Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 dicembre 2020, n. 29455

Rapporto di lavoro, Docente a tempo determinato, Corretto
inquadramento di anzianità, Diritto, Accertamento, Modifiche apportate con
il C.C.N.L.

 

Fatti di causa

 

I.E., già docente a tempo determinato e poi
transitata in ruolo, ha agito davanti al Tribunale di Torino per far accertare
il diritto al corretto inquadramento di anzianità, secondo la cadenza temporale
delle corrispondenti fasce retributive (0-2; 3-8; 9-14 etc.) preesistenti,
rispetto alle modifiche apportate con il C.C.N.L.
del 4.8.2011, con il quale è stata eliminata la prima fascia, modificandosi
così la cadenza dell’anzianità (divenuta 0-8; 9-14 etc.).

Il Tribunale di Torino, ritenuta la sussistenza dei
relativi presupposti, ha impostato procedimento ex art. 64 d.p.r. 165/2001
coinvolgendo le parti sindacali ed ha quindi provveduto con sentenza non
definitiva, dichiarando la nullità dell’art. 2, co. 2 e 3 del CCNL comparto
scuola 4 agosto 2011 nella parte in cui prevedono il mantenimento delle
fasce di anzianità preesistenti per il solo personale a tempo indeterminato e
non per il personale a tempo determinato che abbia maturato la medesima
anzianità di servizio.

Il Tribunale ha ritenuto che tale conclusione fosse
resa necessaria dall’osservanza della norma imperativa di cui all’art. 6 d. Igs. 368/2001, di
derivazione eurounitaria, nonché dall’assenza di ragioni obiettive idonee a
giustificare la disparità di trattamento.

Il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della
Ricerca (d’ora in poi: MIUR) ha proposto ricorso immediato ai sensi dell’art. 64 d. Igs. 165/2001
con due motivi, resistiti dalla controparte con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo il MIUR adduce la violazione e/o
falsa applicazione (art. 360 n. 3 c. p.c.)
dell’art. 2, co. 2 e 3 C.C.N.L.
comparto scuola del 4 agosto 2011, nonché degli artt.
1362, 1363 e 1364
c.c.

Il secondo motivo denuncia invece, sempre ai sensi
dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione della
clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva
1999/70/CE, nonché degli artt.
485, 489 e 569 d. Igs. 297/1994 e dell’art. 2697 c.c.

Il Ministero sostiene in sostanza, da diversi punti
di vista, che la ragione obiettiva atta a giustificare il diverso trattamento è
da individuare nel piano straordinario di assunzioni di docenti a tempo
indeterminato, finanziariamente non sostenibile, se non riducendo l’incidenza
dell’anzianità per i neoassunti.

Il MIUR rimarca altresì come, in un’ottica di
bilanciamento, diverso era da ritenere l’affidamento maturato dai docenti già
di ruolo, con riguardo al mantenimento delle fasce preesistenti, rispetto al
sacrificio richiesto ai docenti precari – consistente nella riduzione delle
fasce stipendiali nei loro confronti – tanto più che tale sacrificio poteva
considerarsi compensato dal suddetto piano straordinario di assunzioni.

Preliminarmente, va detto che la sentenza sulla
(sola) questione pregiudiziale inerente alla contrattazione collettiva va
certamente impugnata in via autonoma rispetto alla pronuncia sul merito.

Al di là del fatto che si tratti di sentenza inerente
soltanto ad una “questione”, certamente non opera l’art. 360, co. 3, c.p.c. (secondo cui non sono
immediatamente impugnabili per cassazione le sentenze che decidono «di
questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio»), essendo
espressamente previsto dall’art.
64, co. 3, d. Igs. 165/2001 che la sentenza sull’accertamento pregiudiziale
debba essere impugnata per cassazione con ricorso «immediato» ed entro
«sessanta giorni dalla comunicazione» e che sia emessa sentenza sulla «so/o»
questione pregiudiziale, con disciplina palesemente speciale che non consente
di ragionare in termini diversi da quelli di una, come detto doverosa,
impugnazione immediata.

