Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 maggio 2021, n. 12631

Esposizione all’amianto, Malattia professionale, Omissione
di adozione di misure idonee a salvaguardare la salute del lavoratore

 

Rilevato che

 

con sentenza n. 1852 del 2014, la Corte d’appello di
Bologna ha confermato la statuizione di primo grado che aveva condannato E.
s.p.a., al pagamento, quale soggetto successore del responsabile civile (ai
sensi dell’art. 2504 c.c.) ed in ragione della responsabilità attribuibile già
a S. s.p.a, originaria datrice di lavoro, delle somme dovute all’INAIL a titolo
di regresso per quanto corrisposto agli eredi di I.B. (deceduto a seguito della
malattia professionale del mesotelioma pleurico causata da esposizione
qualificata all’amianto); ad avviso della sentenza impugnata la fusione di
società, anche mediante incorporazione, aveva realizzato una successione
universale corrispondente a quella mortis causa, per cui il soggetto risultante
dalla fusione era divenuto l’unico e diretto obbligato per i debiti dei
soggetti estinti per effetto della fusione; pertanto, essendo il rapporto di
lavoro del B. durato dal 1951 al 1986, già con la fusione di S. s.p.a. in A.P.
s.p.a. si era determinato un primo effetto di successione universale, poi
reiteratosi con la fusione di A.P. s.p.a. in E. s.p.a.; inoltre, la Corte ha
confermato che non si era determinata alcuna decadenza triennale datazione di
regresso ex art. 112 d.p.r. n. 1124 del 1965, giacché la vicenda penale si era
chiusa con un provvedimento di archiviazione del 4 maggio 2006 ed il giudizio
di primo grado era stato introdotto il 9 gennaio 2007; era poi rimasta provata
la responsabilità della datrice di lavoro sia per gli aspetti materiali
dell’omissione di adozione di misure idonee a salvaguardare la salute del
lavoratore che per l’elemento soggettivo della colpa, come emerso dalle prove
testimoniali raccolte; del tutto generica, infine, era rimasta la contestazione
relativa al quantum dell’indennità corrisposta dall’INAIL;

contro questa pronuncia ha proposto ricorso per
cassazione E. s.p.a. con quattro motivi;

l’INAIL ha resistito con controricorso; entrambe le
parti hanno depositato memorie;

 

Considerato che

 

Con il primo motivo di ricorso, E. s.p.a. denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione
all’art. 11 delle preleggi ed all’art. 2504 bis c.c. nonché all’art. 2049 c.c.
,nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere
la Corte di merito ritenuto E. s.p.a. soggetto legittimato passivo sulla scorta
dell’avvenuta incorporazione da parte sua di A.P. s.p.a. a sua volta soggetto
incorporante di S. s.p.a. (pregressa datrice di lavoro) senza considerare che
la disciplina applicata (art. 2504 bis c.c.) era intervenuta con d.lgs. n. 22
del 1991, successivamente alla fusione intervenuta tra S. s.p.a. e A.P. s.p.a.
e tale disciplina non ha efficacia retroattiva con la conseguenza che si era
determinata solo una modificazione dell’assetto societario e non l’estinzione
del soggetto incorporato; dunque, E. s.p.a. non avrebbe potuto rispondere in
ordine a domande di natura risarcitoria proposte da un lavoratore che mai aveva
avuto alle proprie dipendenze, neppure lo stabilimento ove il B. aveva prestato
attività lavorativa aveva mai fatto parte dell’azienda ceduta ad E. s.p.a.;

con il secondo motivo, E. s.p.a. lamenta violazione
e falsa applicazione delle disposizioni dinanzi citate per avere la Corte
territoriale ritenuto di individuare il presupposto per l’azione di regresso
nei confronti dell’E. s.p.a. nell’art. 2504 bis cod. civ., senza considerare
che il B. era stato assunto da S. s.p.a. in data 15 gennaio 1952 ed era rimasto
dipendente di tale società sino alla data del licenziamento avvenuto il 29
febbraio 1986; S. s.p.a. era stata incorporata in A.P. s.p.a. il primo dicembre
1986 ed il ramo aziendale di Ravenna (ove il B. aveva prestato la propria
attività) era stato conferito alla I. s.p.a.; in ragione del disposto dell’art.
2560 c.c., inoltre, E. s.p.a. non poteva rispondere per il debito rivendicato dall’INAIL
in quanto non iscritto nei libri contabili;

