Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 novembre 2020, n. 24206

Congedo straordinario, Riconoscimento delle quote di
tredicesima maturate nel medesimo periodo, Interessi e rivalutazione su altri
importi retributivi pagati in ritardo, Permessi e riposi riconnessi alle
situazioni di disabilità dei congiunti, Regole di non computabilità per ferie
e tredicesima, Fruizione autonoma e limitata durata, Cumulo con i congedi e
assenze di lunga durata

 

Ritenuto che

 

B.D.T., avendo fruito nell’anno 2006 di un periodo
di congedo ai sensi dell’art. 42,
co. 5, per necessità di assistere il figlio minore malato di leucemia, ha
agito giudizialmente per ottenere il riconoscimento delle quote di tredicesima
maturate nel medesimo periodo e degli interessi e rivalutazione su altri
importi retributivi pagati in ritardo e relativi sempre a tale periodo, oltre
al risarcimento del danno, quantificato in euro 100 mila, in ragione di tali
ritardi e per non averle la P.A. dato notizia, durante la sua assenza, della
data della prova orale di un concorso interno e del fatto che il datore di
lavoro stava contattando i soggetti utilmente collocati in graduatoria per la
firma del contratto, notizie da essa avuto soltanto da alcuni colleghi; la
Corte d’Appello, riformando parzialmente la sentenza di totale di rigetto
emessa in primo grado dal Tribunale di Macerata, ha riconosciuto il diritto
alla maggior somma tra interessi e rivalutazione per i pregressi tardivi
pagamenti ed ha invece disatteso la pretesa inerente alle quote di tredicesima,
sul presupposto che l’art. 43, co.
2, d. Igs. 151/2001, pur prima delle modifiche alla disciplina apportate
dal d. Igs. 119/2011, richiamando le disposizioni di cui all’art. 34, co. 5, escludeva dal
computo della mensilità aggiuntiva i periodi di congedo parentale.

la D.T. ha proposto ricorso per cassazione con
quattro motivi, cui l’Università di Macerata ha resistito con controricorso; il
Pubblico Ministero ha depositato nota scritta con la quale ha insistito per il
rigetto del ricorso;

 

Considerato che

 

con il primo motivo (punto 1 lett. a) la ricorrente
deduce la violazione dell’art. 42,
co. 5, d. Igs. 151/2001, nella versione previgente rispetto alle modifiche
apportate dall’art. 4, co. 1 lett. b) d. Igs. 119/2011, sottolineando come la
norma non rinviasse all’art. 34, co.
5, ma alle regole sulla corresponsione dell’indennità di maternità e quindi
all’art. 22, che a propria volta riconosceva il diritto alla considerazione del
periodo di congedo per il calcolo della tredicesima, anche perché altrimenti
(secondo motivo: punto 1 lett. b) si sarebbe realizzato un trattamento
discriminatorio, in pregiudizio della situazione di disabilità, oltre che una
disparità di trattamento, suscettibile di rilievo sotto il profilo del diritto
di eguaglianza, rispetto al caso del congedo (c.d. obbligatorio) per maternità;

i motivi sono infondati;

iniziando dai profili letterali, è intanto pacifico
che, ratione temporis, non trovi applicazione il comma 5-quinquies aggiunto nel
2011 all’art. 42 e secondo il
quale «il periodo di cui al comma 5 (e dunque il periodo di congedo parentale
per assistenza a congiunti disabili, n.d.r.) non rileva ai fini della
maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine
rapporto»;

tuttavia, il ragionamento della Corte territoriale è
testualmente corretto rispetto alla precedente formulazione delle norme, in
quanto l’art. 43 del d. Igs.
151/2001, nel regolare (così la rubrica) il «trattamento economico e
normativo» degli istituti di cui al capo V, ovverosia (così l’intestazione del
Capo) dei «riposi, permessi e congedi», mentre dedicava il primo comma
espressamente a riposi e permessi, non poneva delimitazioni quanto alla
disciplina di rinvio all’art. 34,
co. 5 (ovverosia al trattamento dei congedi parentali) contenuta nel
secondo comma, la quale andava dunque riferita anche ai congedi regolati nell’art. 42, co. 5, in quanto norma
facente appunto parte di quello stesso Capo;