Al punto che, per il caso contiguo di cui all’art. 420-bis c.p.c., si è ritenuto che la
decisione del profilo pregiudiziale in una con il merito sia addirittura
ostativo al ricorso per cassazione per saltum quale regolato in quella sede
dall’art. 64, co. 3
cit. (Cass 24 settembre 2010, n. 20238).

Ciò posto, deve procedersi preliminarmente alla
verifica in ordine alla pertinenza di quanto oggetto del giudizio rispetto alle
fattispecie per le quali è consentito il ricorso allo speciale procedimento di
accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei
contratti collettivi nel pubblico impiego, ai sensi dell’art. 64 d.p.r. 165/2001.

Per quanto in effetti il procedimento si apra sulla
base di un’ordinanza che la norma definisce come “non impugnabile”,
ciò non esclude infatti che il menzionato controllo vada comunque svolto, in
sede di legittimità ed anche d’ufficio.

L’ordinanza è in effetti non impugnabile, ma solo
all’interno del subprocedimento instaurato dal Tribunale.

Viceversa, una volta che si giunga alla definizione
con sentenza del profilo incerto (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1076), quest’ultima,
anche rispetto ai presupposti che consentono l’applicazione del procedimento
speciale, è non solo impugnabile, ma anche controllabile in sede di
legittimità, qualora in concreto una delle parti proponga ricorso per
cassazione anche per altri motivi (per un caso sotto questo profilo analogo, v.
Cass. 28 aprile 2014, n. 9343).

Ciò è indubbiamente giustificato dalla efficacia
rafforzata che deriva dalla decisione, allorquando essa promani dalla Suprema
Corte, secondo quanto delineato dall’art. 64, co. 7, nel senso
che, in altri giudizi tra altre parti, un nuovo subprocedimento accertativo
secondo le modalità in esame può avere luogo non più in presenza soltanto di
una seria e reale questione interpretativa (presupposti che, secondo Corte Cost. 7 giugno 2002, n. 233 e Corte Cost. 5
giugno 2003, n. 1999 stanno alla base del procedimento; in senso analogo, v. Cass. 15 maggio 2008, n. 12328), ma soltanto
qualora il giudice ritenga di non adeguarsi a quanto statuito in sede di
legittimità, al punto che la pronuncia finale è stata intesa come tale da
consentire di pervenire ad una sorta di «rimozione erga omnes della situazione
di incertezza» (Corte Cost. 199/2003 cit.), o, secondo quanto più puntualmente
precisato da questa Corte (Cass. 25 giugno 2014,
n. 14356) rispetto al contiguo ambito dell’art.
420-bis c.p.c., come «strumento processuale volto a provocare una pronuncia
tendenzialmente capace di “vincolare” – in realtà, di orientare –
tutti i giudici investiti, anche in futuro, della medesima questione»,
mancando, in effetti, «per i giudici diversi da quello che ha pronunciato la
sentenza …. un vero e proprio vincolo interpretativo, che del resto non
sarebbe compatibile con il precetto dell’art. 101
Cost., comma 2, che vuole i giudici essere soggetti soltanto alla legge»).

Procedendo quindi a tale doveroso controllo sui
presupposti del procedimento, si rileva come essi consistano, per un verso, nel
fatto che «sia necessario» (art.
64 cit., co. 1) risolvere la questione riguardante il contratto collettivo
al fine di dirimere la controversia (requisito di rilevanza, di cui si dirà
anche in prosieguo) e, per altro verso, che si tratti di questione relativa
alla efficacia, validità o interpretazione di esso (presupposti della particolare
fattispecie processuale).

Per i fini appena enunciati è peraltro necessario
ricostruire dapprima la portata della sentenza impugnata e, quindi, la
fattispecie interessata ed il suo regime giuridico.

