Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 settembre 2020, n. 19849

Differenze retributive e tfr, Rapporto concluso “per facta
concludentia”, Denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per
errata valutazione del materiale probatorio, Restrizione dell’ambito di
controllo, in sede di legittimità, al “minimo costituzionale”

 

Rilevato che

 

1. Con sentenza n. 470 depositata il 4.5.2016, la
Corte d’appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di
Vallo di Lucania, ha condannato, ex art. 2112
cod.civ. M.P.M. e V.C., imprese, rispettivamente, cedente e cessionaria, al
pagamento a favore di A.L.P. di euro 19.552,68 a titolo di differenze
retributive e T.F.R. come calcolati dal consulente tecnico d’ufficio incaricato
in sede di appello;

2. propone ricorso M.P.M. affidandosi a due motivi,
illustrati da memoria;

A.L.P. resiste con controricorso; V.C. è rimasto
intimato.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia – ai
sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4,
cod.proc.civ. – violazione degli artt. 112,
348 bis e ter cod.proc.civ., 53 e ss. d.lgs. n. 546 del 1992
per aver, la Corte distrettuale, omesso di valutare le doglianze – dedotte
avanti al giudice di secondo grado – di inammissibilità del ricorso in appello
proposto dalla P., in quanto detto atto non specificava le parti della sentenza
di primo grado da riesaminare, né indicava le modifiche da effettuare, in
palese difformità dalla nuova disciplina in materia di gravame;

2. con il secondo motivo di ricorso si denunzia – ai
sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5,
cod.proc.civ. – violazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente
o contraddittoria motivazione per aver, la Corte distrettuale, disposto una
consulenza tecnica d’ufficio con riguardo alle spettanze vantate dalla lavoratrice
e con riferimento al periodo lavorativo 1.6.2004 – 14.6.2007 (“data in cui
può effettivamente ritenersi concluso “per facta concludentia” il
rapporto per scelta della lavoratrice, non più ripresentatasi dopo
un’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità a rendere le prestazioni o
comunque idoneamente giustificatasi nei confronti della parte
datoriale”)  di carattere
esplorativo in quanto in assenza di elementi probatori in ordine alla natura e
dinamica del rapporto di lavoro, all’ammontare della retribuzione spettante,
alla prova del soggetto passivo individuato come debitore, con ribaltamento
della congrua ed adeguata motivazione delle risultanze di primo grado che
aveva, altresì, rimarcato l’inattendibilità dei testi per i loro rapporti di parentela
con le parti in lite;

3. il primo motivo è inammissibile in quanto viola
il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione non
trascrivendo la sentenza di primo grado e l’atto di appello, in quanto
l’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito,
riconosciuto a questa Corte ove sia denunciato un “error in
procedendo”, presuppone l’ammissibilità del motivo, ossia che la parte
riporti in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi
ed i riferimenti che consentono di individuare, nei suoi termini esatti e non
genericamente, il vizio suddetto, così da consentire ad effettuare il controllo
sul corretto svolgimento dell'”iter” processuale senza compiere
generali verifiche degli atti (cfr., da ultimo, Cass. n. 23834 del 2019; in
senso conforme, ex plurimis, Cass. n. 22880 del 2017 proprio in materia di
genericità dei motivi di appello; Cass. n. 19410
del 2015);

4. il secondo motivo è inammissibile in quanto,
nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto
nell’ambito del motivo di ricorso (artt. 115, 116 cod.proc.civ.), tutte le censure si risolvono
nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata
valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei
fatti senza considerare che la sentenza in esame (pubblicata dopo l’11.9.2012)
ricade sotto la vigenza della novella legislativa concernente l’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. (d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito con
modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134)
che – come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053/2014) – comporta una ulteriore
sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla
motivazione di fatto, che va circoscritto al “minimo costituzionale”,
ossia al controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o
della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile
contraddittorietà e dell’illogicità manifesta);

5. nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e
la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a
giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o
contraddittori, avendo, la Corte distrettuale, esaminato i fatti controversi ed
accertato la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro alla data di
scadenza del periodo di astensione obbligatoria per maternità, condividendosi
il giudizio (del Tribunale) di non attendibilità della prova offerta dalla
lavoratrice circa il maggior periodo svolto e le maggiori prestazioni
effettuate “a fronte di dichiarazioni testimoniali rese da compiacenti
familiari ovvero generiche”;

6. in conclusione, il ricorso va dichiarato
inammissibile e le spese di lite seguono la soccombenza come previsto dall’art. 91 cod.proc.civ.;

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che
liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 3.000,00 per compensi
professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a
norma del comma 1-bis dello stesso art.
13, se dovuto.

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