Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 dicembre 2020, n. 29115

Demansionamento, Risarcimento del danno alla professionalità
– Rapida obsolescenza ed evoluzione delle conoscenze tecniche nel settore,
Danno relazionale di immagine, Corretto inquadramento del lavoratore,
Procedimento logico-giuridico c.d. trifasico

 

Rilevato

 

che il Tribunale di Trani, con sentenza resa il
19.12.2013, ha respinto il ricorso – per carenza di prova in ordine al dedotto
demansionamento – proposto da F.C., nei confronti di T.I. S.p.A., diretto ad
ottenere l’attribuzione di mansioni equivalenti a quelle effettivamente
espletate sino al mese di febbraio del 2002; la dichiarazione di illegittimità
della sanzione pecuniaria irrogata dalla società con lettera del 32.12.2002 a
causa del rifiuto del ricorrente di <<svolgere attività
demansionata>>; il risarcimento del danno alla professionalità
conseguente al demansionamento, aggravato dalla rapida obsolescenza ed
evoluzione delle conoscenze tecniche nel settore di specializzazione e del
danno relazionale di immagine, nell’ambito dell’ambiente di lavoro, subito dal
mese di marzo 2002; nonché la dichiarazione di illegittimità dell’adozione
della procedura informatizzata FAS di controllo a distanza dell’attività
lavorativa del medesimo, per violazione dell’art. 4 della I. n. 300 del 1970,
con il conseguente ordine alla società datrice della dismissione di tale
procedura; che la Corte di Appello di Bari, con sentenza pubblicata in data
1.8.2016, in parziale accoglimento del gravame interposto da F.C. avverso la
pronunzia di prima istanza, ha ordinato alla società datrice di attribuire al
lavoratore mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte sino al mese
di marzo 2002, condannando la stessa a risarcire il danno cagionato
all’appellante ed a corrispondere al medesimo, a tale titolo, un importo pari a
1/3 delle retribuzioni percepite dalla data del demansionamento, oltre
accessori di legge, sino a quella della cessazione della condotta illegittima;
ha, altresì, dichiarato la illegittimità della sanzione disciplinare irrogata
al C. in data 3.12.2002, nonché la illegittimità dell’adozione della procedura
informatizzata FAS di controllo a distanza dell’attività lavorativa del dipendente;

che per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso T.I. S.p.A. articolando cinque motivi, ulteriormente illustrati da
memoria;

che F.C. ha resistito con controricorso; che il P.G.
non ha formulato richieste.

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) la violazione e
falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
e si lamenta che la decisione assunta dalla Corte distrettuale avrebbe
<<completamente omesso di interpretare ed applicare l’art. 2103 c.c. alla luce del principio di
“bilanciamento di interessi” previsto nei casi di ristrutturazione
aziendale>>, ritenendo che il C. avrebbe subito un demansionamento, in
quanto presso il settore CLPS, al quale è stato addetto sino al mese di marzo
del 2002, si occupava di interventi di manutenzione su apparati tecnologici
avanzati e su clienti di rilevanti dimensioni, mentre presso il settore CLU si sarebbe
occupato solo di attività manuali meno qualificanti; a parere della società
datrice, dunque, la decisione dei giudici di appello sarebbe frutto di una
<<erronea interpretazione delle declaratorie contrattuali previste dalla
contrattazione collettiva di settore>>, in particolare del CCNL del 2000
e di quello del 1992, poiché, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza
impugnata, <<le attività cui era stato preposto il C. sono sussumibili
nelle previsioni contrattuali delineate dall’art. 23 del ccnl del 2000, ovvero
nel 4° livello>; pertanto, la Corte di merito avrebbe errato nel <<
ritenere che il dedotto demansionamento sia stato la conseguenza della mera
assegnazione da parte della T. del dipendente ad un settore diverso, in quanto
ciò non ha comportato una misura inferiore di responsabilità>>; 2) in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
la violazione dell’art. 2729 c.c. in relazione
agli artt. 1218, 1223
e 2043 c.c., per avere i giudici di secondo
grado ammesso presunzioni semplici sul danno da demansionamento nonostante esse
non fossero né precise, né gravi, omettendo del tutto di considerare che il
risarcimento del danno deve essere perentoriamente provato; 3) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la
nullità della sentenza per violazione dell’art. 112
c.p.c., <<perché la sentenza ha pronunciato oltre i limiti della
domanda nella parte in cui ha liquidato il danno da demansionamento fino alla
data di cessazione della condotta illegittima anziché sino alla data di
iscrizione del ricorso introduttivo del giudizio>>; 4) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione dell’art. 1460 c.c., per avere la
Corte territoriale ritenuto illegittima la sanzione disciplinare conservativa
comminata al C., considerandola, sulla base di una erronea interpretazione ed
applicazione dell’eccezione di inadempimento, <<del tutto ingiustificata,
innanzitutto e in via decisiva perché il ricorrente, non avendo nella fase
transitoria della ristrutturazione elementi necessari, non poteva attendere
all’attività richiestagli, così come avveniva anche per gli altri suoi colleghi
di lavoro di provenienza CLPS che si vedevano costretti a rifiutare
regolarmente tali lavori, senza peraltro reazioni disciplinari da parte della
società. … Appare allora pertinente il richiamo all’eccezione di
inadempimento ex art. 1460 (ex multis Cass., 12
luglio 2002, n. 10187). 5) in riferimento all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 100
c.p.c.e 4 della I. n. 300 del 1970,
per non avere i giudici di seconda istanza considerato che il sistema FAS, alla
data della pronunzia della Corte di Appello, era stato oggetto di un accordo
sindacale ex art. 4 della I. n.
300 del 1970 e non consentiva a T. il libero controllo della prestazione
lavorativa, ed altresì, che tale sistema, sin dalla sua installazione, si
limitava a registrare i dati lavorativi che i tecnici dichiaravano nel corso
delle loro attività manutentive, senza alcun controllo e registrazione automatici
del sistema;