Il Tribunale di Torino, pur argomentando anche sull’irrilevanza
delle finalità di contenimento della spesa pubblica, ha indubitabilmente
ritenuto che, nel caso di specie, quella coinvolta fosse una questione di
nullità di mero diritto interno della clausola contrattuale collettiva, per
contrasto con la norma imperativa individuata nel principio di non
discriminazione dei lavoratori a tempo determinato di cui all’art. 6 d. Igs. 165/2001
(ora confluito nell’art. 25 d.
Igs. 81/2015).

Questione di nullità che, in effetti, manterrebbe il
procedimento nell’ambito dei presupposti di cui all’art. 64 cit.

L’impostazione non può tuttavia essere condivisa,
sia per ragioni generali, sia per ragioni più specifiche e proprie del sistema
scolastico.

La vicenda da cui nasce il contendere risale, dal
punto di vista normativo, all’art.
9, co. 17, d.l. 70/2011 (…), norma secondo la quale «per garantire
continuità nella erogazione del servizio scolastico e educativo» e per
«conferire il maggiore possibile grado di certezza nella pianificazione degli
organici della scuola», si sarebbe dovuto procedere ad un «piano triennale per
l’assunzione a tempo indeterminato, di personale docente, educativo ed ATA, per
gli anni 2011-2013», il tutto peraltro «in esito ad una specifica sessione
negoziale concernente interventi in materia contrattuale per il personale della
Scuola» (scaturita poi nel contratto collettivo in questione), cui era
espressamente demandato il compito di assicurare il rispetto di un criterio di
invarianza finanziaria.

Lo stesso c.c.n.I., nel proprio preambolo, precisa
che proprio «per garantire la sostenibilità economica e finanziaria del piano e
la conseguente immissione in ruolo del personale è necessario procedere ad una
rimodulazione delle posizioni stipendiali contrattualmente previste».

Di qui il riconoscimento ai neoassunti di un regime
di incrementi retributivi per anzianità meno favorevole, in quanto le due fasce
preesistenti (0-2 e 3-8) venivano ridotte ad una soltanto (0-8) e
l’equiparazione stipendiale con il personale già in ruolo avveniva solo con
l’ingresso nella fascia ancora superiore (9-14). Indirettamente, in conseguenza
dell’espressa previsione per cui solo in favore di chi già fosse in ruolo vi
sarebbe stato il mantenimento ad personam del regime pregresso delle fasce di
anzianità, si è finito per escludere il rilievo dell’anzianità pregressa per il
personale precario, realizzando quindi, in contrasto con i sopravvenuti
pronunciamenti di questa Corte (Cass. 23 novembre 2016, n. 23868 e successive
sempre conformi), la disparità di trattamento su cui fa leva la lavoratrice in
questa causa.

La vicenda giuridica non può peraltro essere
apprezzata astraendola dal contesto storico di crisi economica di quel periodo,
immediatamente antecedente ad una notoria drammatica dialettica con le
organizzazioni dell’Unione ed alla formazione di un governo di emergenza.

Il rinvio alla contrattazione collettiva quale mezzo
cui veniva demandato, non come limite, ma espressamente come compito,
l’assicurazione degli equilibri finanziari dell’operazione impostata dal
legislatore, è segno dell’eccezionaiità dell’intervento e dei margini
assicurati all’ambito sindacale (sul tema v. anche Corte
Costituzionale 23 luglio 2015, n. 178), la cui legittimità, sotto il
profilo dei trattamenti che da esso sarebbero derivati, non può essere misurata
ex post sulla base della norma interna, generalmente destinata alla parità di
trattamento tra lavoratori a tempo determinato ed a tempo indeterminato (l’art. 6 d.lgs. 368/2001, su cui
argomenta il Tribunale o, in ipotesi, l’art. 45 del d. Igs. 165/2001),
quanto piuttosto sulla base della conformità di tale trattamento, quale nel
complesso derivante dall’art. 9,
co. 17 cit. e dal susseguente contratto collettivo, rispetto ai principi più
ampi, di matrice eurounitaria, che delineano il contesto ultimo ed invalicabile
della specifica disciplina antidiscriminatoria in esame, di cui si dirà meglio
in prosieguo, qui in particolare sotto il profilo del legittimo (o meno)
perseguimento di ragioni di politica sociale.

