Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 marzo 2021, n. 11701

Amministratore unico, Cooperazione colposa nella causazione
del sinistro, Impalcature o ponteggi inadeguati ad eliminare i pericoli di
caduta dall’alto, Lavoratore sfornito di misure adeguate di protezione, idonee
ed evitare cadute dall’alto, Contraddittorietà fra le dichiarazioni
testimoniali, Principio di effettività, Posizione di garante colui il quale
di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del
preposto

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 21 novembre 2019 la Corte di
appello di Campobasso ha confermato la sentenza del Tribunale di Campobasso con
la quale N. C., nella sua qualità di datore di lavoro, amministratore unico
della E.E. s.r.l. e subappaltatore dei lavori edili e di ristrutturazione del
capannone sito in località Contrada Piana, del Comune di Vinchiaturo, G. B.,
nella sua qualità di amministratore unico della Costruzioni B. s.r.I., società
subappaltante dei lavori edili e di ristrutturazione del medesimo capannone, A.
B., gestore di fatto della società Costruzioni Edili B. s.r.I., sono stati
ritenuti responsabili del reato di cui all’art.
590, comma 1^ e 3^ cod. pen. per avere cagionato — in cooperazione colposa
fra di loro- a N. C. lesioni personali consistite in trauma cranico con
emorragia in sede frontale destra e frontotemporale sinistra sottocorticale e
subaracnoidea, pneumocefalo in fosse cranica posteriore destra, rima di
frattura transmatoidea e transtimpanica destra con emotimpano, frattura lineare
parietale e sinistra, distacco della coracooide clavicolare destra,
pneumotorace destro con contusione polmonare basale e versamento pleurico
bilaterale, con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per novanta
giorni. In particolare, agli imputati è stata ascritta la cooperazione colposa
nella causazione del sinistro per non avere, nelle rispettive qualità, con
imprudenza, negligenza ed imperizia, ed in violazione degli artt. 122 e 111 d.lgs. 81/2008, adoperato
adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali atte ad eliminare
i pericoli di caduta dall’alto, per non avere dotato il lavoratore di misure
adeguate di protezione, non installando reti di protezione o parapetti, ed
infine, per non avere dotato il lavoratore di dispositivi di ancoraggio o
imbracature idonee ed evitare cadute dall’alto, così non evitando che il lavoratore
N. C., salito su un cavalletto alto più di due metri per procedere
all’intonacatura delle pareti adiacenti alla rampa di scale del capannone,
cadesse al suolo riportando le lesioni descritte.

2. Avverso la sentenza della Corte di appello
propongono ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo dei rispettivi
difensori.

3. N. C. formula un unico motivo con il quale fa
valere il vizio di motivazione, sotto il profilo della contraddittorietà e
manifesta illogicità.

Sottolinea che, nonostante l’intero compendio
probatorio a disposizione dimostrasse l’estraneità della E.E. s.r.l. al
rapporto di lavoro con N. C., la Corte di appello ha affermato, con argomenti
travisanti le prove, la sussistenza di una cogestione dell’esecuzione delle
opere, allorquando, invece, l’imputato si era limitato, in ragione del proprio
rapporto di parentela con il lavoratore infortunato, a mettere questi ed altri
suoi amici in comunicazione con la B. Costruzioni s.r.I., appaltatrice dei
lavori, mentre la E.E. s.r.l. non aveva svolto in quel cantiere alcun tipo di
lavorazione, sicché nessun obbligo aveva di predisporre misure di prevenzioni,
atte ad evitare infortuni. Sostiene che la Corte, liquidando come “risibili” i
motivi di appello, abbia, in realtà, ignorato il fondamentale ruolo direttivo
assunto dai B. all’interno del cantiere. Non solo furono loro, infatti, ad
impartire ai lavoratori D.C. ed A.C. l’ordine di smontare l’impalcatura e
caricarla sul furgone, il giorno successivo al sinistro, ma la totalità delle
attrezzature era di proprietà della Costruzioni B. s.r.I., tanto che tutti i
materiali e gli strumenti di prevenzioni vennero forniti ai lavoratori dalla
medesima società. Che, d’altro canto, il datore di lavoro non fosse la società
di E.E. s.r.l. facente capo a N. C., emerge altresì dalle ricevute del bed
& breakfast sito in Vinchiaturo, per il pernottamento dei lavoratori N. C.,
B. C., M.F., A.C. e N.C., emesse in favore della Costruzioni B. s.r.I.,
prodotte in giudizio. Così come dimostra la sussistenza del rapporto di lavoro
fra N. C. e la Costruzioni B. s.r.l. la documentazione bancaria, prodotta dalla
persona offesa, relative ai pagamenti delle prestazioni lavorative, con la
quale la medesima ha inteso provare la sussistenza del rapporto di lavoro con
la Costruzioni B. s.r.I.. Deduce che successivamente all’infortunio N.C. e P.C.
furono formalmente assunti dalla medesima società, come dimostrano i CUD
prodotti.

