Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 luglio 2020, n. 14247

Attività di assistenza e consulenza in materia fiscale e del
lavoro, Responsabilità professionale, Contratti a progetto in assenza dei
requisiti di legge

 

Fatti di causa

 

1.- La società T. di P. e C. s.n.c., il 15 maggio
2012, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Savona la società Studio P.
di R.D. e R.P. s.n.c., svolgente attività di assistenza e consulenza in materia
fiscale e del lavoro, e il Rag. commercialista R.P., socio illimitatamente
responsabile.

L’attrice richiedeva che fosse riconosciuta la
responsabilità professionale dei convenuti per avere, nell’ambito dell’attività
di consulenza e assistenza prestatale, suggerito la conclusione di due
contratti di lavoro a progetto e predisposto gli stessi pur in assenza dei
requisiti di legge, esponendola di conseguenza al pagamento di sanzioni (aveva
dovuto corrispondere all’I.N.P.S. 22.380,53 euro complessivi).

2. – Lo Studio P. e R. P. si costituivano in
giudizio, contestando la propria responsabilità.

3. – Il Tribunale di Savona (sent. n. 423 del 21
marzo 2014) accoglieva la domanda della ricorrente.

4. – Il Giudice d’appello, con ordinanza del 24
gennaio 2018, ritenuta la legittimazione passiva di R. P. in proprio, quale socio
illimitatamente responsabile della Società Studio P., rimetteva la causa in
istruttoria segnalando alle parti la questione, rilevabile d’ufficio, della
nullità del rapporto negoziale posto alla base della contestazione relativa
alla responsabilità professionale.

5. – Il 9 maggio 2018, la Corte d’appello di Genova,
con sentenza n. 808/2018, riformava la sentenza del Giudice del primo grado e
respingeva la domanda di T. s.n.c., dichiarando la nullità del rapporto
contrattuale intercorso tra le parti . Esaminate le contrapposte difese,
rilevava, in primis, che la disciplina di cui alla legge
n. 12 dell’11 gennaio 1979, relativa all’ordinamento della professione di
consulente del lavoro, fosse applicabile al caso di specie. Richiamava l’art. 1 della Legge indicata,
rubricato “Esercizio della professione di consulente del lavoro”, che
così recita: “Tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed
assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, quando non sono curati dal datore
di lavoro, direttamente od a mezzo di propri dipendenti, non possono essere
assunti se non da coloro che siano iscritti nell’albo dei consulenti del lavoro
a norma dell’articolo 9
della presente legge, salvo il disposto del successivo articolo 40, nonché da
coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati e procuratori legali, dei
dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, i quali in tal
caso sono tenuti a darne comunicazione agli ispettorati del lavoro delle
province nel cui ambito territoriale intendono svolgere gli adempimenti di cui
sopra.”.

Riteneva che siffatta previsione dovesse essere
interpretata nel senso ampio per cui fra gli “adempimenti” riservati
ai soggetti iscritti all’albo dei consulenti del lavoro dovessero ritenersi
ricomprese “le mansioni al più alto livello professionale, con ampia
autonomia decisionale”, tra le quali le attività connesse “alla
assunzione e al licenziamento di lavoratori” o alla “assunzione di
lavoratori con contratti di formazione lavoro” (richiamava Cass. Pen. n.
27848/2001; Cass. Pen. n. 6887/2007): di conseguenza, riteneva l’attività di
consulenza svolta dallo Studio P., nella persona del Rag. P., consistente nel
consigliare al cliente e predisporre un certo tipo di contratto, e nel redigere
lo stesso benché il rapporto lavorativo in atto, cui si riferiva non
corrispondesse al modello contrattuale prescelto, dovesse essere ricondotta a
tale  categoria. Ciò comportava la
nullità del contratto stipulato fra la T. e lo Studio P., e l’esonero dei
convenuti dalla responsabilità contrattuale fatta valere dall’attrice.

6. – La società T. propone ricorso per Cassazione
articolato in due motivi.

7. – La società Studio P. s.n.c. di R.D. e P.R. in
liquidazione resiste chiedendo l’integrale conferma della sentenza d’appello.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso, la società
lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge 11/1/1979
n. 12, e dell’art. 2229 c.c.

Afferma la ricorrente che la pronuncia, nel
qualificare come nullo il contratto d’opera professionale intercorso fra le
parti, perché relativo ad un’attività (quella di consulenza e predisposizione
dei contratti) oggetto di riserva a favore di una professione protetta, e
precisamente quella di consulente del lavoro, disciplinata dalla legge 11/1/1979), abbia mal interpretato
quest’ultima dal momento che:

– l’art.
1, comma 1, con il termine “adempimenti” farebbe riferimento ad
attività «di carattere esecutivo e/o formale» come quelle «previste dalla legge
e proprie dell’attività del consulente del lavoro, come, ad esempio
l’elaborazione del Libro Unico del Lavoro, la compilazione e l’inoltro dei
modelli DM/10 per l’INPS, la predisposizione delle pratiche per gli infortuni
sul lavoro da inoltrare all’INAIL, ecc.» (così a p. 20 del ricorso in esame).

