Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 agosto 2020, n. 16674

Lavoro, Collaborazione, Esistenza del rapporto di lavoro
subordinato, Prova

 

Rilevato che

 

1. con decreto 8 (comunicato il 13) giugno 2017, il
Tribunale di Cagliari rigettava l’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 98 I. fall., da T.G.
avverso lo stato passivo del Fallimento S.T.L. Sardegna s.r.I., al quale il
predetto era stato ammesso in via chirografaria per il solo importo di €
85.068,49, a titolo di compenso per l’attività di amministratore delegato,
senza tuttavia il richiesto privilegio ai sensi dell’art.
2751bis n. 2 c.c., in quanto ritenuto non spettargli per la qualità della
prestazione, così come i residui crediti, appunto esclusi, insinuati per il
complessivo importo di € 814.311,51, di cui:

a) € 712.774,00, di cui € 16.346,00 per T.f.r., €
118.164,00 per retribuzioni, delle quali € 25.320,86 a titolo di ultime tre
mensilità, € 305.960,00 per indennità risarcitoria a norma dell’art. 4, p.to 4
del contratto individuale di lavoro, € 272.303,80 a  norma dell’art. 4, p.to 7 dello stesso
contratto, in via privilegiata ai sensi dell’art.
2751bis n. 1 c.c.;

b) € 85.068,49, a titolo di compenso di
amministratore delegato, appunto in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751bis n. 2 c.c.;

c) € 16.469,22, a titolo di rimborso spese legali
sostenute nel giudizio davanti alla Corte dei Conti) in via chirografaria;

2. esso negava l’esistenza del credito relativo al
rapporto di lavoro subordinato (asseritamente dal 29 giugno 2004 al 10 febbraio
2008, in qualità di direttore generale e cessato per intimazione di
licenziamento per giusta causa con lettera ricevuta il 1° febbraio 2008,
impugnato di inesistenza e violazione degli artt. 4 del contratto individuale
di lavoro e 7 I. 300/1970)
in quanto escluso, alla luce delle scrutinate risultanze istruttorie, per
insussistenza o comunque per mancato svolgimento della prestazione, non essendo
stata dimostrata la diversità delle mansioni (genericamente riferite a studio,
individuazione, attribuzione del “valore turistico” di ogni singolo
“contesto turistico omogeneo” individuato da S.T.L. Sardegna s.r.l. e
altre enumerate ai punti da 2. a 11. di pgg. 4 e 5 del decreto) da quelle della
carica sociale ricoperta; e neppure l’effettivo svolgimento di attività
lavorativa soggetta al potere direttivo, di controllo e disciplinare della
società, senza neppure altri dipendenti (unico lavoratore essendo il creditore,
quale direttore generale, oltre che amministratore per carica sociale, delegato
dal Presidente del C.d.A.), né alcuna organizzazione aziendale (in mancanza di
beni, immobilizzazioni o uffici e persino di una propria sede), posta in
liquidazione con assemblea straordinaria del 18 dicembre 2006, in esito alla
richiesta di scioglimento dalla Regione Sardegna (socio unico di S.T.L.) con la
comunicazione del 9 settembre 2004;

3. il Tribunale escludeva anche il credito in via
chirografaria di €. 16.469,22, in difetto dei presupposti stabiliti dall’art. 10bis, decimo comma d.l. 203/2005
(in ordine al parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato sulle richieste
di rimborso delle spese legali nel giudizio davanti alla Corte dei Conti per la
difesa del prosciolto nel merito), esclusi dalla stessa decisione della Corte
dei Conti;

4. esso ravvisava infine sussistere i presupposti
(di totale soccombenza, quanto meno di colpa grave nella proposizione del
giudizio e di danno risarcibile per disagio comportato dalla resistenza) di
temerarietà della lite, per la condanna risarcitoria dell’opponente, ai sensi
dell’art. 96, terzo (rectius: primo) comma c.p.c.;

5. avverso tale decreto T.G., con atto notificato il
13 luglio 2017, ricorreva per cassazione con nove motivi, cui il Fallimento
resisteva con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi
dell’art. 380bis 1 c.p.c.;

 

Considerato che

 