Lo stesso N. C., peraltro, in sede di dichiarazioni
testimoniali ha confermato di essere sempre stato retribuito dai B., senza mai
ricevere neppure acconti da C., circostanza confermata anche dal lavoratore A.
C.. Essendo, dunque, A. e G. B. gli unici punti di riferimento dei lavoratori
nel cantiere, deve escludersi ogni coinvolgimento di N. C. nella causazione del
sinistro. Deduce l’assoluta carenza di motivazione della Corte di appello sul
complesso delle emergenze probatorie, nonostante la puntuale deduzione dei
motivi di appello, e chiede l’annullamento della sentenza impugnata.

4. Con unico atto di ricorso G. B. ed A. B.
formulano tre distinti motivi.

5. Con il primo ed il secondo motivo, strettamente
connessi, fanno valere, ex art. 606, primo comma, lett.re c) ed e) cod. proc.
pen., la violazione dell’art. 111 Cost, 125 e 546 cod. proc.
pen., nonché il vizio di motivazione.

Sostengono che la sentenza di appello abbia eluso
l’obbligo di motivazione, ignorando le precise censure formulate con l’atto di
gravame, passivamente recependo e confermando il provvedimento appellato, senza
compiere la doverosa verifica di validità della decisione adottata in prime
cure, alla luce del vaglio dei motivi di censura proposti. Con riferimento
all’addebitata violazione dell’art.
122 d.lgs. 81/2008, relative alle opere provvisionali sui c.d. “lavori in
quota”, rileva l’assoluta incertezza della ricostruzione contenuta nelle
sentenze di merito, inidonea all’accertamento dell’altezza dell’impalcatura
dalla quale sarebbe asseritamente caduto l’operaio, posto che la medesima è
stata ricavata da dichiarazioni testimoniali. Ed infatti, mentre il primo
giudice approssimativamente afferma che il ponteggio sarebbe stato alto “circa
tre metri”, o “fra i tre e i quattro metri”, la Corte, a fronte di specifica
censura sull’assenza di prove relative alle misure dell’altezza del capannone e
dell’impalcatura, conclude per l’irrilevanza della misurazione dettagliata,
osservando che il capannone è posto su due livelli “con altezza di ogni piano
di verosimile mt. 3 circa”. Ciò, nondimeno, dimostra che la sentenza è fondata
solo sulle impressioni e supposizioni del giudice, in assenza del ricorso a
necessari criteri di oggettività. Con il gravame, al contrario, si era
sottolineata l’esigenza della misurazione dell’altezza del capannone
industriale e dei solai, ai fini della valutazione dell’altezza
dell’impalcatura dalla quale si afferma essere caduto l’operaio, non essendo il
giudice esonerato dall’accertamento solo in forza della declaratoria di
prescrizione dei reati contravvenzionali. Invero, laddove il solaio fosse stato
alto mt. 2,7, come dichiarato dal teste C. e prescritto dai criteri
urbanistici, anziché mt. 3,00 come semplicemente supposto dai giudici di
merito, l’utilizzo di un’impalcatura sarebbe inutile, posto che un uomo di
media statura ben può con le braccia alzate raggiungere i due metri, mentre la
macchina intonacatrice, come ugualmente sottolineato dai testi ed anche dalla
persona offesa C., assicura un vantaggio di almeno cm. 50,00. Questo avrebbe
reso  indispensabile la misurazione
dettagliata delle altezze, ai fini della valutazione della lavorazione “in
quota” da parte dell’operaio infortunatosi, e quindi della sussistenza della
condotta colposa addebitata. Sostengono che aggirando la questione inerente
all’altezza dei solai e quella della necessità di ricorrere  all’utilizzo di un ponteggio per intonacare,
la Corte territoriale giunge ad affermare che ciò sarebbe reso necessario da
manovre quali “l’omogeneizzazione, l’appianamento e la lisciatura dello
spruzzato di intonaco” senza neppure accertarsi che siffatte opere fossero
appaltate o se la macchina intonacatrice utilizzata le richiedesse, così
avvalendosi di una vera e propria “prova per invenzione”‘, in assenza di
qualsivoglia spunto ricavabile dal materiale documentale e dichiarativo
raccolto. Osservano che con l’appello non era statoposto in dubbio l’utilizzo
del ponteggio da parte dell’impresa, ma l’assenza di prove sul tipo di ponteggio
utilizzato per quel tipo di lavori, posto che per l’applicazione dell’intonaco
alla parete non vi era la necessità di ricorrere ad alcun ponteggio e che la
Corte, in modo del tutto congetturale, nonostante le sollecitazioni del
gravame, ha sostenuto che l’intonacatura abbisognasse di un ponteggio o di
un’impalcatura, senza appurare neppure se il compimento dei lavori avvenisse ad
una quota su piano stabile superiore ai due metri di altezza.