– l’art.
2, comma 1, prevederebbe che i consulenti del lavoro svolgano per conto dei
datori di lavoro “tutti gli adempimenti previsti da norme vigenti per
l’amministrazione del personale dipendente” mentre, la vicenda concreta
«nulla ha a che fare con l’amministrazione del personale» (così a p. 21 del
ricorso)

– la legge in oggetto non conterrebbe alcun
riferimento all’attività di consulenza. Per queste ragioni, la società T.
sostiene che l’attività di consulenza non possa ritenersi riservata agli
iscritti ad un albo professionale (a sostegno di questa tesi viene richiamata
la sent. n. 418 del 27 dicembre 1996 della
Corte Costituzionale (La giurisprudenza prevalente, coerentemente al quadro
normativo di riferimento delineato, ha maturato di considerare l’attività di
consulenza aziendale come non riservata agli iscritti nell’albo dei dottori
commercialisti o nell’albo dei ragionieri e periti commerciali, potendo essere
svolta anche da altri soggetti non iscritti in albo.») e che pertanto, secondo
il «principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di
servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa
organizzazione» (così il ricorso a p. 21 richiamando Cass. n. 14085 dell’11
giugno 2010), non si possa dubitare della validità ed efficacia del contratto
intercorso tra le parti e del conseguente obbligo dello Studio P. s.n.c. di
risarcire il danno.

La pronuncia del Giudice territoriale è censurata,
peraltro, nel richiamo che effettua a quella giurisprudenza della S.C. penale
(Cass. Pen., n. 27848 del 20 marzo 2001 e Cass. Pen., n. 6887 del 23 gennaio
2007) che, nel non compiere alcuna valutazione in ordine alla qualificazione di
prestazioni di consulenza, «non potrebbe in alcun modo supportare la decisione»
(così a p. 23 del ricorso).

1.2. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la
violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in
relazione all’omesso esame circa un aspetto decisivo per il giudizio.

L’elemento di fatto pretermesso consisterebbe nel
fatto che tutte le prestazioni professionali rese da Studio P. in favore di T.,
nel corso degli anni, sarebbero sempre state effettuate direttamente e
personalmente dal rag. R.P., o comunque sotto la sua diretta supervisione e
direzione. Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe dovuto svolgere un
concreto accertamento per verificare se, nel caso concreto — al di là del dato
formale della fatturazione in capo allo Studio P. — permanessero quelle
caratteristiche di personalità nell’esecuzione della prestazione, tali da far
ritenere comunque sussistente la causa contrattuale di cui agli articoli 2229 ss. c.c. Questo dato di fatto, ove
adeguatamente preso in considerazione, avrebbe condotto la corte d’appello,
nella ricostruzione della ricorrente, ad escludere la nullità del contratto.

Il primo motivo è fondato e va accolto.

Sulla base dell’accertamento in fatto, contestato
dallo Studio P. ma non sindacabile in questa sede, la T. si è rivolta alla
società di consulenza chiedendo in che modo avrebbe potuto proseguire la collaborazione
con due suoi ex dipendenti in forma autonoma, e questa avrebbe consigliato per
essi l’inquadramento nel contratto a progetto, e poi a fornire lo schema
contrattuale che è stato effettivamente utilizzato dalla T., e ritenuto poi
inadeguato dalla Direzione provinciale del lavoro, che ha sanzionato l’odierna
ricorrente per essersi sottratta alla corresponsione dei contributi
previdenziali dovuti per i dipendenti, atteso che nei contratti non era
indicato in effetti alcun progetto o programma da realizzare e che gli stessi
presentavano clausole tipiche della subordinazione, quali la determinazione del
compenso in un importo fisso mensile.

A fronte di ciò si tratta di individuare se sia
stata corretta l’operazione della corte d’appello che ha ritenuto l’attività
prestata, come sopra individuata, riservata ai soli professionisti — consulenti
del lavoro — iscritti nell’apposito albo, e da ciò ha desunto la nullità del
contratto concluso tra T. e Studio P., e di conseguenza ha escluso la
responsabilità della Studio P., che è stato convenuto in giudizio
esclusivamente in quanto contrattualmente responsabile.

Deve ritenersi che l’attività di sussunzione operata
dalla corte d’appello sia stata errata, in violazione della invocata legge n. 12 del 1979.

Va premesso che è la legge che determina quali siano
le professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi
albi o elenchi ( art. 2229 c.c.), per cui
risulta inesatto e del tutto generico affermare che, in generale, l’attività di
consulenza aziendale sia riservata ai professionisti iscritti in specifici
albi.

Al contrario, deve ribadirsi che nelle materie
commerciali, economiche, finanziarie e di ragioneria, le prestazioni di
assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva
ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commercialisti, non
rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti
iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione (
in questo senso Cass. n. 15330 del 2008, che, in applicazione del riportato
principio, ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso il diritto al
compenso del ricorrente, consulente del lavoro, per le attività di consulenza e
valutazione in materia aziendale, dallo stesso svolte), riprendendo quanto già
affermato da Corte cost. n. 418 del 1996; di
recente, v. Cass. n. 8683 del 2019).