Neppure può sottacersi che la direttiva sul lavoro a
tempo determinato è in sé estranea alle dinamiche retributive o alle
modulazioni degli stipendi, che sono regolate esclusivamente dal diritto
interno e, in esso, dalla contrattazione collettiva (art. 2, co. 3, d. Igs. 165/2001
e v. ancora Corte Cost. 178/2015, cit.),
preoccupandosi le predette norme eurounitarie soltanto di assicurare che non vi
sia disparità di trattamento economico tra lavoratori a termine e lavoratori a
tempo indeterminato, in assenza di ragioni giustificative. Così come in ambito
europeo può rilevare il rispetto dei limiti di spesa pubblica, ma non
necessariamente i modi attraverso cui tale risultato sia ottenuto.

D’altra parte, per quanto più in specifico attiene
al sistema scolastico, per la parificazione, quanto ad anzianità, tra docenti a
tempo determinato e a tempo indeterminato, è necessario agire non solo sulla
norma collettiva del 2011 in esame, ma anche sulle norme collettive che, fin da
prima, prevedevano che, per i supplenti, il trattamento economico dovesse ad
ogni assunzione essere commisurato a quello iniziale stabilito per il personale
a tempo indeterminato di pari qualifica (art. 47 del CCNL 4.8.1995 per il
quadriennio normativo 1994/1997 ed il biennio economico 1994/1995).

La parificazione è in sostanza effetto di un
procedimento in duplice grado che transita per la previa disapplicazione delle
norme contrattuali appena citate e, in un momento logicamente successivo, per
la disamina delle ricadute di tale prima parificazione sulle diversificazioni
conseguenti alla disciplina collettiva del 2011. Tuttavia, la giurisprudenza di
questa Corte, fin dall’arresto iniziale e mai abbandonato di Cass. 23 novembre
2016, n. 23868 ha ritenuto, in implicita osservanza del principio di fondo per
cui i trattamenti economici sono fissati dalla contrattazione collettiva (art. 2, co. 3, d. Igs. 165/2001),
che non venisse in rilievo una questione di legittimità di diritto interno da
parametrare sulle regole di cui al d. lgs. 368/2001,
quanto piuttosto una questione di diretto rapporto tra quelle regolazioni
collettive e la disciplina eurounitaria (Cass. 23868/2016 cit., punto 2.4).
Tale dinamica non può non essere confermata nell’operazione di raffronto
rispetto all’ulteriore disparità che deriva dalla contrattazione collettiva del
2011, sicché non si può discorrere di una nullità di puro diritto interno.

Il tema, così impostato, colloca quindi la questione
dibattuta nel rapporto esistente tra diritto eurounitario e disciplina
collettiva.

L’assetto sostanziale della disciplina eurounitaria
sul divieto di discriminazione tra lavoratori a tempo determinato ed a tempo
indeterminato è nel senso che a giustificare una differenza di trattamento tra
i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato «non
basta il fatto che tale differenza sia prevista «da una norma nazionale
generale e astratta, quale una legge o un contratto collettivo» (Corte di Giustizia 5 giugno 2018, Montero Mateos,
punto 56 e la giurisprudenza ivi citata; Corte di
Giustizia 20 settembre 2018, Motter, punto 36). Viceversa, per essere
legittima, la diversità di trattamento deve essere «giustificata dalla
sussistenza di elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione
di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in
base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità
risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito
e risulti a tal fine necessaria. Tali elementi possono risultare, segnatamente,
dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono
stati conclusi contratti a tempo determinato, dalle caratteristiche inerenti a
queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di
politica sociale di uno Stato membro» (così Corte
di Giustizia 5 giugno 2018, Montero Mateos, punto 56, con richiamo a Corte di Giustizia 13 settembre 2007, Del Cerro
Alonso, punto 53, Corte di Giustizia 14 settembre 2016, de Diego Porras, punto
45 e Corte di Giustizia 22 marzo 2018, Centeno Meléndez, punto 65)».

