Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 aprile 2021, n. 9820
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Cessazione
dell’attività, Sussistenza, Accertamento
Fatti di causa
Con sentenza 22 (notificata il 29) novembre 2018, la
Corte d’appello di Trento rigettava l’appello proposto da M.V. avverso la
sentenza di primo grado, di reiezione della sua impugnazione del licenziamento
intimatole il 14 novembre 2016 dalla datrice R.C., titolare della ditta
individuale G.C., per giustificato motivo oggettivo.
A motivo della decisione, la Corte territoriale
condivideva l’interpretazione del Tribunale di inequivoca manifestazione, nella
lettera di licenziamento, della volontà datoriale di recesso per cessazione
dell’attività, in effetti risultata; essendo irrilevante che essa (peraltro
neppure oggetto di specifica indicazione nella lettera, piuttosto contenente
quella del rapporto al 31 dicembre 2016) si fosse verificata alcuni giorni dopo
e così pure che si fossero poi svolte le operazioni di inventario, evidentemente
non riconducibili a quella tipica di esercizio.
Con atto notificato il 28 gennaio 2019, la
lavoratrice ricorreva per cassazione con tre motivi, cui la datrice resisteva
con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 1362
ss. c.c., per l’erronea interpretazione giudiziale della lettera datoriale
del 14 novembre 2016 come intimazione di licenziamento, alla stregua di
manifestazione di una volontà attuale anziché di mera intenzione, secondo
quella comune delle parti, anche tenuto conto della pendenza di trattative
della titolare della ditta con le due dipendenti per conferire l’azienda in una
costituenda società con le stesse (partecipata al 50% dalla datrice e al 50%
dalle due dipendenti).
2. Esso è inammissibile.
3. Innanzi tutto, il motivo difetta di specificità,
in violazione della prescrizione a pena di inammissibilità dell’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., in
assenza di trascrizione né di specifica indicazione della sede di produzione
della lettera oggetto della contestata interpretazione (Cass. 11 gennaio 2016,
n. 195; Cass. 18 settembre 2017, n. 21554;
Cass. 3 maggio 2019, n. 11599).
3.1. Esso poi censura l’interpretazione del
documento da parte della Corte territoriale, senza neppure un’enunciazione dei
canoni ermeneutici contrattuali violati (pure applicabili agli atti
unilaterali, come il recesso in questione, a norma dell’art. 1324 c.c.), né tanto meno specificazione
delle ragioni né del modo in cui si sarebbe realizzata l’asserita violazione
(Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 21 giugno 2017, n. 15350), con la singolare
invocazione del canone della comune intenzione delle parti in riferimento ad un
atto unilaterale, come detto.
3.2. D’altro canto, la Corte trentina ha pure
fornito un’interpretazione del testo assolutamente plausibile, insindacabile in
sede di legittimità, in quanto indagine di fatto riservata al giudice di merito
congruamente argomentata (per le ragioni esposte al secondo capoverso di pg. 8
della sentenza), sicché la ricorrente ha ad essa meramente contrapposto la
propria, con altro profilo di insindacabilità in sede di legittimità (Cass. 10
maggio 2018, n. 11254), anche consistendo l’oggetto della censura, in sostanza,
in una contestazione del risultato interpretativo in sé (Cass. 10 febbraio
2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891).
4. Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e
falsa applicazione degli artt.
3 I. 604/1966 e 18 I.
300/1970, per inesistenza del giustificato motivo oggettivo di
licenziamento, intimato per cessazione dell’attività al 31 dicembre 2016,
invece proseguita oltre ed anzi mai di fatto cessata, ma soltanto sospesa,
nell’attuale verificata mancanza di cancellazione della ditta dal registro
delle imprese.
5. Esso è parimenti inammissibile.
6. Non si configura il vizio di violazione di legge
denunciato, posto che la censura non consiste nella deduzione di un’erronea
ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta
recata da una norma di legge, implicante un problema interpretativo, che è
stato pure esattamente risolto; ed infatti, nel caso in cui sia accertata la
totale cessazione dell’attività imprenditoriale da parte del datore di lavoro,
la legittimità del licenziamento intimato ai lavoratori per giustificato motivo
oggettivo non è esclusa né dal fatto che lo stabilimento sede dell’impresa non
sia stato immediatamente alienato o altrimenti dismesso, rimanendo però nella
disponibilità dell’imprenditore come mera entità non funzionante, né dal fatto
che uno o pochi altri dipendenti siano stati mantenuti in servizio per il
compimento delle pratiche relative alla cessazione, non essendo sindacabili nel
quadro della libertà d’iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. le ragioni dei licenziamenti dovuti
a cessazione dell’attività (Cass. 24 settembre
2010, n. 20232).
6.1. Nel caso di specie, la ricorrente ha piuttosto
dedotto un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle
risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente
alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in
sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11
gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 5 febbraio 2019,
n. 3340), ovviamente nei limiti del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui non
sussistente: sicché, la censura consiste in una contestazione dell’accertamento
di fatto della Corte territoriale di cessazione dell’attività di impresa, ai
fini della verificata sussistenza del giustificato motivo oggettivo,
congruamente argomentata (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 9
al penultimo di pg. 10 della sentenza).
7. Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e
falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. in
relazione all’art. 3 Cost., per la negata compensazione
delle spese di giudizio, benché richiesta dalla lavoratrice, quale parte debole
destinataria di un favor nelle controversie di lavoro, infatti osservato in
altra controversia, posta la lesione del principio di uguaglianza da un tale
difforme applicazione giurisprudenziale.
8. Esso è infondato.
9. Occorre premettere che ogni statuizione del
giudice di merito relativa alle spese del giudizio (inclusa quella di
compensazione tra le parti) sia insindacabile in sede di legittimità, con il
solo limite che esse non possono essere poste a carico della parte interamente
vittoriosa (Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 31 marzo 2017, n. 8421).
9.1. La Corte territoriale ha fatto una corretta
applicazione del principio di soccombenza, in assenza di gravi ed eccezionali
ragioni (altre, rispetto “al caso di assoluta novità della questione
trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni
dirimenti”, secondo il testo dell’art. 92,
secondo comma c.p.c. come sostituito dall’art. 13, primo comma d.l. 132/2014
conv. con mod. in I. 162/2014, applicabile
ratione temporis, alla luce della dichiarata illegittimità costituzionale in
parte qua da Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77),
non ravvisabili in quelle genericamente dedotte dalla ricorrente, tanto meno
integranti violazione del principio di uguaglianza, in riferimento a diversa
statuizione giudiziale sulle spese in differenti controversie.
10. Dalle superiori argomentazioni discende allora
il rigetto del ricorso, con la statuizione delle spese del giudizio secondo il
regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella
ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass.
s.u. 20 settembre 2019, n. 23535);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la lavoratrice alla
rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali,
oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di
legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13,
se dovuto.