Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 maggio 2021, n. 11634

Pubblico impiego contrattualizzato, Sanzione disciplinare
della destituzione, Contestazione, Gravità della condotta, Accertamento

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’Appello di Palermo ha respinto il
gravame proposto da M.C.L. avverso la sentenza del Tribunale di Trapani che
aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere, nei confronti del Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (di seguito, MIUR) e del Liceo
Ginnasio Statale “Leonardo X.” di Trapani, l’annullamento della
sanzione disciplinare della destituzione inflitta con decreto notificato in
data 8 gennaio 2008.

La Corte ha ritenuto nuova, perché sollevata solo in
grado di appello e come tale inammissibile, l’eccezione di violazione dell’art.
97 del d.P.R. n. 3/1957, secondo cui il procedimento disciplinare deve avere
inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui
è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento (qui, per prescrizione)
od entro 40 giorni dalla data in cui l’impiegato abbia notificato
all’amministrazione la sentenza stessa, aggiungendo altresì che, comunque,
l’appellante non aveva fornito la prova di avere notificato la sentenza
all’Amministrazione.

La Corte distrettuale ha poi escluso che la L.
potesse invocare i termini previsti dall’art. 5, comma 4, L. 97/2001, in
quanto essi erano da ritenere relativi ai soli delitti indicati nel comma 1
dell’art. 3 della stessa legge, così come inconferente era ritenuto l’art. 9 L. 19/1990, in quanto
ritenuto non pertinente rispetto a sentenze di proscioglimento per
prescrizione; l’unico termine applicabile alla fattispecie era dunque quello
previsto dall’art. 120 del d.p.r. n. 3/1957 «di cui tuttavia – si legge nella
sentenza impugnata – non risulta provata la violazione, che va, tra l’altro,
esclusa anche alla luce dell’esame degli atti del fascicolo del procedimento disciplinare».

La Corte ha infine escluso l’incompetenza del
Direttore Generale preposto all’Ufficio Scolastico Regionale della Sicilia,
perché, pur essendosi le condotte verificate quando la ricorrente lavorava in
Provincia di Bergamo, essa, al momento della contestazione della sanzione,
prestava servizio a Trapani ed ha anche ritenuto che i fatti fossero di gravità
tale da giustificare la destituzione perché in sede penale era stato comunque
accertato, attraverso perizia grafica, che i certificati medici apparentemente
rilasciati dal (medico) dott. S. erano stati di fatto formati dalla L., la
quale era stata trovata in possesso di timbri e di numerose certificazioni
sanitarie, attestanti la necessità di periodi di ri poso, predisposte su fogli
scritti a mano.

2. La L. ha proposto ricorso per cassazione con tre
motivi, resistiti da controricorso del MIUR.

Il Liceo X. è rimasto intimato.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo denuncia la violazione dei
termini decadenziali di cui agli artt.
9 L. 19/1990 e 5 L. 97/2001,
entro cui andava applicata la sanzione della destituzione con riferimento alla
data di conoscenza della sentenza penale irrevocabile di proscioglimento per
prescrizione, nonché rispetto alla data di avvio del procedimento disciplinare,
in violazione altresi degli artt.
9 L. 19/1990, 92, 117 e 120 d.p.r. 3/1957, il tutto con riferimento
all’ipotesi di cui all’art. 360
n. 3 c.p.c.

1.1 I primi termini di cui si assume la violazione
sono quelli dell’art. 9 L.
19/1990 e dell’art. 5, co. 4,
L. 97/2001.

Entrambe le norme stabiliscono un termine iniziale,
a far data dalla comunicazione della sentenza «di condanna» in sede penale, per
l’avvio (o la prosecuzione se già iniziato prima e poi sospeso) del
procedimento disciplinare finalizzato all’irrogazione della sanzione espulsiva
quale conseguenza della commissione di reati.

Questa Corte (Cass. 5 ottobre 2016, n. 19930) ha già
stabilito, in difformità da quanto affermato dalla Corte territoriale, che i
termini di decadenza di cui all’art.
5 cit. trovano applicazione a qualsiasi ipotesi di reato cui sia seguita
sentenza definitiva di condanna e ciò sia per ragioni di ordine letterale (l’art. 5, co. 4, rinvia all’art. 3 della stessa legge ai soli
fini dei soggetti interessati dalla sua disciplina e cioè chi sia «dipendente
di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente
partecipazione pubblica») sia per ragioni sistematiche (l’art. 5 non richiama in alcun modo
gli specifici reati, che sono menzionati da una diversa norma di quella legge –
art. 3 – per i soli specifici
fini di cui al trasferimento d’ufficio ivi regolato), in una complessiva logica
(Corte Costituzionale 24 giugno 2004, n. 186) di «maggiore rigore per garantire
il corretto svolgimento dell’azione amministrativa».