anche perché la previsione dell’art. 42, co. 5, come in allora
vigente, secondo cui «l’indennità è corrisposta dal datore di lavoro secondo le
modalità previste per la corresponsione dei trattamenti economici di maternità»
non può riferirsi alla portata giuridica ed economica complessiva dell’istituto
ed alle ricadute sulla tredicesima, che è cosa in sé diversa dalla disciplina
della corresponsione, cui soltanto la norma andava riferita nel senso che essa
sarebbe stata a carico del datore di lavoro, tra l’altro senza il recupero
previdenziale di seguito parimenti regolato solo con riferimento al datore di
lavoro privato;

si deve d’altra parte anche considerare che, secondo
l’interpretazione invalsa, permessi e riposi riconnessi alle situazioni di
disabilità dei congiunti, per quanto si sottraggano in generale alle regole di
non computabilità per ferie e tredicesima quando fruiti autonomamente (Cass. 7 giugno 2017, n. 14187; Cass. 7 luglio 2014, n. 15435), in ragione
essenzialmente della loro limitata durata, ricadono invece nella disciplina di
cui all’art. 43, co. 2 e dell’art. 34, co., 5, del d. Igs. 151/2001
allorquando essi si cumulino con i congedi e contribuiscano a determinare
assenze di lunga durata (in senso analogo il parere n. 3389 del 9/11/2005 del
Consiglio di Stato richiamato anche da Cass. 14187/2017 cit.);

tale interpretazione si salda ed è coerente con
quanto qui ritenuto rispetto ai congedi per assistenza a congiunti disabili,
anch’essi suscettibili di lunga durata e quindi di una regolazione meno
favorevole sotto il profilo degli istituti accessori;

neppure è condivisibile la prospettazione di una
possibile illegittimità costituzionale della previsione, per disparità di
trattamento rispetto al caso delle assenze per maternità c.d. obbligatorie, le
quali, ai sensi dell’art. 22, co.,
3, d. Igs. 151/2001 non producono effetti riduttivi sulle ferie e la
tredicesima;

infatti, l’astensione obbligatoria per maternità (o,
quando prevista in sostituzione di essa, per paternità) si associa ad un evento
del tutto unico, quale la sopravvenienza di un figlio ed i corrispondenti
diritti vengono fruiti anche se si tratti di figlio disabile, sicché è palese
la diversità di condizioni rispetto al caso del congedo parentale per la mera
presenza di figli minori o di quello per assistenza ai disabili;

diversità di situazioni che non consente una censura
dell’assetto di sistema quale discrezionalmente impostato dal legislatore, nel
cui ambito peraltro i congedi parentali per presenza di figli minori e quelli
per assistenza a congiunti disabili, tra loro muniti di più forti elementi di
similitudine, sono trattati allo stesso modo;

non vi è pertanto a sollevare alcuna questione di
legittimità per contrasto della normativa con l’art.
3 Cost.;

analogamente non può dirsi fondatamente invocato il
verificarsi di una discriminazione;

è indubbio, come dice la Corte territoriale, che la
discriminazione possa rivolgersi anche verso persone diverse da quella
interessata dal fattore di protezione e che essa ciononostante rilevi se
finisca per comportare un trattamento sfavorevole quale effetto della
situazione differenziale da proteggere: v. Corte di Giustizia 17 luglio 2008,
n. 3030, Coleman, proprio in tema di discriminazione di genitori a causa della
disabilità del figlio;

non può poi essere condivisa l’affermazione della
Corte territoriale in ordine alla mancanza nel caso di specie di un termine di
paragone, ove da intendere nel senso che per ravvisare la discriminazione,
debba necessariamente svilupparsi un raffronto rispetto a persone in concreto
favorite dall’accaduto;

