Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2020, n. 24389

Mansioni di estetista, Sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato, Carenza di titolo professionale, Nullità del contratto di lavoro
– Applicazione di sanzioni di natura amministrativa ex art. 12 I.n.1/1990,
Valutazione dei crediti rispettivi, Poste omogenee

 

Rilevato che

 

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza resa
pubblica il 18/4/2016, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che
aveva accertato l’intercorrenza di un rapporto di lavoro subordinato fra S.C.
ed il Centro Estetico V.C. di V.G. nel periodo 1/7/2001-7/12/2005; lo
svolgimento di mansioni di estetista corrispondenti al IV livello dal 1/7/2001
al 30/6/2003 ed al III° livello del c.c.n.l. di settore dal 1/7/2003 al
7/12/2005; l’omissione contributiva in relazione all’intero rapporto
intercorso; la condanna della parte datoriale al pagamento della somma di euro
27.957,23 a titolo di differenze retributive, mensilità aggiuntive, lavoro
straordinario, ferie non godute e t.f.r. nonché al risarcimento del danno da
irregolarità contributiva.

La Corte distrettuale, in estrema sintesi, perveniva
a tale convincimento dopo aver vagliato il quadro istruttorio delineato in
prime cure, ritenuto del tutto univoco nel senso dell’inquadramento del
rapporto inter partes nell’ambito della locatio opera rum; deduceva che la
carenza di titolo professionale non poteva determinare la nullità del contratto
di lavoro come preteso dall’appellante, ma esclusivamente l’applicazione di
sanzioni di natura amministrativa exart. 12 I.n.1/1990. Precisava
quindi, in ordine al quantum debeatur, che il nominato ausiliare aveva accertato
“un credito superiore a quello corrispondente alla liquidazione operata
dal Giudice di primo grado. Pertanto, in assenza di appello incidentale della
lavoratrice”, alla stessa sarebbe spettato esclusivamente il minore
importo liquidato dal primo giudice.

Avverso tale decisione il Centro Estetico
“V.C.” interpone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi ai
quali oppone difese la lavoratrice con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art.380 bis c.p.c.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione o
falsa applicazione degli artt.111 c.6 Cost., 24 Cost. 132 e 429 c.p.c., 118 disp.
att. c.p.c. ex art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Con riferimento alla reiezione dell’appello, si
deduce che il perito avrebbe quantificato in favore della sig. C., un credito
(euro 42.606,47 al lordo) superiore a quello corrispondente alla liquidazione
operata dal giudice di prima istanza (euro 27.957,23) e la valutazione dei
crediti rispettivi non sarebbe stata effettuata secondo poste omogenee (lordo e
netto).

2. Si impone innanzitutto l’evidenza della
inammissibilità del motivo per la non appropriata tecnica redazionale adottata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte che va qui
ribadita, (vedi ex plurimis, Cass. 8/3/2007 n.5353,
Cass. 29/11/2016 n. 29/11/2016, cui adde Cass. 14/5/2018 n.11603), il vizio
della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n.
3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’ inammissibilità del motivo giusta
la disposizione dell’art.366, n.4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle
norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto,  mediante specifiche argomentazioni
intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in
contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità,
diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere al suo compito
istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la
deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare
indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per
mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel
risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante
specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa
con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera
contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della
sentenza impugnata.

Nello specifico la critica non risulta sorretta da
adeguata enunciazione di ragioni esplicative della violazione di legge in cui
sarebbe incorso il giudice del gravame, essendosi limitata la ricorrente a
dedurre (vedi pag. 9 del ricorso), che la “Corte d’Appello sarebbe incorsa
nell’erronea determinazione di valutare euro 21.392,89 superiore ad euro
27.957,23”, facendo peraltro richiamo all’elaborato peritale stilato in
grado di appello ed alla CTP allegata al ricorso di primo grado, senza
riportare, neanche nelle sue parti salienti, i documenti citati.

L’assunto di parte ricorrente, nei termini
descritti, non sembra peraltro, realizzare la condizione dell’interesse ad
agire.

La ricorrente avrebbe infatti dovuto allegare (e,
conseguentemente, dimostrare), che l’importo liquidato dal giudice di primo
grado fosse superiore a quello effettivamente spettante alla lavoratrice; ma
per quanto sinora detto, la confusa tesi attorea non soddisfa la summenzionata
condizione dell’azione, mirando a riformare una statuizione favorevole alla
società, perché attinente alla condanna al pagamento di una somma inferiore
rispetto a quella oggetto di accertamento in sede peritale.