Tuttavia, in disparte la questione sul rapporto tra
l’art. 5, co. 4 L. 97/2001 e
l’art. 9 L. 19/1990 (il fatto
che le due norme regolino la medesima fattispecie pur stabilendo termini tra
loro diversi sollecita in effetti un possibile problema di abrogazione della
prima ad opera della seconda) ed in disparte altresì il fatto che anche la
contrattazione collettiva ratione temporis avrebbe potuto stabilire termini
diversi per la fattispecie di cui all’art. 5, co. 4 (v., sul tema,
Cass. 1 luglio 2019, n. 17639 ed altre precedenti conformi), decisivo ed
assorbente il rilievo per cui il riferimento alla sentenza di condanna ed a
termini decadenziali consequenziali alla sua conoscenza non si presta in alcun
modo ad essere esteso a sentenze diverse tra cui, come nel caso di specie, alla
pronuncia di proscioglimento per prescrizione.

E’ infatti di assoluta evidenza che l’accertamento
dei fatti quale consegue ad una sentenza di condanna penale definitiva rende il
procedimento disciplinare di regola assai più semplice di quanto avviene a
fronte di una pronuncia di proscioglimento o di assoluzione.

In presenza di una sentenza di condanna, la P.A. deve
infatti procedere soltanto all’apprezzamento del rilievo disciplinare di una
condotta già irrevocabilmente accertata in sede penale e con effetti vincolanti
quanto alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed
all’affermazione che l’imputato ha commesso ai sensi dell’art. 653, co. 1 -bis c.p.p., immediatamente
applicabile, ai sensi dell’art.
10, co. 1, L. 97/2001, anche ai procedimenti disciplinari in corso e quindi
certamente a quelli, come è nel caso di specie, in cui la contestazione è stata
successiva all’ultimazione del processo penale.

In caso di assoluzione l’attività è diversa,
dovendosi apprezzare se, nonostante gli effetti della pronuncia (art. 653, co. 1 c.p.p.), persistano profili di
rilievo disciplinare e sicuramente più complessa è l’attività in caso di
sentenza di proscioglimento per prescrizione, in quanto essa rende necessario
un accertamento autonomo dei fatti.

In definitiva, per quanto la legislazione successiva
(art. 55-ter, u.c., qui non
applicabile ratione temporis) abbia unificato i termini rispetto a tutte le
tipologie di pronuncia penale, l’autonomia delle diverse ipotesi non consente,
anche per la portata decadenziale, l’applicazione alla sentenza di
proscioglimento delle regole illo tempore (sull’inapplicabilità dell’art. 55-ter rispetto a procedimento
disciplinare aperti prima dell’entrata in vigore dell’art. 90 d. Igs. 150/2009, v. Cass. 17 maggio
2017, n. 12358) dettate per la sola sentenza definitiva di condanna.

Il motivo pertanto non giova alla ricorrente perché
i termini in parte qua invocati non riguardano il caso di specie.

1.2 Nel contesto del medesimo motivo, la ricorrente
assume che la P.A.

avrebbe violato l’art. 10, co. 3, L. 97/2001,
secondo cui il procedimento disciplinare, per i casi in cui i fatti fossero
stati commessi prima dell’entrata in vigore di tale legge, ma perseguiti
successivamente, va instaurato nel termine di 120 giorni dalla conclusione del
procedimento penale con sentenza irrevocabile.

La ricorrente rimarca come tale norma non sia
limitata alle sentenze di condanna e lamenta che la Corte territoriale abbia
ingiustificatamente negato l’applicazione di tale termine al caso di specie.

Quest’ultima affermazione non può essere condivisa e
comunque essa risulta insufficientemente specificata dalla parte ricorrente.

Nella sentenza impugnata, infatti, il tema
dell’applicazione della L. 97/2001 risulta
affrontato solo con riferimento al disposto dell’art. 5, co. 4, in relazione al
rinvio da esso operato all’art. 3,
co. 1, su cui si è già detto e ciò in forza di un motivo che la stessa Corte
d’Appello ricostruisce come riguardante queste ultime norme.

