Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 marzo 2021, n. 5550

Sussistenza delle omissioni contributive, Accertamento,
Qualificazione in termini di prestazione di lavoro subordinato dei rapporti di
lavoro, Verbale ispettivo

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 30.10.2014, la Corte
d’appello di Brescia ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva
accolto la domanda dell’INPS volta ad accertare la sussistenza delle omissioni
contributive già contestate a B. s.s.d. a r.l. (poi denominata C.G.S.S.D. a
r.l.) in un verbale di accertamento congiuntamente redatto dalla Direzione
Prov.le del Lavoro, dall’INPS e dall’INAIL e successivamente annullato dal
Comitato Regionale del Lavoro.

La Corte, in particolare, ha rigettato le questioni
preliminari riproposte nel gravame e variamente concernenti l’improponibilità
di un’azione di accertamento di omissioni contributive contestate in un verbale
poi annullato in sede amministrativa e, nel merito, ha rigettato le doglianze
specificamente mosse dalla società nei confronti dell’accertamento giudiziale
delle omissioni medesime, rilevando la loro sussistenza sia per ciò che
concerneva i lavoratori M.C. e F.M., assunti con contratti a progetto ritenuti
affatto generici e comunque dissimulanti altrettanti rapporti di lavoro
subordinato, sia con riguardo alla lavoratrice J.L., assunta con contratto di
apprendistato professionalizzante per lo svolgimento di mansioni per le quali
aveva già lavorato in precedenza alle dipendenze della stessa società.

Per la cassazione di tali statuizioni C.G.S.S.D. a
r.l. ha proposto ricorso, deducendo quattro motivi di censura. L’INPS ha
resistito con controricorso, eccependo preliminarmente l’inammissibilità
dell’impugnazione per non essere stati specificamente censurati i capi di sentenza
relativi alla qualificazione dei rapporti di lavoro intrattenuti dalla
ricorrente con i lavoratori dianzi menzionati.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia
violazione dell’art. 17, d.lgs. n.
124/2004, per avere la Corte di merito ritenuto che l’annullamento del
verbale ispettivo da parte del Comitato Regionale del Lavoro non precludesse
l’azione giudiziale volta al recupero dei contributi in relazione alle medesime
omissioni ivi contestate.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta
violazione dell’art. 2, I. n.
241/1990, nonché dell’art. 41
CDFUE e dell’art. 97 Cost., per avere la
Corte territoriale ritenuto che la violazione del termine finale previsto per
il procedimento ispettivo, incidendo negativamente sull’affidamento del
cittadino, non comportasse la decadenza dall’esercizio della potestà
amministrativa e la consequenziale invalidità e inefficacia degli atti
compiuti.

Con il terzo motivo, la ricorrente si duole di
violazione dell’art. 3, comma 20,
I. n. 335/1995, per avere la Corte di merito ritenuto che la mancata
menzione nelle contestazioni di illecito del 1°.12.2008 e del 24.4.2010 dei tre
lavoratori in relazione alla cui posizione era stato domandato giudizialmente
il pagamento dei contributi omessi, implicando necessariamente l’accertamento
della loro regolarità dal punto di vista contributivo, non precludesse la
successiva azione per la riscossione dei contributi asseritamente omessi.

Con il quarto motivo, infine, la ricorrente denuncia
violazione degli artt. 2697 c.c. e 37 c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto
che i conteggi contenuti nel verbale poi annullato dal Comitato Regionale del
Lavoro potessero formare prova dell’importo dovuto, nonostante l’avvenuto
annullamento dell’atto e nonostante vi fosse stata sul punto specifica
contestazione dell’avvenuta determinazione dell’imponibile contributivo sulla
base di dati ipotetici e non verificabili.

Ciò posto, va preliminarmente esaminata l’eccezione
d’inammissibilità del ricorso, sollevata dall’INPS per non avere parte
ricorrente specificamente impugnato i capi della sentenza di merito riguardanti
la qualificazione in termini di prestazione di lavoro subordinato dei rapporti
di lavoro intrattenuti con M.C., F.M. e J.L.: ad avviso dell’Istituto, infatti,
soccorrerebbe in specie il principio secondo cui, ove la sentenza sia sorretta
da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali
giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata,
l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di
interesse, la censura relativa alle altre, atteso che, essendo divenuta
definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, il loro accoglimento non
potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza impugnata.