Rappresentano che nel corso del processo si sono
affermate tre diverse dinamiche del sinistro. Ed invero, secondo l’accusa C.,
dopo essere salito su un cavalletto alto circa due metri per eseguire i lavori
di intonacatura delle pareti adiacenti alla rampa di scale del capannone,
dell’altezza di circa tre metri, cadde per il cedimento del cavalletto. Secondo
il primo giudice, invece, il lavoratore, trovandosi su un ponteggio, costituito
solo da cavalletti e tavole di legno, disancorato dal muro, intento ad
intonacare il soffitto, precipitò nel vuoto a causa del ribaltamento di una
delle tavole su cui poggiava uno dei suoi piedi. Secondo il giudice di appello,
infine, l’operaio N. C. testualmente sarebbe “precipitato in basso, lungo il
vano scala, mentre lavorava ad intonacare (sembra una parete piuttosto che il
soffitto) del piano superiore, siccome si girava (cioè perdeva il fissaggio
orizzontale) la tavola su cavalletti (su cui poggiava i piedi), e così
rovinando al piano sottostante, riportando le lesioni refertate al capo e alla
parte superiore del tronco, tavola evidentemente non fissata regolarmente ai
supporti di elevazione, oltre che mancare, nel contesto dispositivi di
sicurezza per evitare cadute dall’alto e relativi danni per gli occupati”.
Denunciano la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. per difetto di
correlazione fra imputazione e sentenza, avendo il giudice di seconda cura
ricostruito l’infortunio come una precipitazione del lavoratore al piano
sottostante lungo il vano scala, mentre intonacava la parete del piano
superiore, modalità di accadimento mai contestata prima e mai accertata in
precedenza. E tutto ciò, senza affrontare l’incongruità della ricostruzione
della sentenza di primo grado, sostenendo che la dinamica era stata
correttamente accertata dal primo giudice, ma offrendone, in realtà, una
completamente diversa, senza operare alcuna rivalutazione probatoria e senza
farsi carico di rispondere alle doglianze con le quali si sottolineava la  mancata valorizzazione della testimonianza di
A. C., unico operaio presente, il quale ha dichiarato che C. non si trovava su
un cavalletto, ma “a piano sulla scala”, di lì cadendo giù per la scala
medesima. Dichiarazioni queste ultime completamente coincidenti con la prima
versione fornita dalla persona offesa, al momento del suo ricovero in ospedale.
C., infatti, sostenne, in quell’occasione, di essere inciampato, mentre si
trovava a “quota zero”, scendendo gli ultimi gradini della scala, mentre
trasportava a piano terra un pezzo dell’intonacatrice, versione questa ritenuta
smentita dalla successiva dichiarazione di C., considerata più credibile anche
perché corroborata dalla fotografia dalla quale si evincerebbe che dopo
l’infortunio la macchina intonacatrice era ancora al secondo livello del
capannone. Deducono l’assoluta contraddittorietà della motivazione sul punto,
posto che la fotografia richiamata ritrae la macchina intonacatrice all’esterno
del capannone. Contestano, infine, la pretestuosità delle considerazioni
inerenti lo smontaggio dell’impalcatura il giorno successivo all’infortunio,
precedente l’arrivo dei Carabinieri, smentito dalle testimonianze di coloro che
vi provvedettero, non potendo comunque siffatta operazione essere intervenuta
nella notte, con la conseguenza che il ritrovamento del ponteggio già smontato
è significativo del fatto che C. non stesse operando sulle impalcature il
giorno dell’incidente.