con il terzo motivo, E. s.p.a. deduce violazione e
falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione agli artt. 2947
c.c. e 112 d.P.R. n. 1124 del 1965 e degli artt. 115 e 116 c.p.c. in quanto,
nell’erroneo presupposto che fosse mancato l’accertamento del reato, aveva
ritenuto di decadenza e non di prescrizione il termine triennale previsto per
l’esercizio dell’azione di regresso da parte dell’Inail; la prescrizione si
sarebbe invece determinata, essendo decorsi quasi ventitré anni tra il momento
in cui si sarebbe determinato l’evento che comportò la malattia (il rapporto di
lavoro era cessato nel 1986) e la data della introduzione della domanda di
regresso (10 ottobre 2007), e gli atti interruttivi erano stati indirizzati al
soggetto non legittimato A.P. s.p.a.; inoltre, anche a voler considerare il
termine di cui all’art. 112 cit. quale termine di decadenza, lo stesso era
certamente decorso considerando che l’INAIL aveva partecipato attivamente al
procedimento penale conclusosi con il decreto di archiviazione;

con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione agli artt. 10 e 11 d.P.R.
n. 1124 del 1965, al d.P.R. n. 303 del 1956 nonché alla legge n. 277/1991;
violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione agli
artt. 2049 e 2697 c.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116
c.p.c. in quanto la sentenza impugnata aveva ritenuto sussistente la
responsabilità del datore di lavoro sulla base della erronea convinzione che
fossero noti i sistemi di protezione efficaci dall’amianto prima degli anni
settanta e lo stesso d.P.R. n. 303 del 1956, richiamato dalla sentenza
impugnata, non si riferiva specificamente all’amianto ma genericamente alle
polveri; era del tutto mancata la prova, dunque, della condotta dolosa o
comunque colposa del datore di lavoro idonea a determinare il pregiudizio alla
salute sofferto dal lavoratore e ciò era già emerso in sede penale laddove
l’INAIL non aveva in alcun modo contrastato le conclusioni del pubblico
ministero contenute nella richiesta di archiviazione;

i primi due motivi di ricorso sono infondati;

la sentenza impugnata ha ritenuto essere pacifico
che S. s.p.a. (datrice di lavoro del B. dal 1951 alla cessazione del rapporto
di lavoro avvenuta nel 1986) fu incorporata da A.P. s.p.a. e che quest’ultima
fu poi incorporata da E. s.p.a., dunque si è verificato in tali due occasioni
l’effetto di successione universale che rende E. s.p.a. attuale soggetto
successore del responsabile dell’obbligazione dedotta in causa;

ad avviso della ricorrente, tuttavia, nessuna
successione universale potrebbe configurarsi in ragione del fatto che il
disposto dell’articolo 2504 bis c.c. è vigente solo dal 1992 e la prima
fusione, tra S. s.p.a. ed A.P. s.p.a., sarebbe avvenuta il primo dicembre 1986;

deve osservarsi che l’art. 2504, comma 4, c.c., in
tema di fusione di società per azioni, nel testo originario così disponeva: «La
società incorporante o quella che risulta dalla fusione assume i diritti e gli
obblighi delle società estinte»;

l’art. 12 d. Igs. 16 gennaio 1991 n. 22 ha
sostituito l’art. 2504 c.c. e l’art. 13 d. Igs. n. 22, cit. ha introdotto
l’art. 2504-bisc.c., il cui comma 1 riproduceva la norma di cui al comma 4
della disposizione modificata; dunque il punto non risultava modificato;

l’art. 23 d. Igs. 17 gennaio 2003 n. 6 ha modificato
l’art. 2504-bis, il cui comma 1, ora, così dispone: «La società che risulta
dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle
società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche
processuali, anteriori alla fusione».