3. Il secondo motivo prospetta violazione o falsa
applicazione degli artt.91, 92, 132 e 429 c.p.c., 118 disp.
att. c.p.c. in relazione all’art.360 comma
primo n.3 c.p.c.

Sul rilievo che la Corte di merito avrebbe disposto
una riforma dell’inquadramento della originaria ricorrente, non accordando il
terzo livello dall’inizio del rapporto ma solo trascorsi 24 mesi da tale
momento, si deduce che la stessa avrebbe dovuto tener conto della situazione di
reciproca soccombenza fra le parti, ai fini del governo delle spese.

4. Il motivo è privo di fondamento.

In materia di procedimento civile, secondo i
consolidati dicta di questa Corte, il criterio della soccombenza deve essere
riferito alla causa nel suo insieme, con particolare riferimento all’esito
finale della lite, sicché è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la
domanda avversaria sia stata totalmente respinta, a nulla rilevando che siano
state disattese eccezioni di carattere processuale o anche di merito (cfr.
Cass. 2/9/2014 n.18503, Cass. 23/7/2010 n.17351).

Va, poi, rimarcato che la nozione di soccombenza
reciproca, evocata dalla ricorrente a sostegno della critica, in base alla
quale è consentita la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese
processuali (art. 92, comma 2, c.p.c.), si
verifica – anche in relazione al principio di causalità – nelle ipotesi in cui
vi è una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che siano
state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero venga accolta
parzialmente l’unica domanda proposta, sia essa articolata in un unico capo o
in più capi, dei quali siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri
(vedi ex aliis, Cass. 22/8/2018 n.20888).

Nella specie, premesso che la valutazione
dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle stesse rientra nei
poteri discrezionali del giudice di merito, deve ritenersi che la nessuna
situazione di reciprocità nella soccombenza sia configurabile, neanche sotto il
profilo dell’accoglimento parziale della domanda attrice. La circostanza del
riconoscimento della qualifica superiore in relazione ad un periodo più breve
rispetto a quello prospettato dall’attrice, non è ridondato neanche in termini
di riduzione quantitativa della pretesa azionata, avendo la Corte dato atto che
le somme richieste in ricorso e riconosciute dal primo giudice, erano inferiori
a quelle acclarate dal nominato ausiliare.

La statuizione di condanna emessa dai giudici del
gravame, è pertanto conforme al criterio della soccombenza sancito dall’art.91 c.p.c. e non risulta inficiata dalla
critica formulata.

5. Con il terzo motivo si denuncia violazione o
falsa applicazione degli artt.111 c.6 Cost., 24 Cost. 132 e 429 c.p.c., 118 disp.
att. c.p.c. ex art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Si deduce che la Corte di merito abbia reso una
motivazione apparente in ordine ai tempi e modi di svolgimento della
prestazione lavorativa, con particolare riferimento alla prestazione di lavoro
straordinario, avendo disposto un mero rinvio per relationem a quanto accertato
dal giudice di prima istanza, senza specificamente confutare le censure
formulate in atto di appello. Dall’esame della sentenza di primo grado si
evinceva che il convincimento del giudicante circa la durata e la
determinazione dell’orario di lavoro svolto si fondava esclusivamente sulla
deposizione resa dalla teste S.B. sulla cui attendibilità erano state formulate
dettagliaste censure.

6. Il motivo palesa innanzitutto un difetto di
specificità giacché, in violazione dei dettami di cui all’art.366 n. 3, 4 e 6 c.p.c. non è stato riportato
il tenore del ricorso spiegato in sede di gravame, né quello delle
dichiarazioni testimoniali in relazione alle quali si fonda la censura.

 Inoltre non
può sottacersi, con riferimento alla questione inerente al vaglio in
cassazione, della attività interpretativa del quadro istruttorio da parte del
giudice del gravame, che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei
testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova
testimoniale, il giudizio sull’ attendibilità dei testi e sulla credibilità di
alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie,
di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono
apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a
fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre,
non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio
convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a
confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente
disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati
specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (vedi
Cass. 2/8/2016 n.16056, Cass. 31/7/2017 n.19011, Cass. 7/12/2017 n.29404). Con
il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo
una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze
processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito
poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è
preclusa in sede di legittimità.

Del resto la Corte di merito ha reso una motivazione
che non può essere sussunta nella nozione di mera apparenza, avendo dato
contezza del proprio convincimento mediante il richiamo alle dichiarazioni
testimoniali raccolte (deposizione B.) che suffragavano ampiamente la conferma
della statuizione resa dal primo giudice in ordine all’orario di lavoro
osservato dalla C..