Per salvaguardare gli interessi di chi fruisce
dell’attività dei professionisti, la legge pretende che determinate attività,
per la loro delicatezza, e per l’opportunità che chi le svolge sia sottoposto a
controlli, sia nell’accesso sia nello svolgimento della professione ed anche
sotto il profilo del rispetto della deontologia nei contatti con i clienti,
possano essere svolte solo dai professionisti iscritti in determinati albi.

La finalità di prevedere che alcune attività siano
riservate ai professionisti iscritti è quindi quella di rafforzare la tutela
del privato che si avvale di un professionista, e di garantire indirettamente
una maggiore professionalità nella gestione degli aspetti più delicati di ogni
attività.

Nel caso in esame, si tratta di attività svolta da
una società di consulenza in materia lavoristica. Le attività riservate ai soli
professionisti iscritti sono, nel caso di specie, quelle individuate dalla legge n. 12 del 1979. L’art. 1 della predetta legge,
rubricato ” Esercizio della professione di consulente del lavoro al comma
1, prevede che: Tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed
assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, quando non sono curati dal datore
di lavoro, direttamente od a mezzo di propri dipendenti, non possono essere
assunti se non da coloro che siano iscritti nell’albo dei consulenti del lavoro
a norma dell’articolo 9
della presente legge, salvo il disposto del successivo articolo 40, nonché da
coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati e procuratori legali, dei
dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, i quali in tal
caso sono tenuti a darne comunicazione agli ispettorati del lavoro delle
province nel cui ambito territoriale intendono svolgere gli adempimenti di cui
sopra.

L’art.
2 della medesima legge, rubricato “Oggetto dell’attività”,
prevede poi che: I consulenti del lavoro, con le eccezioni di cui al quarto
comma dell’articolo 1,
svolgono per conto di qualsiasi datore di lavoro tutti gli adempimenti previsti
da norme vigenti per l’amministrazione del personale dipendente.

Essi inoltre, su delega e in rappresentanza degli
interessati, sono competenti in ordine allo svolgimento di ogni altra funzione
che sia affine, connessa e conseguente a quanto previsto nel comma precedente.

Ferma restando la responsabilità personale del
consulente, questi può avvalersi esclusivamente dell’opera di propri dipendenti
per l’effettuazione dei compiti esecutivi inerenti all’attività professionale.

Dalla lettura delle norme si ricava che è attività
riservata al consulente iscritto all’albo, che ne risponde personalmente,
quella connessa al compimento degli adempimenti relativi al personale
dipendente, con ciò dovendosi intendere non ogni attività a qualsiasi titolo
collegata alla stessa esistenza, in capo al cliente che si rivolge ad una
struttura che svolge attività di consulenza sul lavoro, di uno o più rapporti
di lavoro con dipendenti, ma l’espletamento degli adempimenti di natura fiscale
o previdenziale, in cui il consulente abilitato, su delega del cliente, opera
come sostituto del datore di lavoro.

Non rientra nella nozione di espletamento di un
“adempimento”, viceversa, e quindi nell’attività riservata ai
professionisti iscritti, l’attività di consulenza in sé, alla quale è
riconducibile quella svolta nel caso di specie, che si è tradotta nel
consigliare un determinato inquadramento contrattuale, piuttosto che un altro,
e nel fornire all’impresa che lo richiedeva uno schema contrattuale
utilizzabile.

Anche sotto il profilo sistematico, la lettura che
dà la corte d’appello delle norme citate, lungi dal rafforzare la tutela del
cliente-datore di lavoro facendo sì che in certe attività, che comportano
l’erogazione di versamenti dovuti nei confronti dello Stato e degli enti
previdenziali, possa essere sostituito, se lo ritiene, ma solo da un
professionista abilitato, consentirebbe una sostanziale deresponsabilizzazione
delle società di consulenza in campo lavoristico, che potrebbero sciogliersi da
qualsiasi responsabilità per una consulenza foriera di danni adducendo la
nullità dello stesso contratto di consulenza.

Il primo motivo di ricorso va pertanto accolto, con
assorbimento del secondo, la sentenza impugnata cassata e la causa rinviata
alla Corte d’Appello di Genova in diversa composizione che provvederà anche
sulla liquidazione delle spese del presente giudizio attenendosi al seguente
principio di diritto: “In conformità al principio della libertà di lavoro
autonomo o di libertà di impresa di servii, non costituisce una prestazione d’opera
professionale di natura intellettuale riservata a chi è iscritto nell’apposito
albo previsto dalla legge e quindi nulla se svolta da soggetto non abilitato
l’attività che si sia tradotta nel consigliare al cliente l’adozione di un
determinato inquadramento contrattuale per i propri collaboratori, e la
predisposizione del relativo schema di contratto, svolta da una società di
consulenza del lavoro, non rientrando tali attività tra gli “adempimene
che la legge n. 12 del 1979 riserva ai
consulenti del lavoro iscritti all’albo”.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo, assorbito il secondo,
cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Genova in diversa
composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 luglio 2020, n. 14247
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