Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 ottobre 2020, n. 22075

Violenza privata continuata e di molestie telefoniche, Fatti
commessi nei confronti di una collega di lavoro, Sanzione espulsiva in
presenza di una sentenza di condanna passata in giudicato, Condotta commessa
non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, Lesione del
rapporto fiduciario

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Caltanissetta, con
sentenza n. 130/2018, rigettava l’appello proposto da P.I. s.p.a. avverso la
sentenza del Tribunale di Enna che aveva annullato il licenziamento irrogato il
12 marzo 2010 a O.M.F., a seguito della sentenza penale di patteggiamento
emessa 22 dicembre 2009 dal GIP del Tribunale di Catania per i reati di
violenza privata continuata e di molestie telefoniche, fatti commessi nei
confronti di una collega di lavoro con la quale il F. aveva intrattenuto una
relazione sentimentale.

2. La contestazione disciplinare verteva sulla
fattispecie di cui all’art. 56,
comma 6, lett. h) del CCNL 2007 dei dipendenti di Poste, che prevede la
sanzione espulsiva in presenza di una sentenza di condanna passata in giudicato
per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di
lavoro, quando i fatti costituenti reato possano comunque assumere rilievo ai
fini della lesione del rapporto fiduciario.

3. La Corte di appello premetteva che, benché la
sentenza di patteggiamento non sia tecnicamente configurabile come una sentenza
di condanna, a questa deve essere equiparata in relazione all’interpretazione
delle clausole del contratto collettivo di settore, come affermato più volte
dalla giurisprudenza di legittimità. Tanto premesso, osservava che nella
fattispecie concreta la condotta di cui alla sentenza di patteggiamento non
poteva ritenersi idonea a produrre effetti pregiudizievoli per la prestazione
lavorativa o per l’ambiente di lavoro, in quanto:

– il F. nel gennaio 2009, in pendenza del
procedimento penale, era stato promosso a direttore della filiale di Enna e ciò
denotava come la società riponesse piena fiducia nelle sue capacità gestionali
e operative e non avesse colto in lui segnali di instabilità caratteriale o
psicologica;

– il fatto che il dipendente avesse taciuto circa la
pendenza del procedimento penale a suo carico era in sé irrilevante, potendo
spiegarsi con il carattere personale della vicenda e con il proposito di
mantenere la massima riservatezza sulla vicenda, anche al fine di evitare
possibili danni all’immagine aziendale;

– la vicenda peraltro era estranea al contesto
territoriale di Enna, dove il ricorrente si trovava a disimpegnare le sue
mansioni al tempo del licenziamento;

– infine, la comune veste dei due protagonisti della
vicenda, entrambi dipendenti P.I. s.p.a., costituiva un mero accidente, atteso
che l’appellato e la persona offesa non erano legati da alcun rapporto
gerarchico;

– analoghe considerazioni dovevano essere svolte in
ordine al giustificato motivo soggettivo, tenuto conto che la società
appellante non aveva dimostrato che dalla condotta del dipendente fossero
derivate delle conseguenze tali da compromettere le aspettative di un futuro
puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa o che fossero idonee ad
arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli
scopi aziendali.

4. Per la cassazione di tale sentenza la società
P.I. ha proposto ricorso affidato ad un motivo. Il F. ha resistito con
controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con unico motivo di ricorso si denuncia
violazione degli artt. 1175, 1375, 2119 cod. civ.
e dell’art. 56 CCNL del 2007
dei lavoratori postali, in relazione all’art. 12
preleggi e degli artt. 1362, 1363 e 1366 cod. civ..
(art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.).