1. il ricorrente deduce violazione o falsa
applicazione degli artt. 2094, 2095, 2697 c.c.,
per erronea attribuzione al ricorrente dell’onere della prova in concreto della
subordinazione, nonostante la sua carica di amministratore della società
nominato direttore generale nell’atto costitutivo e assunto con un contratto a
tempo indeterminato e pieno dalla società come proprio dipendente con posizione
funzionale di direttore generale (primo motivo); violazione o falsa
applicazione degli artt. 2094, 2095, 1173, 1372, 1324, 2103, 1382 c.c.,
per mancata considerazione della natura del contratto di lavoro di fonte di
obbligazioni vincolanti per le parti, comportante l’eventuale obbligo della
parte datrice di pagamento delle retribuzioni, e non già l’inesistenza del
rapporto, qualora inadempiente nell’assegnazione al lavoratore delle mansioni
per le quali lo abbia assunto (secondo motivo); violazione o falsa applicazione
degli artt. 1206, 2126
c.c., per il richiamo da parte del Tribunale di arresti giurisprudenziali,
in tema di corrispettività tra prestazione e retribuzione, non pertinenti
qualora il rapporto di lavoro non sia mai stato sospeso, come nel caso di
specie (terzo motivo); violazione o falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 c.c.,
per la mancanza di comparazione delle proprie deleghe di amministratore con le
mansioni attribuitegli come direttore generale, con valutazione della (solo
parziale e limitata) loro sovrapponibilità, ritenuta erroneamente ostativa alla
configurazione di un rapporto di subordinazione (quarto motivo); violazione o
falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., anche in riferimento all’art. 1324 c.c., per ritenuta sovrapposizione delle
mansioni subordinate di “assistenza e supporto dei sub sistemi turistici
locali territoriali “, per effetto di un’erronea interpretazione delle
funzioni delegate sub lett. c) del verbale del C.d.A. 11 giugno 2004, consistenti
in “cura di rapporti e rappresentanza della società con i sub sistemi
turistici locali territoriali” , in quanto espressione di un atto
negoziale da interpretare (quinto motivo);

2. tutti i suindicati motivi sono congiuntamente
esaminabili, per ragioni di stretta connessione individuabili nella convergenza
delle censure, sotto i diversi profili variamente declinati, sulla
contestazione dei criteri adottati per l’individuazione corretta della natura
della prestazione concretamente resa dal ricorrente;

3. essi sono infondati;

4. occorre preliminarmente distinguere il contratto,
fonte di obbligazioni reciproche tra le parti dal rapporto di lavoro, che deve
effettivamente realizzare nei suoi elementi costitutivi, per essere tale, le
previsioni negoziali: ed è insegnamento giurisprudenziale assolutamente
consolidato della prevalenza, rispetto alla formale qualificazione operata
dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, del comportamento
in concreto tenuto dalle stesse nell’attuazione del rapporto: essendo la
qualificazione, seppure rilevante, tuttavia non determinante e pertanto non
esimendo il giudice dal puntuale accertamento del comportamento delle parti
nell’esecuzione; e ciò perché idoneo, nei rapporti di durata, ad esprimere sia
una diversa effettiva volontà contrattuale, sia una nuova diversa volontà
(Cass. 23 luglio 2004, n. 13872; Cass. 25 ottobre
2004, n. 20669); sicché, occorre fare riferimento ai dati fattuali
emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla
volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro (Cass. 15 giugno 2009, n. 13858; Cass. 9 agosto 2013, n. 19114);

4.1. è poi risaputo che la valutazione degli
elementi probatori, ai fini della qualificazione del rapporto di collaborazione
personale in termini di subordinazione, sia attività istituzionalmente
riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se non
sotto il profilo di congruità della motivazione del relativo apprezzamento: a
tal fine, essendo sufficiente che da questa risulti la formazione del
convincimento attraverso la valutazione degli elementi acquisiti considerati
nel loro complesso, senza necessità di una specifica analisi, né confutazione
degli elementi ritenuti recessivi rispetto a quelli valutati di valore
prevalente (Cass. 29 maggio 2008, n. 14371);

4.2. le qualità di amministratore e di lavoratore
subordinato di una stessa società di capitali ben possono essere cumulate,
purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della
carica sociale; ed è necessario che colui che intenda far valere il rapporto di
lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione, e pertanto
dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere
direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della
società (Cass. 6 novembre 2013, n. 24972; Cass. 30 settembre 2016, n. 19596);

4.3. il Tribunale ha esattamente applicato i
principi di diritto suenunciati (all’ultimo capoverso di pg. 7 del decreto), in
esito ad un accertamento in fatto, congruamente argomentato (dal secondo
capoverso di pg. 8 all’ultimo di pg. 10 del decreto); sicché, ogni altra
considerazione svolta dal ricorrente rimane assorbita.