L’assunto non è condivisibile.

Il principio dianzi espresso (invero pacifico nella
giurisprudenza di questa Corte: cfr., tra le più recenti, Cass. nn. 12372 del
2006, 3386 e 22753 del 2011, 18641 del 2017) concerne infatti l’ipotesi in cui
una certa statuizione contenuta in una sentenza sia sorretta da due o più
motivazioni riguardanti il merito, che il giudice abbia rassegnato per
completezza di argomentazione: posto che l’art. 276
c.p.c., nel distinguere tra questioni (ed eccezioni) pregiudiziali di rito
e di merito, non stabilisce alcun ordine all’interno dell’esame del merito, e
considerato che l’eccezione di merito si identifica con quel fatto che, in
relazione alla struttura della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere
con la domanda, assume la natura di fatto impeditivo, modificativo o estintivo
dell’efficacia dei fatti costitutivi addotti in giudizio, nulla infatti
impedisce al giudice, che abbia aderito ad una prima ragione di decisione, di
esaminare ed accoglierne una seconda, al fine di sostenere la decisione anche
nel caso in cui la prima risultasse erronea (così Cass. n. 21490 del 2005 e,
più recentemente, Cass. n. 15399 del 2018).

Affatto diversa è invece la presente fattispecie.
Nella sentenza impugnata, infatti, si rinvengono, da un lato, statuizioni
concernenti la possibilità che l’INPS faccia valere giudizialmente una pretesa
concernente il pagamento di contributi il cui omesso pagamento sia stato
accertato in un verbale successivamente annullato in sede amministrativa e,
dall’altro, statuizioni concernenti la fondatezza della pretesa stessa; e
trattasi all’evidenza non solo di statuizioni differenti, ma soprattutto di
statuizioni legate da un nesso di dipendenza tale per cui la parte della
sentenza che concerne l’accertamento della natura subordinata dei rapporti di
lavoro in contestazione non avrebbe potuto essere pronunciata se la Corte
avesse ritenuto preclusa la possibilità di far valere giudizialmente la pretesa
omissione contributiva.

Ora, la sussistenza di un tale nesso di
pregiudizialità- dipendenza tra due rationes decidendi (o tra due statuizioni
che risolvono il merito della controversia, cioè tra due distinti capi della
sentenza) è ciò che ha indotto questa Corte ad affermare recentemente che, in
fattispecie del genere, la specifica impugnazione della ratio pregiudicante
contiene per implicito anche la contestazione della ratio pregiudicata, non
potendo quest’ultima reggersi da sola una volta che sia stata dimostrata
l’inconsistenza della prima (così Cass. n. 4259 del 2015, in motivazione): si
tratta infatti di fare applicazione in specie della disposizione di cui all’art. 336 comma 1° c.p.c., giusta la quale la
«riforma o la cassazione parziale» della sentenza produce i suoi effetti «anche
sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata».

Vero è che questa Corte ha affermato in passato che
il principio dettato dall’art. 336 c.p.c., che
opera senz’altro rispetto ai capi di sentenza non impugnati autonomamente ma
necessariamente collegati ad altro capo che sia stato impugnato, non potrebbe
applicarsi con riguardo a quei capi dipendenti che abbiano formato oggetto di
autonoma impugnazione, ove questa sia stata rigettata, giacché in tal caso su
tali capi si formerebbe il giudicato e l’interdipendenza tra essi e le altre
statuizioni la cui impugnazione sia stata accolta verrebbe ad essere esclusa
dalla stessa decisione sul gravame (così Cass. n. 12785 del 1992). Reputa
tuttavia il Collegio che tale affermazione, che nel caso di specie porterebbe
inevitabilmente alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso, non possa
essere ulteriormente condivisa.