pronunciando sul significato di tale norma e
componendo un contrasto sorto tra le sezioni semplici, le sezioni unite hanno
affermato che «L’art. 2505-bisc., nel testo vigente, stabilisce, […] al comma
1, che la società risultante dalla fusione o quella incorporante assumono i
diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in
tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione. Il
legislatore ha così (definitivamente) chiarito che la fusione tra società,
prevista dagli art. 2501 ss. c.c., non determina, nella ipotesi di fusione per
incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né crea un nuovo
soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria; ma attua l’unificazione
mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione. Il
fenomeno non comporta, dunque, l’estinzione di un soggetto e (correlativamente)
la creazione di un diverso soggetto; risolvendosi (come è già stato rilevato in
dottrina) in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso
soggetto, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo;

dunque, secondo il fermo orientamento di questa
Corte, la fusione di società, nel vigore del testo dell’art. 2504-bis c.c.
anteriore alla modifica recata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, realizza una
successione universale corrispondente a quella mortis causa e produce gli
effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e
della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi
e passivi facenti capo a questa, della società incorporante, che rappresenta il
nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già
riguardanti i soggetti fusi o incorporati (Cass. nn. 11059 del 2011, 9432 e
16194 del 2005, 18176 del 2004);

peraltro, la doglianza della parte ricorrente,
secondo cui non poteva comunque predicarsi la propria responsabilità in
relazione al debito per cui è causa in quanto non inserito all’interno delle
scritture contabili obbligatorie, solleva una questione che implica un
accertamento di fatto e che non risulta in alcun modo trattata nella sentenza
impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, di talché la parte
ricorrente, nel proporla in sede di legittimità, avrebbe dovuto, a pena
d’inammissibilità, non soltanto allegare l’avvenuta deduzione della questione
innanzi al giudice di merito, ma altresì indicare in quale scritto difensivo o
atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo a questa Corte di
controllarne ex actis la veridicità, prima di esaminarla nel merito (cfr. in
tal senso da ult. Cass. n. 8206 del 2016);

parimenti inammissibile è il motivo nella parte in
cui censura la sentenza per violazione dell’art. 2049 c.c.: come risulta dalla
motivazione, la Corte territoriale ha disatteso l’eccezione di difetto di
legitimatio ad causarti delle ricorrenti non già per aver addossato loro una
qualche culpa in vigilando, ma in quanto ha ritenuto che esse fossero succedute
alla società alle cui dipendenze lavorava il responsabile dell’infortunio
mortale, onde la doglianza si appalesa del tutto estranea al decisum;

il terzo motivo è infondato;

questa Corte di cassazione, ha affermato che
l’azione di regresso esperibile dall’INAIL contro il datore di lavoro,
civilmente responsabile dell’infortunio sul lavoro di un suo dipendente,
prevista l’art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, è assoggettata al
termine triennale di decadenza (insuscettibile d’interruzione), decorrente
dalla data di emissione della sentenza del giudice penale di non doversi
procedere, caratterizzata dalla mancanza di un accertamento del fatto-reato,
alla quale è equiparabile qualsiasi provvedimento, ancorché adottato nella fase
precedente al dibattimento, che precluda, se non in presenza di una diversa
situazione fattuale, la possibilità dell’avvio di nuove indagini e l’esercizio
dell’azione penale nei confronti della medesima persona. Ne consegue che, ove
sia stato emesso, ai sensi dell’art. 409 cod. proc. pen., decreto di
archiviazione, il termine decadenziale decorre dalle relative date di emissione
trattandosi di atto la cui rimozione deve essere autorizzate dal giudice
(Cassazione n. 1061 del 2012; Cass. n. 12447 del 1999; Cass. n. 11722 del
2000); dunque, correttamente la sentenza impugnata ha rilevato che non era
decorso il triennio tra la data del provvedimento di archiviazione (4 maggio 2006)
e la data di deposito del ricorso da parte dell’INAIL (9 ottobre 2007);

il quarto motivo è inammissibile;

si deduce la violazione di plurime disposizioni di
legge tutte riferite all’apprezzamento posto in essere dai giudici del merito
in ordine alla formazione del convincimento dell’effettiva responsabilità della
datrice di lavoro del B. nella determinazione della malattia professionale
contratta dal medesimo e che lo condusse alla morte, condotta realizzatasi
nell’avere omesso di apprestare idonee misure di protezione relativamente alla
dispersione di polveri di amianto nell’ambiente di lavoro;

la Corte territoriale ha proceduto alla disamina del
materiale istruttorio raccolto anche con riferimento alle prove testimoniali
espletate e, dunque, ha esercitato pienamente e correttamente la propria
funzione di accertamento che non può essere sindacata in sede di legittimità;

il ricorso, conclusivamente, va rigettato;

le spese del giudizio di legittimità seguono la
soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla
rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro
6.200,00, di cui Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura
pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, ove previsto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 maggio 2021, n. 12631
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