6. Con il terzo motivo A. B. fa valere il  vizio di motivazione in relazione
all’affermata sussistenza della sua posizione di garanzia in qualità di gestore
di fatto dell’impresa, in mancanza di ogni argomentazione e sulla sussistenza
di una delega di poteri di direzione e vigilanza, e sul conferimento di
capacità di spesa. Sottolinea che sul punto era stata formulata specifica
doglianza con l’atto di appello, rimasta priva di risposta alcuna, nonostante
la pluralità di elementi a disposizione dai cui ricavare l’assenza di
coinvolgimento dell’imputato, il quale si è limitato ad accompagnare il padre
in cantiere, senza assumere alcuna veste gestionale. Sottolinea la totale
carenza di risposta della Corte territoriale

7. Entrambi gli imputati concludono per
l’annullamento della sentenza impugnata.

8. Il Procuratore generale presso la Corte di
cassazione con requisitoria scritta ex art. 23 comma 8 d.l. 137/2020 ha
chiesto dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi.

9. Con distinte memorie rispettivamente in data 11
dicembre 2020 e 12 dicembre 2020 B. A. e B. G. hanno ribadito le ragioni già
espresse, formulando ulteriori conclusioni per la declaratoria di estinzione
del reato per prescrizione.

 

Considerato in diritto

 

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Conviene, per ragioni di ordine logico, esaminare
innanzitutto le prime due doglianze proposte da A. B. e G. B., con cui i  due ricorrenti lamentano il vizio di
motivazione per difetto di risposta alle doglianze proposte con l’appello in
relazione all’accertamento del fatto, da cui i giudici del merito hanno fatto
conseguire la sussistenza della violazione del disposto dell’art. 122 d.lgs. 81/2008,
relativo alle opere provvisionali dei lavori in quota.

3. Le censure, da un lato, si incentrano sulla
dinamica del sinistro, contestando l’assenza di prove circa l’altezza
complessiva del capannone industriale, così come del ponteggio da cui si assume
essere caduto il lavoratore, nonché l’incompatibilità logica della
ricostruzione dei giudici di merito -fondata solo su supposizioni- con gli
elementi probatori a disposizione, dai quali non è possibile ricavare, in
assenza di misurazioni, la necessità di approntare un ponteggio per effettuare
i lavori di intonacatura. Dall’altro, su questa premessa, tendono ad avvalorare
la tesi della ‘caduta per inciampò del lavoratore.

4. Si tratta di deduzioni che non si confrontano con
la motivazione della sentenza impugnata, che forma un’unica trama argomentativa
con la sentenza di primo grado.

Invero, la decisione di prima cura chiarisce che
secondo il parte medico legale S.M., consulente di parte, le lesioni riportate
dal N. C. sono compatibili solo con una precipitazione dall’alto e non con una
semplice caduta. La precisazione è ripresa dalla Corte territoriale che,
proprio sulla base degli esiti della consulenza, esclude che la caduta sia
avvenuta mentre il lavoratore scendeva gli ultimi due o tre gradini di una
scala, allorquando era intento a trasferire la macchina intonacatrice al piano
terra del capannone.

Rispetto a siffatta premessa, che i giudici di
merito pongono a fondamento dell’accertamento sulle modalità del sinistro, per
esaminare il contenuto delle testimonianze sulla descrizione della struttura
sulla quale lavorava l’operaio infortunato, i ricorrenti non prendono alcuna
posizione, limitandosi a contestare l’assenza di precise misurazioni o la
contraddittorietà, che sostengono non risolta, fra le dichiarazioni dei testi.