E’ peraltro ovvio che, riguardando l’art. 5, co. 4, secondo quanto già
si è detto, le sole sentenze definitive di condanna, ne deriva parimenti
l’applicabilità esclusivamente a quelle anche dell’art. 10, co. 3, che è la norma
transitoria per i procedimenti riguardanti fatti anteriori all’introduzione
della nuova disciplina: sul riferimento di quest’ultima norma alle sentenze di
condanna, come regola di diritto transitorio, v. Corte Costituzionale 24 giugno
2004 n. 186, la quale ha ritenuto l’illegittimità costituzionale della norma
nella parte in cui prevedeva «l’instaurazione dei procedimenti disciplinari
entro centoventi giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza
irrevocabile di condanna, anziché entro il termine di novanta giorni dalla
comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il
procedimento disciplinare». Inoltre, la ricorrente neppure precisa per quale
ragione, pur discorrendosi di una sentenza ricevuta il 6.3.2007 e di una
contestazione del 12.4.2007, potrebbe aversi per violato il termine di 120
giorni per l’inizio o la ripresa del procedimento sanzionatorio di cui al
citato art. 10, co. 3.

1.3 In definitiva resta confermato il principio per
cui «per il periodo antecedente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 de! 2009, ai procedimenti
disciplinari dei docenti della scuola pubblica – soggetti, ex art. 55, comma 10, del d.lgs.
n. 165 del 2001, ad un regime particolare rispetto a quello stabilito per
la generalità dei dipendenti di cui all’art. 2, comma 2, dello
stesso d.lgs., basato sull’inapplicabilità delle norme del TU n. 3 del 1957,
con la decorrenza stabilita dall’art. 72, comma 4, del d.lgs.
n. 165 del 2001 – si applicano le disposizioni di cui agli artt. Da 100 a
123 del d.P.R. n. 3 del 1957, richiamati attraverso il rinvio all’art. 507 del d.lgs. n. 297 del
1994, al quale fanno riferimento anche tutti i c.c.n.I.
del Comparto Scuola nel periodo considerato, a partire da quello per il
quadriennio 1994-1997; ne consegue che, nel periodo indicato, continua a
trovare applicazione l’art. 120 del d.P.R. n. 3 del 1957, secondo cui il
procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni
dall’ultimo atto «senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto» (Cass. 30 novembre 2018, n. 31085), esattamente
come ha concluso la Corte territoriale, senza che vi sia più questione sul
rispetto del predetto termine “endoprocedimentale”.

2. Con il secondo motivo la L. ribadisce
l’incompetenza dell’Ufficio irrogante la sanzione.

2.1 In fatto è pacifico che le condotte poi
sanzionate (falsificazione di certificati medici per giustificare le assenze
dal servizio) siano state poste in essere quando la ricorrente lavorava in
Provincia di Bergamo.

Essa successivamente si è trasferita a lavorare in
provincia di Trapani e successivamente a tale trasferimento è stata inoltrata
nei suoi confronti la contestazione disciplinare, a cura del Dirigente
Scolastico della provincia di Trapani. L’irrogazione della sanzione risale poi
al gennaio 2008 ed è stata posta in essere, secondo quanto afferma la Corte
territoriale, dal Dirigente preposto all’Ufficio Scolastico Regionale della
Sicilia, in coerenza con la previsione a quel punto applicabile ratione
temporis dell’art. 498 d. Igs.
297/1994 (quale modificato dal d.l. 147/2007,
conv. con mod. in L. 17/2007 e solo
successivamente abrogato dal d.lgs. 150/2009), secondo cui «organo competente
per l’irrogazione delle sanzioni di cui all’articolo 492, comma 2, lettere
b), c), d) ed e), è il dirigente preposto all’ufficio scolastico regionale».
Secondo la Corte territoriale, competente per l’irrogazione della sanzione era
il Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale della sede di servizio
della lavoratrice al momento della contestazione, così come già ritenuto dal
giudice di primo grado, attraverso il richiamo all’art. 503, co. 1, lett. b) d. Igs.
297/1994.

La ricorrente sottolinea tuttavia come l’art. 503 cit., così come il
CCNL di comparto, pur prevedendo la competenza del Dirigente e del Direttore
dell’Ufficio Scolastico Regionale, non precisano se il riferimento vada alla
regione ove la lavoratrice operava nel momento in cui fu posto in essere
l’illecito o quella il cui essa prestava servizio al momento della
contestazione e dello svolgimento del procedimento disciplinare. Secondo la
ricorrente, a fronte di tale incertezza, i giudici di appello non avrebbero
motivato compiutamente le ragioni del raggiunto convincimento giuridico, da
essa comunque ritenuto errato.

2.2 Premesso che, rispetto ad una questione di mero
diritto, non può porsi un’impugnazione per difetto di motivazione, sussistendo
per le relative censure lo specifico motivo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c., va comunque detto che le
conclusioni della Corte territoriale sono da condividere.

Poiché la contestazione risale all’aprile 2007, vale
poi il già richiamato principio per cui, ratione temporis, si applicano le
disposizioni degli artt. da 100 a 123 del d.P.R. n. 3 del 1957 (cfr. Cass. 31085/2018, nella massima sopra citata) e
ciò giustifica il comportamento della P.A. che, al di là della misura cautelare
adottata medio tempore, ha differito l’azione disciplinare all’esito del
processo penale, come previsto dall’art. 117 d.p.r. 3/1957, applicabile in
ragione di quanto sopra detto.

