Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 maggio 2021, n. 12641

Licenziamento disciplinare per giusta causa, Stato
psicologico di grave turbamento, Incapacità naturale del prestatore,
Valutazione della proporzionalità della sanzione

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’ Appello di Catania ha respinto
l’appello di A.F.S. avverso la sentenza del locale Tribunale che aveva
rigettato il ricorso proposto nei confronti dell’Università degli Studi di
Catania, con il quale era stato impugnato il licenziamento disciplinare per
giusta causa, intimato con nota del 21 novembre 2013.

2. Il S., al quale era stato contestato di avere
effettuato acquisti di merce spendendo il nome dell’Università e addebitandone
a quest’ultima il costo, si era difeso, nel procedimento disciplinare ed in
sede giudiziale, sostenendo che le condotte di rilievo disciplinare erano state
tenute in quanto all’epoca egli si trovava in uno stato psicologico di grave
turbamento, tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere,
determinato dall’essere stato coinvolto nel naufragio della nave Costa
Concordia, a bordo della quale viaggiava.

3. La Corte territoriale, riassunti i termini della
controversia ed evidenziato che in grado d’appello era stata disposta
consulenza tecnica d’ufficio medico legale, ha richiamato le conclusioni alle
quali i consulenti erano pervenuti ed ha ritenuto che al momento dei fatti
l’appellante possedesse l’idoneità a comprendere il disvalore sociale della
condotta e fosse anche capace di autodeterminarsi nella scelta fra il compiere
l’azione o l’astenersi dalla stessa.

4. Il giudice d’appello ha escluso che il S. fosse
affetto da shopping compulsivo ed ha sottolineato al riguardo che gli acquisti
erano avvenuti con soldi non propri e secondo una progettualità meditata e ben
congegnata, incompatibile con la natura stessa e con le caratteristiche
dell’allegata patologia.

5. Infine la Corte ha ritenuto che la sanzione fosse
proporzionata all’addebito perché idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo
fiduciario, pur in assenza di precedenti disciplinari e di persistente
pregiudizio economico dell’Università, alla quale l’appellante aveva risarcito
il danno.

6. Per la cassazione della sentenza A.F.S. ha
proposto ricorso sulla base di tre motivi, ai quali l’Università degli Studi di
Catania ha opposto difese con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e
falsa applicazione degli artt. 428 e 2729 cod. civ. nonché degli artt. 115 e 116 cod.
proc. civ. e addebita alla Corte territoriale di avere ritenuto
erroneamente che l’incapacità naturale richieda l’assoluta privazione delle
facoltà intellettive e volitive quando, al contrario, è sufficiente un
turbamento psichico che impedisca la formazione di una volontà cosciente. Il
ricorrente sostiene che la patologia dalla quale era affetto, ossia disturbo
misto ansioso depressivo reattivo ad evento traumatico, era stata accertata dai
consulenti tecnici d’ufficio, i quali non potevano essere incaricati di
accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica dei fatti.
Aggiunge che la Corte, tenuto conto della patologia pacificamente sussistente,
avrebbe dovuto ritenere provata l’incapacità naturale in ragione di una serie
di indizi gravi, precisi e concordanti, considerando anche che solo la malattia
poteva spiegare il comportamento di un funzionario che, dopo aver prestato per
oltre venti anni il servizio senza mai incorrere in alcun rilievo, acquista un
numero considerevole di elettrodomestici (sette televisori, quattro notebook,
un congelatore, un frigorifero ed altro) per poi regalarli o accatastarli nel
garage.

2. La seconda critica denuncia l’omesso esame di
fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione fra le parti ravvisato
nella mancata considerazione dei rilievi critici formulati dal consulente
tecnico di parte, quanto alla specifica patologia di shopping compulsivo
pianificato ed alla mancata somministrazione da parte dei periti dei test
specifici che avrebbero consentito l’accertamento della malattia.