Nondimeno, l’elusione di un simile assunto rende
fragile la contestazione, posto che il mancato confronto con la presenza di
lesioni da precipitazione svuota la deduzione introdotta sulla non necessità di
utilizzare un ponteggio per provvedere all’intonacatura delle pareti.

Né, d’altro canto, appare censurabile il
ragionamento contenuto nella sentenza impugnata con il quale si ipotizza
un’altezza di ciascuno dei piani da intonacare pari a circa tre metri, in
relazione al quale i ricorrenti sviluppano una serie osservazioni per
dimostrarne l’inconferenza, addirittura ritenendola frutto di una mera
supposizione.

In realtà, le considerazioni della Corte
territoriale altro non sono che la risposta al motivo di appello con il quale
si criticava la sentenza di prima cura per avere affermato la sussistenza delle
violazioni ascritte in assenza precise misurazioni, ma non costituiscono
affatto il fulcro della decisione della Corte, che -come il primo giudice-
ricava l’altezza del ponteggio su cui operava C. dalla descrizione fattane dai
testimoni escussi e dalla stessa persona offesa, secondo i quali la quota del
ponteggio, privo di ancoraggio, era superiore a tre metri, a ciò aggiungendo,
per quanto deducibile dalla documentazione fotografica in atti, il raffronto
fra l’altezza complessiva dell’immobile e le finestre, e fra quella e le
persone ritratte. Ma si tratta di elementi utilizzati a mò di riscontro,
sinanco superflui, che eliminati dal tessuto motivazionale non ne modificano la
tenuta.

Del tutto scevra dai vizi che le vengono addebitati
è dunque la motivazione nella parte in cui afferma la sussistenza delle
violazioni di cui agli artt. 122,
111 e 115 d.lgs. 81/2008, per non
avere gli interessati provveduto ad adottare opere provvisionali atte ad
eliminare i pericoli di caduta dall’alto, per non avere adottato adeguate
misure di protezione collettiva per i lavori in quota e per non avere dotato il
lavoratore di idonei sistemi di protezione individuale.

5. Ancora manifestamente infondata è la deduzione
relativa alla violazione all’art. 521 cod. proc.
pen., per avere il giudice di secondo grado ricostruito l’infortunio
secondo una modalità mai contestata ai ricorrenti e difforme da quella
descritta dalla sentenza di prima cura. Invero, la semplice lettura della sentenza
qui impugnata dimostra che la versione dell’accaduto, come riportata dalla
Corte territoriale, sia perfettamente coincidente con quella del primo giudice,
ancorché sia utilizzata una terminologia diversa. Entrambe le sentenze,
infatti, fanno riferimento al ribaltamento di una tavola solo appoggiata su
cavalletti (ad H), che, in assenza di qualsiasi sistema di ancoraggio ha
prodotto quale effetto la precipitazione del lavoratore dal ponteggio.

6. Infine, inammissibile è la doglianza con la quale
si lamenta la mancata valorizzazione della testimonianza dell’unico operaio
presente A. C., il quale ha riferito che C., al momento del sinistro, non si
trovava su un ponteggio ma “a piano scala”. Si tratta, ancora una volta, di una
censura  che non si confronta con il
corpo motivazionale, che si fa carico di esaminare quanto dichiarato dal teste,
non considerando quanto riferito del tutto incompatibile con la ricostruzione
accusatoria, tenuto conto che, comunque, il teste ha più volte ribadito di non
avere assistito all’infortunio. Il motivo, peraltro, con cui si sottolinea la
mancata risoluzione della contraddittorietà fra le dichiarazioni testimoniali,
nonché l’inconciliabilità fra quanto dichiarato dagli operai della B.
Costruzioni s.r.l. che smontarono il ponteggio e quanto affermato dalla Corte
circa la tempestività dell’operazione, allo scopo di evitare l’accertamento,
finisce per coincidere con la richiesta di una nuova valutazione probatoria,
non consentita in questa sede. Come di recente ribadito, infatti, “Anche a
seguito della modifica apportata all’art. 606,
comma 1, lett. e), cod. proc. pen. dalla legge
n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il
travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di
sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella
compiuta nei precedenti gradi di merito” (ex multis: Sez. 3, n. 18521 del
11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 3, n. 38431 del 31/01/2018 – dep.
10/08/2018, Ndoja, Rv. 273911).