che il primo motivo non è fondato; con esso,
all’evidenza, si censura, nella sostanza, il fatto che i giudici di seconda
istanza avrebbero omesso il procedimento logico-giuridico c.d. trifasico,
ritenuto necessario, alla luce del consolidato orientamento della Suprema
Corte, per il corretto inquadramento del lavoratore; non avrebbero, cioè,
accertato quali attività lavorative svolgesse in concreto il dipendente, non
avrebbero proceduto all’individuazione delle qualifiche previste dai CCNL di categoria
applicabili alla fattispecie ed infine, non avrebbero operato il raffronto tra
il risultato della prima indagine e le declaratorie contrattuali individuate
nella seconda;

che questo Collegio osserva, al riguardo, che la
Corte di Appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il
profilo logico-giuridico, è pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di
legittimità dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria
espletata in primo grado ed uniformandosi ai consolidati arresti
giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali il procedimento
logico-giuridico che determina il corretto inquadramento di un lavoratore
subordinato si compone di tre fasi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 17163/2016): l’accertamento in fatto
dell’attività lavorativa svolta in concreto; l’individuazione delle qualifiche
e gradi previsti dal CCNL di categoria; il raffronto dei risultati delle
suddette fasi (v., in particolare, le pagg. 6-8 della sentenza impugnata);

che, sulla scorta, quindi, degli elementi delibatori
emersi e della corretta interpretazione delle declaratorie contrattuali, la
Corte di Appello ha preso atto del fatto che il dipendente, <<dapprima
destinato a mansioni specialistiche rivolte a clienti di rilevanti dimensioni,
che presupponevano l’utilizzo di specifici strumenti di lavoro ed il
coordinamento di persone addette a qualifiche inferiori, è stato
successivamente assegnato, in termini di prevalenza qualitativa, quantitativa e
temporale, a mansioni esecutive di mero intervento e successiva manutenzione su
impianti di utenti privati, prive di qualsivoglia complessità e normalmente
espletate da personale operalo appartenente a qualifiche inferiori.

Inoltre, i giudici di seconda istanza hanno
sottolineato che il C. è inserito nel livello 4 del CCNL del 2000, con il
profilo di “Tecnico specialista”, che, sulla base del precedente CCNL
del 1992 corrispondeva alla figura impiegatizia del “Lavoratore addetto ai
Prodotti Sistemi”, nell’ambito dell’Organizzazione Territoriale Business,
da cui la denominazione di “Tecnici ex PS” (<<tale è il
lavoratore al quale sono affidati nel settore tecnico dei Prodotti Sistemi
interventi richiedenti una particolare valutazione concettuale”, con
“cognizioni teoriche di rilievo”, con “conoscenze e capacità di
utilizzo, adeguate al livello di appartenenza, del linguaggio uomo-macchina e
dei manuali di operatore, disimpegnando compiti di coordinamento operativo di
altro personale anche sotto il profilo antinfortunistico”: declaratoria
del CCNL 1992>>);

che, all’esito di tale disamina, il Collegio di
merito ha motivatamente ritenuto delibato che la società datrice, pur
riconoscendo al dipendente ancora il livello 4, ne ha, però, rideterminato in
peius le mansioni e, in sostanza, <<ne ha confuso il profilo
professionale, qualificandolo come “tecnico addetto ad attività di
intervento”, figura professionale operaia e non impiegatizia, che
nell’attuale CCNL del 2000 risulta coincidente con la figura dell'”addetto
ad interventi tecnici” di cui al livello 3, appunto inferiore a quello in
cui>> formalmente l’impera risulta inquadrato (il livello 4, appunto);
con ciò, di fatto, dequalificandolo e mortificandone la professionalità, senza
che, peraltro, la parte datoriale abbia addotto alcuna operazione di
bilanciamento tra il diritto del lavoratore al mantenimento delle proprie
mansioni e quello del datore di lavoro a perseguire una organizzazione
aziendale produttiva ed efficiente (arg., pure, da Cass. nn. 11395/2015; 5285/2007);

che il secondo motivo non è fondato; ed invero, per
quanto attiene al pregiudizio alla professionalità derivato al lavoratore a
seguito del demansionamento subito, i giudici di seconda istanza sono pervenuti
alla decisione, uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di
questa Corte, alla stregua dei quali, in tema di demansionamento e di
dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al
risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica
allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato
(cfr., ex plurimis, Cass. n. 5237/2011).