Come s’è dianzi esposto, l’effetto espansivo interno
dell’art. 336 c.p.c. presuppone un nesso di
pregiudizialità- dipendenza tale che la parte della sentenza che viene
riformata o cassata costituisce il presupposto della parte non riformata o
cassata, per modo che la decisione su quest’ultima non sarebbe stata possibile
se il giudice avesse deciso correttamente (cioè nel senso fatto proprio dalla
pronuncia che ha accolto il gravame) la parte riformata o cassata: prova ne sia
che, in presenza di un nesso di tal genere che concerna statuizioni adottate in
parte con sentenza non definitiva e in parte con sentenza definitiva, la
riforma della sentenza non definitiva estende i propri effetti anche alla
sentenza definitiva, ancorché quest’ultima non sia stata impugnata (così, tra
le numerose, Cass. n. 24354 del 2006). E benché sia indubitabile che si tratti
di principio da applicarsi con estremo rigore, costituendo un’eccezione al
canone della formazione del giudicato in mancanza di impugnazione (così Cass.
n. 19937 del 2004), non è possibile negarne l’operatività quando, come nella
specie, ci si trovi in presenza di una statuizione intrinsecamente capace di
assorbire l’autonoma ratio (rectius, statuizione) non impugnata, atteso che – come
esattamente rilevato da Cass. n. 4259 del 2015, cit. – quest’ultima non
potrebbe mai reggersi da sola, una volta che sia stata dimostrata
l’inconsistenza della prima.

Né è possibile che tale nesso – come invece
sostenuto da Cass. n. 12785 del 1992, cit. – possa essere spezzato allorché i
capi dipendenti abbiano comunque formato oggetto di un’impugnazione che sia
stata rigettata: una simile affermazione, infatti, contrasta irrimediabilmente
con il principio, altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte,
secondo cui un giudicato parziale è configurabile soltanto nelle situazioni in
cui il capo di sentenza non impugnato sia indipendente da quelli impugnati,
occorrendo a tal fine stabilire se tra le statuizioni, rispettivamente
impugnate e non, intercorra o meno un rapporto di implicazione necessaria che
le renda o meno logicamente dipendenti l’una dall’altra (cfr. in tal senso già
Cass. n. 88 del 1973, seguita da numerose successive conformi). Di talché solo
tale ultimo esame sembra necessario e, al contempo, sufficiente al fine di
affermare o escludere l’effetto espansivo interno della riforma o cassazione
“parziale” (che, non a caso, l’art. 543
del codice di procedura civile del 1865 più perspicuamente esprimeva in
termini negativi: «Se la sentenza sia cassata in alcuno dei capi restano fermi
gli altri salvo che siano dipendenti dal capo in cui la sentenza fu cassata»);
introdurne di altri equivarrebbe a violare la lettera dell’art. 336 c.p.c. e a frustrarne la ratio.

Dovendo pertanto ritenersi, in difformità da Cass.
n. 12785 del 1992, cit., che il principio dettato dall’art. 336 comma 1° c.p.c. trovi applicazione
rispetto ai capi di sentenza non impugnati autonomamente ma necessariamente
dipendenti da un altro capo che sia stato impugnato, ivi compresi quei capi che
abbiano formato oggetto di impugnazione quando questa sia stata rigettata, non
potendo il nesso di pregiudizialità-dipendenza tra gli uni e gli altri essere
escluso dalla decisione sfavorevole sul gravame che abbia riguardato i capi
dipendenti, può passarsi all’esame delle censure di cui al ricorso.

I primi tre motivi possono esaminarsi
congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure svolte,
e sono infondati.

Come ricordato nella sentenza impugnata, questa
Corte, sia pure con riguardo alla disposizione contenuta nell’art. 43, I. n. 88/1989, ha
già avuto modo di chiarire che né l’esito del procedimento amministrativo
contenzioso né le regolarità o irregolarità procedurali che lo abbiano
connotato impediscono all’ente previdenziale di agire o di resistere in
giudizio per l’accertamento dell’esistenza o inesistenza di rapporti di lavoro
subordinato e dei conseguenti obblighi contributivi e previdenziali: trattasi
infatti di materia in cui l’esercizio (corretto o meno) della potestà
amministrativa di autotutela incide su situazione giuridiche indisponibili da
parte degli enti previdenziali e in cui, per conseguenza, l’oggetto del
giudizio innanzi al giudice ordinario non è mai l’impugnativa di un atto
amministrativo, essendo invece rimesso al giudice di accertare, a seconda dei
casi, vuoi la sussistenza dei presupposti per il sorgere dell’obbligazione
contributiva, vuoi quella dei requisiti necessari per l’erogazione della
prestazione previdenziale (così Cass. n. 16051 del 2013).