7. Vanno a questo punto, esaminati i motivi
introdotti da N. C. e da A. B.. Entrambi, sotto profili diversi, assumono di
non avere mai rivestito alcuna posizione di garanzia nell’ambito delle
lavorazioni all’interno del cantiere. Il primo in quanto estraneo al rapporto
di lavoro, essendo C. dipendente della B. Costruzioni s.r.I., il secondo in
quanto estraneo alla gestione dell’impresa.

8. Il giudice di prima cura, con motivazione ripresa
e confermata dalla Corte di appello, ripercorrendo le modalità di reclutamento
della persona offesa e di altri operai del cantiere, nonché quanto emerso in
giudizio sulla fornitura dei materiali e sulla gestione delle lavorazioni,
richiama il c.d. principio dell’effettività, elaborato dalla giurisprudenza di
legittimità, in forza del quale  assume
la posizione di garante colui che di fatto si accolla ed esercita i poteri del
datore di lavoro. A ciò aggiunge che, pur in assenza della possibilità di dare
precisa qualificazione giuridica alla natura dei rapporti intercorrenti fra la
E.E. s.r.l. e la B. Costruzioni s.r.I., quale subappalto delle opere,
prestazione d’opera o somministrazione di manodopera, nondimeno, entrambe le
imprese hanno mantenuto la concreta disponibilità del cantiere, dando direttive
agli operai, con ciò assumendo gli obblighi proprii del datore di lavoro in
ordine alla previsione ed attuazione delle misure di prevenzione.

9. Ebbene, il principio di effettività connota il
rapporto del garante con chi svolge concretamente il lavoro assegnato. Questa
Corte ha chiarito in plurime occasioni che “In materia di prevenzione
degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la
posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del
datore di lavoro, del dirigente o del preposto. (Fattispecie relativa
all’assunzione di fatto degli obblighi di garanzia del datore di lavoro o del
preposto da parte del dipendente che dirigeva personalmente gli  operai in cantiere, dando indicazioni al
lavoratore infortunato circa le modalità di esecuzione dei lavori, in
difformità da quanto previsto nel piano operativo di sicurezza). (Sez. 4, n.
50037 del 10/10/2017, Buzzegoli e altri, Rv. 27132701; da ultimo: Sez. 4,
Sentenza n. 31863 del 10/04/2019, Rv. 276586; Sez. 4, Sentenza n. 22079 del
20/02/2019, Rv. 276265; nonché in precedenza ex multis: Sez. 4, n. 24136 del
06/05/2016, Rv. 266854; Sez. 4, n. 22246 del 28/02/2014„ Rv. 259224).

10. I ricorrenti, invero, non negano il principio
della riconduzione dell’assunzione del rischio all’ingerenza nello svolgimento
dell’opera ed al concreto svolgersi del rapporto lavorativo, ma contestano la
ricostruzione dei giudici di merito sul ruolo rispettivamente svolto.

11. In particolare N. C. insiste sulla sussistenza
di chiari elementi indicativi della titolarità del rapporto in capo all’impresa
B.; egli, infatti, si sarebbe limitato a mettere in comunicazione alcuni
lavoratori, fra cui il cugino N. C., con i B., senza svolgere alcuna attività
nel cantiere, tanto è vero che lo stesso infortunato ha dichiarato di essere
stato pagato dalla società B. Costruzioni, la quale si era assunta anche le
spese per vitto ed alloggio per i medesimi.