5. il ricorrente deduce quindi violazione o falsa
applicazione degli artt. 244, 115 c.p.c., 24 Cost.quale error in procedendo, per la
mancata ammissione di prove orali idonee a dimostrare gli elementi costitutivi
del rapporto di subordinazione, in contrasto con l’orientamento
giurisprudenziale di legittimità (sesto motivo); violazione o falsa
applicazione degli artt. 115, 116, 210 c.p.c.quale error in procedendo, per addebito
al ricorrente, in luogo di una decisione resa in base alle prove offerte non
ammesse, dell’assenza di prove documentali, neppure richieste in via di
esibizione, in contrasto con il principio di inesistenza di una gerarchia tra le
prove (settimo motivo);

6. anch’essi, congiuntamente esaminabili per ragioni
di stretta connessione, sono infondati;

7. non si configurano, infatti, i vizi denunciati,
posto che in materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione
in cui sia incorso il giudice di merito (e che investe l’apprezzamento della
fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare) non
è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, vedendo sulla
ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una
circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti, è
sindacabile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.
4 c.p.c., per violazione dell’art. 115 del
medesimo codice, che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal
giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass. 12 aprile 2017, n. 9356;
Cass. 24 ottobre 2018, n. 27033);

7.1. l’art. 116, primo comma
c.p.c. consacra poi, come noto, il principio del libero convincimento del
giudice, al cui prudente apprezzamento (salvo alcune specifiche ipotesi di
prova legale) è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze
processuali; in ciò egli è peraltro tenuto a indicare gli elementi sui quali
fondi il proprio convincimento nonché l’iter seguito per addivenire alle
conclusioni raggiunte, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi
ritenuti incompatibili con la decisione adottata; e tale apprezzamento è
insindacabile in cassazione in presenza di congrua motivazione, immune da vizi
logici e giuridici (Cass. 13 luglio 2004, n. 12912);

7.2. in tema di valutazione delle prove, il
principio del libero convincimento, che è posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
opera pertanto interamente sul piano dell’apprezzamento di merito,
insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle
predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di
violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella
fattispecie di cui all’art. 360, primo comma, n. 4
c.p.c., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il
corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti
consentiti dall’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
(Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940);

7.3. non può allora porsi in sede di legittimità una
questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.
per erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di
merito, ma rispettivamente solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia
posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte
d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo
il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato
come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di
prova  soggetti invece a valutazione
(Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000; Cass. 17 gennaio 2019, n. 1229);

7.4. né infine può essere denunciata per cassazione
l’omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova, se non per vizio
di motivazione e soltanto nel caso in cui abbia determinato l’omissione di
motivazione su un punto decisivo della controversia e quindi, ove la prova non
ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze
tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità,
l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che abbiano determinato il
convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a
trovarsi priva di fondamento (Cass. 17 maggio 2007, n. 11457; Cass. 7 marzo
2011, n. 5377; Cass. 7 marzo 2017, n. 5654; Cass. 17 giugno 2019, n. 16214): il
che non si verifica nel caso di specie;

8. il ricorrente deduce ancora violazione o falsa
applicazione degli artt. 3 e 4, quinto comma,
lett. c) d.m. 55/2014, per eccessività della liquidazione delle spese
giudiziali per la fase istruttoria (€ 10.000,00), di fatto inesistente o estremamente
limitata, in quanto sulla base delle tabelle verosimilmente del giudizio
ordinario e non del lavoro (ottavo motivo);

9. esso è infondato;

10. occorre premettere l’applicabilità
all’opposizione allo stato passivo delle norme del rito ordinario e non già del
rito speciale del lavoro, anche se in esso si facciano valere diritti derivanti
da un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa assoggettata alla procedura
concorsuale (Cass. 3 maggio 2005, n. 9163, in
specifico riferimento a liquidazione coatta amministrativa di un creditore
escluso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 209 e 98 I. fall.); in particolare,
l’art. 421 c.p.c. sui poteri istruttori
ufficiosi del giudice, in quanto norma relativa al rito del lavoro, non trova
applicazione nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ai
sensi dell’art. 98 che è
retto dalle norme che regolano il giudizio ordinario, anche se si facciano
valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa
assoggettata alla procedura concorsuale (Cass. 19 maggio 2006, n. 11856; Cass. 30 settembre 2016, n. 19596);

10.1. la liquidazione delle spese processuali
rientra poi nei poteri discrezionali del giudice del merito, sicché possono
essere denunziate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della
soccombenza o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con
obbligo in tal caso del deducente di indicare le singole voci contestate, in
modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori
indagini (Cass. 4 luglio 2011, n. 14542);

10.2. è allora insindacabile la liquidazione
compiuta dal Tribunale, in applicazione dei parametri tariffari stabiliti per
il rito ordinario dal decreto ministeriale denunciato (e con gli incrementi percentuali
congruenti con il valore della controversia, ai sensi dell’art. 6 d.m. 55/2014) per la fase
istruttoria (da intendere comprensiva delle attività difensive puntualmente
indicate dall’art. 4, quinto
comma, lett. c d.m. cit.): che è del tutto equiparabile a quella propria
dell’ordinario giudizio di cognizione anche nei procedimenti camerali (Cass. 28
luglio 2004, n. 14200, con specifico riguardo al giudizio per la dichiarazione
di paternità e di maternità naturale di minori davanti al tribunale per i
minorenni), quale quello di opposizione allo stato passivo, a seguito delle
riforme operate dai dd. lgg. 5/2006 e 169/2007, in quanto giudizio a cognizione
piena (Cass. 4 giugno 2012, n. 8929; Cass. 31
luglio 2017, n. 19003);

11. il ricorrente deduce infine violazione o falsa
applicazione dell’art. 96, terzo (rectius: primo)
comma c.p.c., per non avere il Tribunale esplicitato il requisito di
consapevolezza propria di proporre domande infondate, né del proprio difetto di
ordinaria diligenza, così sovrapponendo e assorbendo l’uno nell’altro i
requisiti soggettivo ed oggettivo (nono motivo);

12. esso è inammissibile;

12.1. in via di premessa, occorre chiarire che il
tribunale ha disposto la condanna per lite temeraria su domanda della parte
(“non osta infatti all’accoglimento della domanda di risarcimento dei
danni da lite temeraria … “: così al primo capoverso di pg. 12 del
decreto), avendone valutato i presupposti a norma dell’art. 96, primo comma c.p.c. (al p.to 6 di pgg. 11
e 12 del decreto). La condanna ai sensi del terzo comma della stessa
disposizione è invece volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate
all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, a tutela
degli interessi della parte vittoriosa e a sanzionare la violazione dei doveri
di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c.,
realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con
un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per
fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con produzione di effetti
pregiudizievoli per la controparte: con la conseguenza che la condanna, al
pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda
di parte né la prova del danno (Cass. s.u. 13 settembre 2018, n. 22405);

12.2. la responsabilità aggravata a norma dell’art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al
risarcimento dei danni, esige piuttosto l’accertamento di requisiti quali
l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero in
assenza della normale prudenza, implicando un apprezzamento di fatto (compiuto,
come detto, dal Tribunale) non censurabile in sede di legittimità, salvo il
controllo di sufficienza della motivazione per i ricorsi proposti avverso
sentenze depositate prima dell’11 settembre 2012 (Cass. 29 settembre 2016, n.
19298; Cass. 12 gennaio 2010, n. 327);

13. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con
la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e
raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei
presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20
settembre 2019, n. 23535);

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna T.G. alla rifusione,
in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro
200,00 per esborsi e Euro 20.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso
per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 agosto 2020, n. 16674
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