Pacificamente, infatti, va distinto il momento della
violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del
danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non
è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi
generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario individuare, quindi, un
effetto della violazione incidente su di un determinato bene perché possa
configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente
anche in via equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi
ha chiarito, già da epoca non recente (v. sent. n. 372/1994), che neppure il
danno biologico è presunto, perché se la prova della lesione costituisce anche
la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore
dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha
prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o
privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento
deve essere commisurato. Nello stesso senso, questa Corte ha sottolineato che
le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda
risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta
datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore,
ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non
patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la
controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo
comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e
dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass.
nn. 5590/2016; 691/2012). Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare
l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio
subito, nonché il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di
lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013;
14158/2011; 29832/2008);

che, facendo corretta applicazione dei principi
enunciati, i giudici di appello hanno motivatamente accolto le pretese del
lavoratore, ritenendo correttamente che quest’ultimo, al fine della
liquidazione del danno professionale, non si fosse limitato a fornire la prova
della dequalificazione, ma avesse fornito adeguati elementi delibatori a
sostegno del lamentato pregiudizio professionale che, da quella
dequalificazione, era causalmente derivato (v., in particolare, le pagg. 9 e 10
della sentenza Impugnata);

che il terzo motivo non è meritevole di
accoglimento, in quanto, in primo luogo, deduce, per la prima volta in questa
sede, fatti nuovi, asserendo che <<il C., già da settembre 2003, pur
restando impiegato in attività tecniche, è stato assegnato a lavorazioni di
maggiore valore professionale, quali interventi su sistemi ADSL, e di prodotti
dell’Azienda di notevole complessità tecnologica>>: mansioni, tutte,
circa le quali la società ricorrente, in violazione del disposto di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, del codice di rito,
non ha prodotto documentazione a sostegno del fatto che si trattasse di
questioni portate all’evidenza nei gradi di merito; inoltre, la pronunzia
oggetto del presente giudizio deve considerarsi del tutto in linea con gli
arresti giurisprudenziali di legittimità, alla stregua dei quali <<Nel
rito del lavoro, una volta proposta una domanda risarcitoria ex art. 414 c.p.c., la richiesta del risarcimento
degli ulteriori danni maturati nel corso del processo e di una somma maggiore
rispetto a quella inizialmente indicata in relazione ad un più ampio periodo
temporale, maturato nel corso dello svolgimento del giudizio, non comporta
alcuna immutazione dei fatti posto a fondamento della domanda, non introducendo
alcun nuovo tema di indagine sul quale la controparte non abbia potuto svolgere
le proprie difese…, versandosi in tema di conseguenze risarcitone dipendenti
dall’unico fatto dedotto con il ricorso introduttivo del giudizio e maturate in
corso di causa, e non già di eventi provocati da circostanze diverse successive
alla proposizione della domanda e sulle quali sarebbe necessaria una ulteriore
indagine in punto di fatto>> (cfr., ex plurimis, Cass. n. 17101/2009; v.,
pure, Cass. n. 23949/2013); che il quarto
motivo non è fondato, in quanto i giudici di seconda istanza, con un iter
motivazionale del tutto corretto dal punto di vista logico-giuridico, fondato
sull’esito dell’istruttoria espletata, non hanno ravvisato alcuna violazione
degli obblighi sanciti dagli artt. 2104 e 2105 c.c. a carico del prestatore d’opera, in
considerazione del fatto che la condotta del C. non può considerarsi violativa
del prescritto obbligo di fedeltà, poiché non è stata posta in essere con
modalità tali da mettere in dubbio la correttezza dell’adempimento da parte del
dipendente (cfr., tra le molte, Cass. n.
25044/2015), il quale, <<non avendo nella fase transitoria della
ristrutturazione elementi necessari, non poteva attendere all’attività
richiestagli>>. E, pertanto, correttamente, i giudici di secondo grado
hanno reputato che <<la connotazione plurioffensiva della condotta del datore
di lavoro>> fosse <<idonea ad incidere sulla posizione individuale
del ricorrente e che, dunque, nella fattispecie, dovesse essere applicato il
principio <<inadimpienti non est adimplendum>>, ai sensi dell’art. 1460 c.c.(v., ex plurimis, Cass. nn. 4502/2016;
2800/2008);

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 dicembre 2020, n. 29115
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