Questa Corte ha in effetti già ritenuto che «in
materia di pubblico impiego contrattualizzato, la competenza ad avviare e
concludere il procedimento disciplinare, nella vigenza dell’art. 55 del d.lgs. n. 165 del
2001 (anteriormente all’aggiunta dell’art.
55-bis ad opera del d.lgs. n. 150 del 2009), è dell’ufficio per i
procedimenti disciplinari del luogo, ossia della sede lavorativa, dove il
lavoratore prestava servizio quando i fatti, come conosciuti
dall’amministrazione, hanno assunto evidenza disciplinare, senza che rilevi il
successivo trasferimento del lavoratore medesimo ad altra sede appartenente
alla stessa P.A., ancorché gravante nella sfera di competenza di altro ufficio
disciplinare» (Cass. 21 febbraio 2017, n. 4447).

Tale principio non può tuttavia riguardare l’ipotesi
in cui vi sia stato il differimento della contestazione disciplinare all’esito
del giudizio penale, perché in tale ipotesi la notizia che assume effettiva
rilevanza, a fini decadenziali come anche poi di competenza, non può non essere
quella che si rende disponibile dall’esito definitivo di tale processo, in
quanto è dagli accertamenti del processo penale che deriva, in tali casi,
l’effettiva consistenza e fondatezza dei fatti da addebitare.

Pertanto, tenuto conto che le misure sono destinate
ad incidere su un rapporto di lavoro ormai in corso presso quella diversa sede
e del fatto che il procedimento disciplinare coinvolge anche il lavoratore ivi
presente, non vi è alcuna ragione per ritenere che la contestazione debba
radicarsi territorialmente, in tali casi, presso gli uffici ove erano state
poste in essere le condotte illecite e non presso quelli territorialmente
pertinenti al luogo ove nel frattempo il lavoratore si sia trasferito a
prestare servizio per il medesimo datore pubblico.

Il motivo va pertanto respinto.

3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la
mancanza di proporzionalità della sanzione e sottolinea l’assenza di vincoli
derivanti dagli accertamenti penali, stante il sopravvenire della sentenza di
proscioglimento per prescrizione.

3.1 II motivo è inammissibile.

Intanto esso, pur muovendo dalla trascrizione del
passaggio della sentenza di appello sulla tema della proporzione della
sanzione, di cui afferma genericamente la non condivisibilità, si sviluppa poi
integralmente attraverso considerazioni che hanno riguardo alla decisione
datoriale, invece che alle (ampie) motivazioni addotte dalla Corte territoriale
nel valutare il predetto profilo.

La Corte d’Appello ha infatti ritenuto la fondatezza
dell’addebito, sulla base della perizia del processo penale da cui emergeva la
falsificazione delle firme e del sequestro dei timbri apposti sui certificati
presso l’abitazione della ricorrente e della sorella. Su tale base, ha quindi
sottolineato il dolo e l’uso di mezzi fraudolenti per ingannare il datore di
lavoro, con comportamento ritenuto tale da compromettere la funzione di modello
educativo che la figura del docente deve assumere verso gli alunni e nel
contesto della comunità scolastica, oltre che inadeguato a chi svolga una
pubblica funzione.

Tali argomentazioni, in sé idonee sia ad integrare i
generici presupposti di compromissione della fiducia datoriale, sono del tutto
coerenti con la specifica previsione di cui all’art. 498 d. Igs. 297/1994
(lettera a: grave contrasto con i doveri inerenti alla funzione; lettera b)
attività dolosa che abbia portato grave pregiudizio – qui da intendersi come
morale – alla scuola, alla pubblica amministrazione, agli alunni, alle
famiglie) e sulla base di esse la Corte ha espressamente escluso altresì che potesse
avere alcun rilievo la condotta tenuta successivamente alla cessazione della
sospensione cautelare.

A fronte di tale completa valutazione, il motivo
risulta del tutto generico, insistendo sull’eccessività, sui comportamenti
successivi e sul periodo di sospensione cautelare senza stipendio sopportato,
con ciò mostrando di risultare essenzialmente finalizzato ad una rilettura del
merito, sicuramente inammissibile in sede di legittimità (Cass. 4 agosto 2017,
n. 19547; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148;
Cass. 9 agosto 2007, n. 17477).

4. All’integrale rigetto del ricorso segue la
regolazione secondo soccombenza delle spese del grado, nei riguardi della parte
che ha resistito.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento in favore del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00
per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 maggio 2021, n. 11634
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