La regola di diritto eurounitaria è dunque
riassumibile nel senso che la disparità di trattamento tra lavoratori a tempo
determinato ed a tempo indeterminato non è consentita, a meno che la
specificità delle funzioni la giustifichi (sicché viene a mancare nel dettaglio
l’elemento della c.d. “comparabilità), oppure se a fondamento vi sia una
“legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro”.

La questione consequenziale, rilevante ai fini del
decidere, è quella degli effetti di tale regola di diritto rispetto alla
contrattazione collettiva interna che si assuma essere in contrasto rispetto ad
essa.

Dalla norma eurounitaria deriva che il diritto del
lavoratore a tempo determinato ad ottenere un trattamento a lui disconosciuto
ed applicato a favore di un lavoratore a tempo indeterminato nel diritto
interno, individua come fatto costitutivo l’identità dell’attività lavorativa
in generale (comparabilità, in senso positivo) e per fatti impeditivi o
modificativi, per un verso, l’eventuale difformità di alcuni aspetti decisivi
della prestazione (comparabilità, in senso negativo) oppure, per altro verso,
l’esistenza di legittime ragioni di politica sociale.

Si tratta di una fattispecie complessa, la cui
articolazione ha radice nel fatto che quello in esame non è un fattore di
discriminazione attinente a situazioni fondamentali della persona umana (età,
genere, sesso, disabilità, opinioni personali etc.) ma ad un profilo lato sensu
economico, fondato su una condivisa esigenza di parità di trattamento in ambito
lavorativo, la quale però impone la ricorrenza di rigorosi parametri di
raffronto (comparabilità) e consente deroghe per esigenze di interesse generale
(legittime finalità di politica sociale).

La norma del contratto collettivo che qui viene in
evidenza non contempla in alcun modo tali specifici elementi di fattispecie.

Non può quindi ritenersi che tutto si possa ridurre,
nel rapporto tra la fattispecie eurounitaria e la fattispecie della
contrattazione collettiva, ad un problema di nullità, né tanto meno la regula
iuris ultima può essere definita incorporando, come accade ove si possa operare
con la mera inserzione automatica di clausole (art.
1339 c.c.) la fattispecie eurounitaria all’interno della fattispecie
regolata dal contratto collettivo.

Si tratta invece di fattispecie che corrono tra loro
parallele ed il cui contrasto resta regolato, come del resto questa S.C. ha
sempre ritenuto in questa materia (v. Cass. 23868/2016, cit.; Cass. 7 febbraio
2020, n. 2924; Cass. 28 novembre 2019, n. 31149) attraverso il regime della
c.d. disapplicazione della norma interna nella parte di essa che risulti in
contrasto con quella eurounitaria e con applicazione diretta di quest’ultima,
in quanto giuridicamente prevalente.

Disapplicazione che, secondo l’insegnamento della
Corte Costituzionale, è un «modo di risoluzione delle antinomie normative che,
oltre a presupporre la contemporanea vigenza delle norme reciprocamente
contrastanti, non produce alcun effetto sull’esistenza delle stesse e,
pertanto, non può esser causa di qualsivoglia forma di estinzione o di
modificazione delle disposizioni che ne siano oggetto», ferma restando
«l’esigenza che gli Stati membri apportino le necessarie modificazioni o
abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali
incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie» (Corte
Costituzionale 11 luglio 1989, n. 389).