I suesposti principi vanno qui ribaditi anche con
riguardo alle decisioni del Comitato Regionale del Lavoro di cui all’art. 17, I. n. 124/2004, affatto
irrilevante dovendo all’uopo ritenersi la sua diversa composizione rispetto a
quella del Comitato regionale INPS di cui all’art. 42, I. n. 88/1989; ed è
appena il caso di soggiungere che contrari argomenti non potrebbero desumersi
dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 24 del
24.6.2004, cit. a pag. 12 del ricorso per cassazione, giusta la quale
«nessuna azione di recupero contributivo od assicurativo potrà far seguito
all’accertamento ispettivo oggetto di riesame»: valga al riguardo il principio
(affermato in materia tributaria, ma analogicamente estensibile alla materia
contributiva, nient’altro che imposte speciali dovendo ritenersi i contributi: Cass. n. 2130 del 2018) secondo cui le circolari
ministeriali in materia non possono costituire fonte di diritti ed obblighi,
nemmeno per la stessa amministrazione che le ha emanate, con conseguente
impossibilità di fondare su di esse alcun legittimo affidamento, neanche alla
stregua del diritto dell’Unione Europea (Cass. n. 20819 del 2020).

Vale piuttosto la pena di precisare che, diversamente
da quanto sostenuto in ricorso, non è possibile equiparare quoad effectum le
disposizioni dettate in tema di procedimento amministrativo di accertamento
delle omissioni contributive dall’art.
17, d.lgs. n. 124/2004, e dall’art.
3, comma 20, I. n. 335/1995 (il quale ultimo, per quanto qui rileva,
stabilisce che «nei casi di attestata regolarità ovvero di regolarizzazione
conseguente all’accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi
e contributivi relativi ai periodi di paga anteriore alla data
dell’accertamento ispettivo stesso non possono essere oggetto di contestazioni
in successive verifiche ispettive»), alla previsione dell’art. 24, d.lgs. n. 46/1999, il
quale, per il caso di omessa tempestiva impugnazione di una cartella
esattoriale recante il pagamento di contributi, prevede la definitiva
irretrattabilità del credito relativo ai contributi e dunque l’impossibilità
per il privato di farne accertare aliunde l’insussistenza: le prime due
disposizioni dianzi cit., al pari dell’art. 2, I. n. 241/1990, sono
infatti tipiche norme di azione, la cui efficacia precettiva, essendo
circoscritta alle condizioni della legittimità dell’azione amministrativa, non
può mai importare la decadenza dell’ente pubblico dalla potestà di provvedere
alla cura dei pubblici interessi di cui all’art. 38
Cost. mercé l’adito al giudice, mentre l’ultima sancisce precisamente
l’estinzione del diritto (rectius, dell’azione) avente ad oggetto
l’instaurazione di un processo di cognizione per l’accertamento della
(in)fondatezza di una data pretesa dell’ente previdenziale.

Inammissibile, infine, è il quarto motivo.

Fermo restando che ben poteva l’INPS richiamare nel
corpo del proprio ricorso introduttivo il verbale di accertamento annullato e
rinviare ad esso per la specificazione del quantum dovuto, venendo quel verbale
in rilievo non già come provvedimento, ma come semplice documento attestante
l’attività contabile compiuta in sede amministrativa, devesi al riguardo
rilevare che la Corte territoriale ha dato atto che «nel verbale congiunto del
7 giugno 2010 sono indicati, in dettaglio e per ciascun lavoratore, gli
imponibili contributivi con la quantificazione della contribuzione dovuta e
delle relative sanzioni civili» e altresì gli importi che l’odierna ricorrente
avrebbe potuto richiedere in restituzione e opporre in compensazione (cfr. pag.
6 della sentenza impugnata); e considerato che le censure concernenti il
giudizio di fatto compiuto dal giudice di merito possono concernere, specie a
seguito della novellazione dell’art. 360 n. 5
c.p.c., soltanto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che
abbia formato oggetto di discussione tra le parti e non anche la valutazione
dei mezzi di prova che sia stata compiuta dal giudice di merito, è sufficiente
nella specie rilevare che parte ricorrente non ha indicato nessun fatto
decisivo il cui esame sarebbe stato omesso dai giudici territoriali, con
conseguente inammissibilità del motivo di censura.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi
come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio
della soccombenza.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i
presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, previsto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla
rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in €
5.200,00, di cui € 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari
al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 marzo 2021, n. 5550
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: