.421,43 a titolo di danno
patrimoniale, condannando in solido fra loro la CEA s.r.l. e la Società R.S.A.
al pagamento delle spese di lite nella misura di euro 27.022,5.

Adita dalla C.E.A. s.r.l. e dalla società R.S.A. con
distinti ricorsi in appello successivamente riuniti, la Corte distrettuale, in
parziale riforma di tale pronuncia, confermata nel resto, condannava la parte
datoriale al pagamento della somma di euro 84.395,84 a titolo di danno
patrimoniale, nonché alla rifusione delle spese di prime cure in favore del
lavoratore che liquidava in euro 12.750,00, compensando integralmente quelle
del giudizio di gravame.

Nel pervenire a tale convincimento, la Corte
distrettuale osservava che la liquidazione del danno patrimoniale derivante
dalla menomazione della capacità di lavoro specifica, ritenuta ridotta dal giudice
di prime cure nella misura del 100%, andava ridimensionata. L’ausiliare
nominato nel pregresso grado di giudizio, aveva infatti acclarato che i postumi
permanenti riportati dal dipendente erano incompatibili con l’attività svolta
dall’infortunato, di operatore addetto al montaggio di cabine secondarie e
posti di trasformazione su palo; ma gli stessi erano invece compatibili con
altre tipologie di lavoro confacenti con le attitudini personali del
lavoratore, tenuto conto dell’età, del sesso, del titolo di studio posseduto e
della pregressa esperienza lavorativa, sia pure con alcune limitazioni.

La Corte di merito procedeva, quindi, alla rinnovata
liquidazione del risarcimento del danno permanente alla capacità lavorativa
specifica da lucro cessante, secondo i meccanismi della capitalizzazione
anticipata della rendita Inail, facendo ricorso alle tabelle di cui al r.d.
n.1403 del 1922, e raddoppiando l’importo così determinato, in via equitativa.

La cassazione di tale decisione è domandata da E.L.
sulla base di tre motivi.

Resistono con controricorso la C.E.A. s.r.l. e
l’Istituto Trentino Alto Adige per assicurazioni – società Mutua di
Assicurazioni, quale cessionaria di ramo d’azienda della S.I. Office Itd.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. ex
art. 360 comma primo n.4 c.p.c.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del
gravame, pur rilevando l’impossibilità per il lavoratore, di svolgere le
medesime mansioni disimpegnate al momento dell’infortunio, hanno accertato la
sussistenza di una residua capacità lavorativa specifica, tenuto conto del
titolo di studio posseduto e della giovane età, incorrendo in irredimibile
contraddizione.

Infatti, la considerevole serie di limitazioni
elencata dal nominato ausiliare, con riferimento alle specifiche attitudini di
operaio specializzato di primo livello possedute, si risolveva in un
sostanziale annullamento di detta capacità lavorativa. Nell’ottica descritta,
il riferimento ad una nozione di residua capacità lavorativa specifica, in
assenza di specifica motivazione, si traduceva in una affermazione apodittica e
contraddittoria, tanto da risolversi in mera apparenza di motivazione.

2. Il motivo va disatteso per plurime concorrenti
ragioni.

Non può sottacersi che la tecnica redazionale
adottata nella formulazione della censura non si sia conformata alle
enunciazioni di questa Corte secondo cui è inammissibile il ricorso per
cassazione in cui sia denunciata puramente e semplicemente la “violazione
o falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi dell’art. 112 c.p.c., senza alcun riferimento alle
conseguenze che l’errore (sulla legge) processuale comporta, vale a dire alla
nullità della sentenza e/o del procedimento, essendosi il ricorrente limitato
ad argomentare solo sulla violazione del principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato (vedi Cass.28/9/2015 n.19124).

I vizi dell’attività del giudice che possano
comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art.360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., non
sono, infatti, posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività
giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente
subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato “error in
procedendo” (Cass. 9/7/2014 n. 15676). E’ quindi necessario che il motivo
rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa
omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché
sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad
argomentare sulla violazione di legge (così Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931).

E, nello specifico, il motivo incorre nel ricordato
stigma, non avendo il ricorrente enunciato gli effetti che la violazione della
norma processuale avrebbe riverberato sulla vicenda considerata.

3. In ogni caso la censura è priva di fondamento.

Affinché sia integrato il vizio di “mancanza
della motivazione” agli effetti di cui all’art.132
n.4, cod. proc. civ., occorre che la motivazione manchi del tutto – nel
senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento
del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione –
ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue
argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere
di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del
“decisum” (vedi Cass. 18/9/2009 n.20112).

Questa enunciazione riassuntiva corrisponde a
consolidato principio espresso dalla giurisprudenza della Corte, secondo cui la
mancanza di motivazione, quale causa di nullità per mancanza di un requisito
indispensabile della sentenza, si configura “nei casi di radicale carenza
di essa, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare
la “ratio decidendi” (cosiddetta motivazione apparente), o fra di
loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente
incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé,
restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla
sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le
risultanze probatorie” (Cass. S.U. 16/5/1992 n. 5888).