Così definito il rapporto tra le norme di cui si
assume il contrasto, ne derivano evidenti conseguenze rispetto alla questione
oggetto del presente contenzioso.

Se infatti la fattispecie che fonda il diritto
rivendicato è quella derivante dal diritto europeo e non quella derivante dal
diritto interno, ciò significa che ne resta coinvolto, quanto a qualificazione
giuridica, esclusivamente il diritto eurounitario e solo collateralmente,
ovverosia con riferimento al trattamento rispetto al quale va effettuata
l’equiparazione, il diritto interno, sicché non può dirsi ricorrere una questione
pregiudiziale sul contratto collettivo.

Del resto, se si dovesse ritenere insussistente una
discriminazione, neppure si potrebbe parlare di un serio e reale dubbio
interpretativo (presupposto che si è visto costituire requisito del
procedimento, secondo le pronunce delle Corte Costituzionale sopra citate ed
anche secondo Cass. 12328/2008 cit.), in
quanto la norma collettiva, la cui efficacia non è di per sé in discussione, è
testualmente del tutto chiara nel riferire le regole di salvaguardia solo agli
assunti a tempo indeterminato e dunque neppure da questa angolazione si
potrebbero ritenere sussistenti i presupposti per una questione ex art. 64 d. Igs. 165/2001.

Infine, è evidente che la fattispecie di cui all’art. 64 è del tutto
eccezionale e non tollera interpretazioni estensive (Cass. 25 novembre 2005, n.
24865; analogamente, poi, in ordine di tempo, Cass.
21 febbraio 2008, n. 4505; Cass. 2 marzo 2009,
n. 5025; Cass. 19 marzo 2010, n. 6748; v.
anche Cons. Stato, Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 5414 che parla in proposito di
“assoluta specialità”), sicché può concludersi nel senso che il
procedimento di accertamento pregiudiziale sia stato attivato per un’ipotesi
rispetto alla quale esso non è previsto.

Pertanto, l’accertamento della discriminatorietà, in
tema di raffronto tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo
indeterminato, intesa come diversità di trattamento non legittimata dalle
ragioni giustificatrici (non comparabilità/legittime ragioni di politica
sociale) evidenziate dalla Corte di Giustizia, deve svolgersi, anche sotto il
profilo istruttorio e del più ampio respiro che deriva dalla scansione su due
gradi di giudizio, secondo le regole ordinarie.

Con la conseguenza, qualora tale discriminatorietà
sussista, della diretta applicazione dell’effetto eurounitario della parità di
trattamento oppure, qualora non sussista (per non comparabilità o per il
ricorrere di un legittimo esercizio di politiche sociali) con il rigetto della
domanda, ma esclusivamente per il ricorrere di un caso di legittimità
eurounitaria dell’operato interno, nonostante il diverso trattamento applicato.

In sostanza, tornando al ragionamento iniziale,
viene a mancare in questo caso quel requisito di “rilevanza” che deve
ricorrere perché la questione interpretativa attivi il procedimento speciale di
accertamento pregiudiziale (Cass. 5 marzo 2008, n.
5950 e, rispetto al procedimento ex art.
420-bis c.p.c., Cass. 14356/2014).

Il disconoscimento dei presupposti specifici che
consentono il ricorso al procedimento di accertamento pregiudiziale comporta
l’annullamento della statuizione del Tribunale e il rinvio per la prosecuzione
del giudizio di merito sulla base dell’inquadramento giuridico qui affermato,
in forza del quale, valutata la ricorrenza o meno di una illegittima
discriminazione secondo il diritto eurounitario, dovrà decidersi la causa.

 

P.Q.M.

 

Decidendo sul ricorso lo accoglie nei termini di cui
in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del
giudizio di cassazione, al Tribunale di Torino, in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 dicembre 2020, n. 29455
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