12. Ben diversa è, tuttavia, la rappresentazione dei
fatti che emerge dalle sentenze impugnate, desunta dalle testimonianze raccolte
e da quanto riferito da N. C.. Non solo, infatti, C. condusse materialmente gli
operai presso il cantiere, ma egli diede loro direttive sulle modalità di
svolgimento del lavoro (il giudice di primo grado trae la circostanza della
deposizione di B. C., fratello di N., e dalle parole di M.F., altro operaio
reclutato da C., che entrambi lasciarono il cantiere considerandolo troppo
pericoloso, pochi giorni prima dell’incidente e che riferiscono di avere
ricevuto ordini dall’imputato sull’attività da svolgere), procurando anche
parte del materiale necessario alle opere. Sicché il fatto che sia stata la B.
Costruzioni s.r.l. a provvedere al pagamento ed al mantenimento degli operai è
solo ulteriore circostanza che dimostra la concreta sovrapposizione delle
figure datoriali.

13. Il ricorso, dunque, cui l’imputato allega anche
i verbali dell’assunzione dei testi, al fine di dimostrare la verità della
versione prospettata, finisce per risolversi nella richiesta di un nuovo vaglio
probatorio, che, come già detto, non rientra nelle attribuzioni di questa Corte
di legittimità.

14. Analoghe considerazioni valgono per il motivo
introdotto da A. B., con il quale si lamenta, altresì, la solo apparente
risposta della Corte territoriale alla critica formulata con l’appello in
relazione al suo coinvolgimento nella gestione del cantiere, prospettato dal
giudice di prima cura.

Anche volendo superare l’assoluta genericità della
censura, che si limita a riprendere testualmente e per esteso il proprio atto
di gravame lamentando che la sentenza qui impugnata si sia limitata a
richiamare, senza sottoporli a critico vaglio, gli argomenti contenuti nella
decisione di primo grado, vi è che la Corte territoriale risponde, seppure
sinteticamente, alla sollecitazione introdotta. E lo  a, rinviando alle dichiarazioni della persona
offesa ampiamente commentate dai giudici di merito e ritenute del tutto
credibili. D’altro canto, la formulazione del motivo di appello, ripresa dal
ricorrente in questa sede, appare essa stessa priva di specificità, in quanto
sì risolve nella mera frammentazione delle dichiarazioni testimoniali, senza
che da una simile operazione scaturisca una visione realmente alternativa dei
fatti, come ricostruiti dalla decisione appellata.

E’ appena il caso di ricordare che il principio c.d.
dell’effettività esula dalla sussistenza della delega di funzioni di cui all’art. 16 d.lgs. 81/2008, sulla
cui assenza il ricorrente insiste per escludere l’assunzione di una posizione
di garanzia, essendo il padre G. B., il soggetto su cui gravano gli obblighi
prevenzionali e non avendo questi trasferito i relativi poteri in capo al
figlio A.. Ed anzi, nella maggior parte dei casi è proprio laddove la delega
manca che viene in rilievo l’assunzione di fatto della posizione di garante
propria del datore di lavoro, strettamente connessa all’ingerenza nell’attività
svolta dall’impresa, da un soggetto che non ne riveste formalmente la figura,
ma ne assume di fatto i poteri. E’ proprio in relazione a dette situazioni che
l’art. 299 d.lgs. 81/2008 fa
gravare gli obblighi di tutela su chi concretamente svolge le funzioni del
datore di lavoro, del dirigente o del preposto [art. 2 lett. b), d) ed e),
richiamato dall’art. 299
cit.].

15. Per tirare le fila, va osservato che la
“confusione” di ruoli derivante dalla mancata regolazione dei rapporti fra più
imprenditori che operano nello stesso cantiere facendo ricorso alla medesima
manovalanza e l’assenza di formalizzazione del rapporto di lavoro con l’uno o
con l’altro, non può incidere sugli oneri di prevenzione dai rischi per
l’incolumità dei lavoratori, risolvendosi in un continuo rimbalzo della
responsabilità datoriale, dovendo questa ricadere su ciascuno dei soggetti che
organizzano l’attività ed operano nel cantiere avvalendosi della prestazione
dei lavoratori, dando loro direttive, ancorché ciò si risolva in una
subordinazione di fatto dei medesimi. Ed è in questo che si estrinseca il
principio dell’effettività.

16. All’inammissibilità dei ricorsi consegue la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento
della somma di euro duemila ciascuno in favore della cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della soma di euro duemila
ciascuno in favore della cassa delle ammende.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 marzo 2021, n. 11701
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