In tal senso è stato precisato che la motivazione è
solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in
procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia,
percepibile il fondamento decisione, perché recante argomentazioni
obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice
per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare
all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture
(vedi Cass. S.U. 3/11/2016 n.22232).

Muovendo da tali principi, appare evidente che la
Corte di merito non sia incorsa nella denunciata mancanza giacché, aderendo nel
proprio incedere argomentativo alle conclusioni rassegnate dal nominato
ausiliare, ha elaborato un giudizio congruo, non connotato da assoluta
omissione o irredimibile contraddittorietà che avrebbero potuto giustificare un
sindacato nella presente sede di legittimità.

Aderendo alle conclusioni rassegnate dal nominato
ausiliare, ha infatti argomentato che, pur non essendo il ricorrente più in
grado di “svolgere le mansioni che disimpegnava al momento
dell’infortunio” poteva “essere adibito, con una considerevole serie
di limitazioni, ad altri tipi di lavoro confacenti con le sue attitudini
personali”, e ciò tenuto conto dell’età, del sesso del titolo di studi
posseduto e della pregressa esperienza lavorativa.

Detta statuizione, congrua e completa per quanto
sinora detto, è altresì comunque conforme ai consolidati dicta di questa Corte
secondo cui qualora, invece, alla riduzione della capacità lavorativa generica
si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica che, a sua volta,
dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno, della diminuzione della
produzione di reddito integra un danno patrimoniale. Ne consegue che non può
farsi discendere in modo automatico dall’invalidità permanente la presunzione
del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia
prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica.

Tale danno patrimoniale deve essere accertato in
concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse – o
presumibilmente in futuro avrebbe svolto – un’attività lavorativa produttiva di
reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo
l’infortunio, di una capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti
alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, ed
altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle
perse o ridotte Cass., 18/4/2003, n. 6291, Cass. 12/2/2015 n. 2758); e detta
prova, in base alle risultanze dell’elaborato peritale recepite dalla impugnata
sentenza, risulta allegata entro il limite del 20%, in relazione al quale è
stato modulato il procedimento di liquidazione del danno elaborato dalla Corte
di merito.

Sotto tutti i profili delineati, la statuizione si
sottrae, dunque, alla formulata censura.

4. Con il secondo motivo è denunciata violazione e
falsa applicazione dell’art.1123 c.c. in
relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.

Si prospetta la illegittimità della liquidazione del
danno da lucro cessante in conformità ai criteri sanciti dal r.d. n.1403 del
1922 che, facendo riferimento al saggio di interesse (4,5%) non più
corrispondente alla realtà attuale, finisce per decurtare dal risarcimento un
importo superiore a quello che per effetto dell’anticipato pagamento, il
danneggiato potrebbe conseguire attraverso l’impegno proficuo di quella somma.
Si deduce inoltre che la liquidazione del danno permanente era modulata sulla
speranza di vita degli anni ’20, inferiore di oltre un terzo rispetto a quella
attuale, compromettendo, anche sotto tale profilo, l’integralità del
risarcimento postulata dalla invocata disposizione codicistica.

Si prospetta in via ulteriore la violazione dei
dettami di cui all’art.1123 c.c.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del
gravame hanno assunto come base per la liquidazione del danno da capacità
lavorativa specifica, calcolato su tabelle ritenute illegittime, la percentuale
del 20% utilizzata per la liquidazione del danno biologico da parte del CTU
nominato in prime cure. Si ribadisce, invece, al riguardo, che il ricorrente
avrebbe subito una riduzione totale della capacità lavorativa generica le
quali, stante le ingenti limitazioni rilevate dall’ausiliare, escludono che il
lavoratore potesse espletare mansioni diverse da quelle alle quali era stato in
precedenza addetto.

5. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito
esposte.

Deve invero, considerarsi che il giudice del
gravame, nel pervenire alla liquidazione del danno patrimoniale subito dal
lavoratore a titolo di riduzione della capacità lavorativa permanente, si è
avvalso della formula matematica utilizzata per la capitalizzazione anticipata
della rendita Inail, facendo ricorso alle tabelle di cui al R.D. n.1403 del
1922.

Nell’articolato iter argomentativo, dopo aver
moltiplicato il reddito annuo desumibile dal modello CUD, per il coefficiente
di invalidità del 20% desumibile dalla CTU, aggiornato al 2004, ha detratto da
tale importo una percentuale del 10% corrispondente allo scarto fra vita fisica
e vita lavorativa, raddoppiando poi il dato complessivo, in via equitativa, per
dare rilievo al grave danno alla capacità lavorativa specifica del soggetto
arrecato dall’infortunio.