Sostiene la società ricorrente che può essere
sindacato in sede di legittimità il giudizio di sussunzione della fattispecie
concreta in quella astratta della giusta causa, atteso che il giudizio espresso
sulla gravità dell’infrazione, fondato su norme di legge, si limita ad indicare
un parametro generale di contenuto elastico e presuppone un’attività di
interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa
attraverso la quale si dà concretezza alla parte mobile della disposizione per
adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale. Detto giudizio di valore
svolge la funzione integrativa delle regole giuridiche e quindi è soggetto al
controllo della Corte di legittimità; la specificazione del parametro normativo
ha natura giuridica e la sua disapplicazione è deducibile in sede di
legittimità come violazione di legge.

Tanto premesso, deduce che la Corte territoriale ha
espresso un giudizio sulla gravità dell’inadempimento e sulla proporzionalità
della sanzione ricorrendo a parametri incongrui. Assume che è errata la
decisione nella parte in cui ha valorizzato, al fine di escludere la gravità
dell’inadempimento, la circostanza della promozione a direttore di filiale
avvenuta in pendenza del processo penale, poiché la Corte di appello aveva
omesso di considerare che la sentenza di patteggiamento era stata emessa il 22
dicembre 2009 e che il lavoratore non aveva informato l’azienda della pendenza
del procedimento a suo carico e del suo esito; pertanto, al momento
dell’attribuzione della reggenza della filiale di Enna, la soc. P.I. nulla
sapeva delle vicende giudiziarie del F. e non poteva certamente affermarsi che
la promozione del lavoratore implicasse acquiescenza datoriale all’esercizio
del potere disciplinare.

Quanto all’interpretazione dell’art. 56 CCNL 2007, comma 6,
lett. h), assume che non appare corretto sostenere che il ruolo di
responsabilità ricoperto dal F. al tempo del licenziamento sia sostanzialmente
irrilevante rispetto alla gravità dei fatti oggetto della sentenza di
patteggiamento. Rileva che la valutazione della condotta del lavoratore deve tener
conto anche del disvalore ambientale che essa assume in virtù della posizione
professionale rivestita dal dipendente, nella specie appunto direttore di
filiale.

2. Il ricorso è meritevole di accoglimento.

3. Il licenziamento oggetto del giudizio attiene alla
previsione del CCNL dei dipendenti P.I. s.p.a. che contempla la possibilità che
sia irrogato il licenziamento senza preavviso al lavoratore che riporta una
“condanna passata in giudicato per condotta commessa non in connessione
con lo svolgimento del rapporto di lavoro, quando i fatti costituenti reato
possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del vincolo
fiduciario”. Il caso in esame attiene ad una sentenza passata in giudicato
recante l’applicazione di pena in esito a patteggiamento per reati commessi al
di fuori del rapporto di lavoro.

Come osservato anche nella sentenza impugnata,
proprio con riferimento a tale previsione contrattuale questa Corte ha
affermato che, nel prevedere l’applicazione della sanzione disciplinare del
licenziamento nell’ipotesi di “condanna” del dipendente, il contratto
collettivo si interpreta nel senso che è sufficiente che sia stata pronunciata,
nei confronti del lavoratore, sentenza di patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen., dovendosi ritenere che
le parti contrattuali abbiano voluto con tale previsione dare rilievo anche al
caso in cui l’imputato non abbia negato la propria responsabilità ed abbia
esonerato l’accusa dall’onere della relativa prova in cambio una riduzione di
pena (Cass. n. 2168 del 2013, n. 3980 del 2016; v. pure, Cass. n 21591 del 2013, n. 30328 del 2017).

4. Tanto premesso, in via generale va osservato che
l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 cod. civ., compiuta dal giudice di
merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non
può essere censurata in sede di legittimità allorquando detta applicazione
rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti
accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il
sindacato di legittimità ex art. 360, primo comma,
n. 3, cod. proc. civ. nei casi in cui gli standard valutativi, sulla cui
base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi
costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme
suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in
contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica
applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come
diritto vivente (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. n. 7305 del 2018).