7. La quarta critica attiene alla violazione o falsa
applicazione degli artt.111 c.6 Cost., 24 Cost. 132, 244, 429 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c., 2697
c.c., 10 c.2 d. Igs. n.124/2004
ex art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Avuto riguardo alla deposizione resa dalla teste B.,
ci si duole che le dichiarazioni rese non sarebbero rispondenti alle emergenze
documentali attestanti la mancata attivazione di procedure ispettive a carico
della ricorrente negli anni 2001-2005; la teste aveva infatti riferito che
quando gli ispettori si recavano presso il centro, veniva imposto a tutte le
estetiste, di togliere il camice. Tali dichiarazioni, quindi, costituivano
ulteriore ragione di conferma della inattendibilità della testimone in ordine a
tutti i fatti riferiti.

8. Il motivo è inammissibile e comunque infondato.

Inammissibile perché sollecita una rivalutazione
sulla attendibilità delle deposizioni testimoniali operata dalla Corte
distrettuale, non consentita nella presente sede.

Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte
(vedi ex aliis, Cass. 18/4/2016 n. 7623) in materia di prova testimoniale, la
verifica in ordine all’attendibilità del teste – che afferisce alla veridicità
della deposizione resa dallo stesso – forma oggetto di una valutazione
discrezionale che il giudice compie alla stregua di elementi di natura
oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni,
ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in
relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche
all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite).

La valutazione delle risultanze delle prove ed il
giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze
probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione,
involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è
libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più
attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri
elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti; e tale attività
selettiva si estende all’effettiva idoneità del teste a riferire la verità, in
quanto determinante a fornire il convincimento sull’efficacia dimostrativa
della fonte-mezzo di prova, con la conseguente inammissibilità di una tardiva
produzione documentale volta a confutarla, salva soltanto l’eventuale “remissione
in termini” (vedi Cass. 4/7/2017 n. 16467).

La critica è comunque infondata, perché il giudice
del gravame ha congruamente argomentato (vedi pag.11) – in relazione a quanto
argomentato dalla appellante circa la totale assenza di accertamenti ispettivi
da parte della DPL di Cosenza nel periodo di riferimento, laddove la stessa
teste aveva riferito che vi era stato almeno un controllo – in ordine al fatto
che dalla dichiarazione scrutinata non si evinceva che l’unico accertamento
avvenuto nel periodo in cui aveva lavorato presso il centro, fosse ascrivibile
alla Direzione del lavoro di Cosenza osservando, comunque, che si trattava di
profilo della deposizione attinente ad un aspetto marginale della vicenda,
inidoneo ad inficiare la complessiva attendibilità del teste.

9. Con il quinto motivo è denunciata violazione o
falsa applicazione degli artt.111 c.6 Cost., 24 Cost. 132 e 429 c.p.c., 118 disp.
att. c.p.c., d. Igs. n.124/2004 ex art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Ci si duole che la Corte di merito, in ordine alla
qualificazione del rapporto di lavoro inter partes, non abbia conferito
adeguata valenza al nomen juris che le parti avevano assegnato al rapporto
medesimo qualificandolo intermini di “tirocinio retribuito”.

10. La censura è priva di fondamento.

E’ infatti principio consolidato nella
giurisprudenza della Suprema Corte, quello in base al quale Ai fini
dell’individuazione della natura autonoma o subordinata di un rapporto di
lavoro, la formale qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione
del contratto individuale, seppure rilevante, non è determinante, posto che le
parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, potrebbero aver
simulatamente dichiarato di volere un rapporto autonomo al fine di eludere la
disciplina legale in materia (vedi Cass. 19/8/2013 n.19199).

In tal senso, è stato ritenuto che, pur essendo
elemento necessario di valutazione, il nomen juris non costituisce fattore
assorbente occorrendo dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del
rapporto di lavoro (cfr. Cass. 1/3/2018 n.4884).

Ed a siffatti princìpi si è conformato l’iter
motivazionale che innerva l’impugnata sentenza con il quale i giudici del
gravame, all’esito di una accurata ricognizione del quadro probatorio acquisito
hanno reputato sussistenti tutti gli elementi qualificativi del rapporto in
termini di subordinazione, per essere stato dimostrato lo stabile inserimento
della lavoratrice nella compagine organizzativa aziendale, la sottoposizione
alle direttive della parte datoriale cui era rimessa la programmazione della
attività lavorativa, presso i locali e mediante l’uso delle attrezzature del
centro.

In definitiva, al lume delle superiori
argomentazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo
liquidata, con distrazione in favore dell’avv.P.L., dichiaratasi antistataria.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013  sussistono le
condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna Iricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv.P.L..

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2020, n. 24389
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