infatti, quello che conta nel diritto
antidiscriminatorio è l’esistenza di un trattamento di sfavore per il
discriminato, da misurarsi attraverso una comparazione in astratto rispetto a
categorie di persone non interessate dal fattore di protezione che si assume
pregiudicato; la motivazione della sentenza impugnata va dunque corretta in tal
senso, aggiungendosi poi, per meglio specificare le ragioni dell’infondatezza
del motivo con cui si ripropone la questione, che il termine di paragone, nel
caso di specie, non può essere dato da chi, non avendo necessità di congedo,
prosegue normalmente nel proprio lavoro; infatti, in tale prospettiva, il
genitore del disabile riceve una protezione, potendosi assentare dal lavoro e
continuare a ricevere un’indennità pari alla retribuzione mensile, e non una
discriminazione; neppure può essere utilmente invocato il paragone con chi
fruisca dei congedi (facoltativi) per altre ragioni parentali diverse dalla
disabilità, in quanto come si è visto il trattamento rispetto a questi casi non
è disomogeneo, ma identico e quindi non può esservi discriminazione; infine,
non può dirsi corretto il raffronto con coloro (madri o, in casi eccezionali,
padri) che fruiscono del diritto all’astensione (c.d. obbligatoria) per nascita
del figlio e il cui trattamento, come si è detto, consente di considerare il
periodo di assenza come utile anche ai fini della tredicesima e delle ferie;

tale situazione, come si disse nel valutare il
problema sotto il profilo del diritto di eguaglianza, non è infatti
paragonabile a quella di chi fruisca del congedo per disabilità del figlio,
perché nell’astensione obbligatoria opera la specifica salvaguardia di una
diversa situazione, data dalla nascita o adozione di un figlio, la quale
peraltro trova applicazione anche quando a sopravvenire sia un figlio disabile,
a ben vedere quindi destinato anch’esso a restare ricompreso e non escluso da
tale tutela;

il terzo e quarto motivo (punto 2 lettere a e b)
censurano la sentenza impugnata per non avere pronunciato sull’eccezione,
proposta con l’atto di appello, di omessa pronuncia da parte del Tribunale rispetto
alla domanda risarcitoria e per avere omesso l’esame di un fatto controverso e
rilevante ai fini della decisione (art. 360 n. 5
c.p.c.), consistente nel complesso di condotte illegittime a cui è
conseguito il danno rivendicato; i motivi sono inammissibili;

anche i motivi processuali, quale l’omessa
pronuncia, devono rispettare i canoni di specificità propri del ricorso per
cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2012, n. 8077);

pertanto, nel denunciare il fatto che il Tribunale
non avesse pronunciato sulla domanda risarcitoria, la ricorrente avrebbe dovuto
trascrivere e non meramente narrare i contenuti di essa quali espressi nel
giudizio di primo grado e trascrivere altresì, almeno per estratto dei passaggi
necessari, la motivazione della sentenza del Tribunale, onde far constare sia
le deduzioni ed allegazioni tempestivamente svolte a fondamento della pretesa,
sia la ricorrenza del vizio denunciato in appello rispetto alla pronuncia di
primo grado;

analogo limite inficia anche il motivo formulato sub
art. 360 n. 5 c.p.c. che avrebbe parimenti
dovuto trovare sostegno nella trascrizione dell’avvenuta allegazione, fin dal
primo grado, delle circostanze inerenti ai fatti asseritamente non valutati;

si determina quindi contrasto con le rigorose regole
di specificità di cui all’art. 366 c.p.c.
(Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione
(Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso
esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 3, 4 e 6 della stessa
disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione
siano idonee a manifestare piena pregnanza, pertinenza e decisività delle
ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare
autonomamente negli atti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v.
ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);

il ricorso va dunque disatteso, ma la novità e
complessità delle questioni di diritto inerenti al regime dei congedi per
disabilità giustifica la compensazione delle spese anche del giudizio di
legittimità;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio
di legittimità. Ai sensi dell’art.
13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso, a norma del comma 1
– bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 novembre 2020, n. 24206
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