L’esito della complessiva procedura di liquidazione
del danno elaborata dal giudice del gravame, non è stato frutto esclusivo della
meccanica applicazione delle tabelle di cui al r.d. n. 1403/1922 le quali, a
causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei
saggi di interesse, non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e con il
rispetto della regola di cui all’art. 1223 c.c.
(vedi ex aliis, Cass. 14/10/2015 n. 20615, Cass. 25/6/2019 n.16913).

S’impone, infatti, l’evidenza che il risultato dei
conteggi elaborati in conformità ai criteri per la capitalizzazione delle
rendite Inail, mediante il ricorso anche alle ricordate tabelle, sia stato poi
rimodulato complessivamente, mediante un ragionamento decisorio ispirato al
criterio dell’equità che, adeguatamente motivato, appare sottrarsi allo
scrutinio di questa Corte.

L’esercizio, in concreto, del potere discrezionale
conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è, infatti,
suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della
decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il
processo logico e valutativo seguito, con motivazione non illogica né
manifestamente arbitraria (cfr. Cass.13/10/2017 n.24070).

Ed allora, non può sottacersi che il motivo
articolato, non si confronti con il censurato dictum della Corte di merito, la
quale ha apportato al computo matematico per la capitalizzazione del danno da
riduzione della capacità lavorativa specifica, opportuni meccanismi correttivi
onde adattare il risultato tabellare alle condizioni attualmente esistenti.

La doglianza presenta, quindi, profili di
inammissibilità per violazione del canone di specificità che governa il ricorso
per cassazione ex art. 366 comma primo nn. 3, 4
e 6, avuto riguardo alla mancata critica del ricordato procedimento di equità
adottato dal giudice del gravame; né si sottrae al medesimo stigma della
inammissibilità, quanto alla censurata applicazione della percentuale di
riduzione della capacità lavorativa nella misura del 20% mutuata dagli
accertamenti resi dal nominato ausiliare.

Per infirmare, sotto il profilo della insufficienza
argomentativa, la motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni di una
relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui il giudice dichiari di
condividere il merito, è infatti necessario che la parte alleghi di avere
rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice “a
quo”, e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti
onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso
che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale,
corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un
sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità (vedi Cass. 3/6/2016
n.11482, Cass. 17/7/2014 n. 16368).

Nello specifico il ricorrente non ha provveduto a
riportare il contenuto dell’elaborato peritale per relationem richiamato dalla
pronuncia impugnata, neanche nelle sue parti salienti, onde non si sottrae
anche sotto tale profilo ad un giudizio di inammissibilità.

6. Con il terzo motivo è denunciata violazione e
falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo nn. 3 e 4 c.p.c.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del
gravame hanno proceduto alla riduzione degli importi liquidati a titolo di spese
legali in riferimento al giudizio di prime cure.

Si stigmatizza altresì la disposta compensazione
integrale delle spese di lite inerenti al giudizio di appello, sul rilievo
della insussistenza di una situazione di reciproca soccombenza, né di una
novità della questione o del mutamento della giurisprudenza rispetto alle
questioni trattate, negandosi che nella specie potesse configurarsi la
obiettiva controvertibilità delle questioni trattate.

7. Il motivo non e fondato.

La prima censura, proposta in via condizionata dal
medesimo ricorrente, ed attinente alla riduzione delle spese legali disposta
dal giudice del gravame rispetto a quelle liquidate in prime cure, resta
logicamente assorbita dalla reiezione dei primi due motivi di ricorso.

Il secondo profilo di doglianza riferito alla
disposta compensazione delle spese di lite di secondo grado è, invece, privo di
pregio.

Ed invero, è bene rammentare che la nozione di
soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le
parti delle spese processuali (art. 92, comma 2,
c.p.c.), si verifica – anche in relazione al principio di causalità – nelle
ipotesi in cui vi è una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate
e che siano state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero
venga accolta parzialmente l’unica domanda proposta, sia essa articolata in un
unico capo o in più capi, dei quali siano stati accolti uno o alcuni e
rigettati gli altri (cfr. Cass. 22/08/2018 n.20888).

La statuizione relativa al governo delle spese
inerente al giudizio di appello, facendo leva sulla effettiva situazione di
reciproca soccombenza che aveva connotato l’esito del giudizio, si conforma al
surrichiamato principio onde resiste alla censura all’esame.

Conclusivamente, al lume delle superiori
argomentazioni, il ricorso è respinto.

Le spese del presente giudizio seguono il principio
della soccombenza nella misura indicata in dispositivo, liquidata in favore di
ciascuna delle società controricorrenti.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 ricorrono le condizioni per dare atto, ai sensi del comma 1
quater all’art. 13 DPR 115/2002,
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
presente giudizio, in favore di ciascuna delle controricorrenti, che liquida in
euro 200,00 per esborsi ed euro 2.000,00 per compensi professionali oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo per il ricorso a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per ricorso, a norma del
comma 1-bis, dello stesso articolo
13, ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 giugno 2020, n. 12632
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