Il giudizio espresso dal giudice di merito consiste
nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma
elastica (che, per la sua stessa struttura, si limita ad esprimere un parametro
generale); in questo caso, il giudice di merito compie un’attività di
interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, dando
concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa, introdotta per
consentire alla norma stessa di adeguarsi ai mutamenti del contesto
storico-sociale (cfr. ex plurimis, Cass. n. 5095 del 2011, n. 6498 e n. 15654 del 2012, n. 16268 e 16524 del
2015, n. 24023 del 2016).

5. Nel caso in esame, il ricorso per cassazione
denuncia la fallacia logica degli elementi di fatto valutati dal giudice di
merito nell’operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella
astratta della giusta causa.

6. La prima – fondata – censura attiene al fatto che
non poteva essere valorizzato in favore del ricorrente l’elemento della
promozione a direttore di filiale, poiché la società datrice di lavoro
ignorava, in quel momento, la pendenza del procedimento penale a carico del F.,
il quale nulla aveva riferito in proposito al proprio datore di lavoro. Poiché
P.I. nulla sapeva della vicenda giudiziaria pendente, è logicamente evidente
che la promozione del lavoratore non poteva essere utilizzata per ipotizzare
una acquiescenza datoriale all’esercizio del potere disciplinare e, di
conseguenza, non poteva la stessa circostanza costituire un valido argomento da
porre a base del ragionamento decisorio.

7. Risulta fondata anche la seconda censura che
investe gli altri elementi di valutazione che la Corte di appello ha
valorizzato a fondamento del decisum: a) la circostanza che il F. e la persona
destinataria degli atti persecutori, seppure entrambi dipendenti di P.I., non
fossero all’epoca dei fatti legati da alcun vincolo gerarchico all’interno
della società; b) il contesto territoriale in cui si svolsero i fatti, diverso
da quello di Enna, dove il F. si trovava a svolgere le sue funzioni di
direttore al tempo del licenziamento; c) l’avere il F. taciuto della pendenza
del procedimento penale per evitare possibili danni all’immagine aziendale.

Nessuno di tali elementi può ritenersi validamente
apprezzabile, ove si consideri: quanto alla circostanza sub a), che la
valutazione della gravità di una condotta extralavorativa, come tale esulante
dallo svolgimento delle mansioni, ben può prescindere dall’esistenza o meno di
un rapporto gerarchico, come pure dall’esistenza di un rapporto di colleganza,
tra il soggetto attivo e la parte lesa; quanto alla circostanza sub b), che non
è stato chiarito dalla Corte di appello in quali termini il diverso contesto
territoriale in cui si svolsero i fatti, rispetto al luogo e al tempo
dell’esercizio delle funzioni direttive da parte del F., avrebbe inciso
favorevolmente ai fini di escludere la rilevanza dei fatti commessi nel
giudizio di valutazione della giusta causa di licenziamento; quanto alla
circostanza sub c), che la volontà di tenere nascosta la vicenda giudiziaria
non depone in sé, in modo univoco, in assenza di ulteriori specificazioni, che la
sentenza non offre, per la ritenuta intenzione del dipendente di non nuocere
all’immagine aziendale.

8. In conclusione, l’incongruità o l’inconsistenza
degli elementi valorizzati e sui quali il giudizio si fonda, ne inficia
l’intero impianto argomentativo, restando privo di valido sostegno
logico-giuridico il giudizio secondo cui i fatti-reato commessi dal F. –
peraltro neppure chiariti nei termini sostanziali, seppure ritenuti
riconducibili alla attuale fattispecie delittuosa di cui all’art. 612-bis cod. pen., come pure evidenziato
nella sentenza impugnata -, non sarebbero idonei a integrare la giusta causa di
licenziamento.

9. Per tali assorbenti motivi, il ricorso va accolto
e la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio,
alla Corte di appello di Caltanisetta in diversa composizione, che provvederà
ad un nuovo esame dei motivi di appello.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Caltanissetta in diversa
composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 ottobre 2020, n. 22075
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