3. Con il terzo motivo è denunciata la violazione
degli artt. 2104 e 2106
cod. civ., dell’art. 115 cod. proc. civ.
nonché dell’art. 46, comma 1, del CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto
dell’Università e si addebita alla Corte territoriale di avere espresso un
giudizio di proporzionalità non corretto, non avendo tenuto conto della
condotta impeccabile tenuta nel lungo periodo di servizio, della malattia e
dell’avvenuto risarcimento del danno.

4. I motivi di ricorso, da trattare unitariamente in
ragione della loro connessione logicogiuridica, sono infondati nella parte in
cui denunciano la violazione dell’art. 428 cod.
civ., ed inammissibili per il resto.

La disposizione invocata disciplina l’azione di
annullamento degli atti dispositivi compiuti da persona che, sebbene non
interdetta, sia incapace di intendere e di volere, sicché errato è il richiamo
alla stessa allorquando si discuta della responsabilità che deriva dal
compimento di condotte integranti illecito disciplinare.

Ciò, peraltro, non significa che per queste ultime
sia priva di rilievo l’eventuale incapacità naturale del prestatore, la cui
rilevanza deriva innanzitutto dal principio, di carattere generale, secondo cui
la responsabilità del soggetto per gli atti compiuti non è di carattere
oggettivo e presuppone l’imputabilità, che è il presupposto indefettibile
affinché possa essere ravvisato l’elemento soggettivo sotteso alla condotta.

Infatti l’orientamento consolidato alla stregua del
quale, in tema di responsabilità disciplinare, la valutazione della
proporzionalità della sanzione rispetto alla mancanza del lavoratore deve
essere effettuata con riferimento agli aspetti oggettivi e soggettivi del caso
concreto, è stato sviluppato da questa Corte con l’affermazione che la
condizione psichica del lavoratore è pienamente implicata nel giudizio di
proporzionalità, che non può prescindere dall’accertamento in ordine a fattori
eventualmente idonei ad incidere sulla determinazione responsabile del soggetto
agente.

E’ stato, quindi, affermato che il giudice del
merito, prima ancora di indagare sul grado della colpa o sull’intensità
dell’elemento intenzionale, deve accertare se il lavoratore abbia  tenuto quel comportamento con coscienza e
volontà (Cass. n. 13883/2004 e Cass. n. 2720/2012),
qualora risultino allegate circostanze di fatto che mettano in discussione la
riferibilità soggettiva della condotta all’agente.

5. A detti principi di diritto si è correttamente
attenuta la Corte territoriale la quale, all’esito della disposta consulenza
tecnica d’ufficio, ha escluso che il S. versasse in una condizione di
privazione delle facoltà intellettive e volitive e che queste ultime fossero
«così diminuite da far venire meno la sua capacità di autodeterminazione e la
consapevolezza in ordine all’atto che stava per compiere» ed ha accertato che,
al contrario, il ricorrente possedeva l’idoneità sia a comprendere il disvalore
sociale dell’azione, sia a determinarsi consapevolmente nella scelta fra il
compiere l’atto o l’astenersi dall’azione.

Il giudice d’appello ha precisato che gli acquisti
effettuati, spendendo il nome dell’Università ed utilizzando illecitamente
risorse dell’ente pubblico, erano avvenuti «secondo una progettualità meditata
e ben congegnata», e per questo, oltre ad escludere che l’appellante fosse
affetto da «shopping compulsivo», ha ritenuto provate l’indiscutibile
intenzionalità della condotta e la gravità dell’addebito, tale da ledere
irrimediabilmente il vincolo fiduciario, perché idonea a neutralizzare del
tutto altri elementi di fatto quali l’assenza di precedenti disciplinari e
l’avvenuto risarcimento del danno.

6. Si tratta, quindi, di un giudizio compiutamente
espresso dal giudice del merito, nel pieno rispetto dei principi affermati da
questa Corte quanto alla specificazione della giusta causa di licenziamento, in
relazione alla quale si è ripetutamente evidenziato che la stessa ricorre
allorquando, la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e
valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata
soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo
irreparabile la fiducia che il datore di lavoro necessariamente deve riporre
nella correttezza dell’adempimento delle obbligazioni che dal rapporto
scaturiscono ( cfr. fra le tante Cass. n.
12798/2018; Cass. n. 8816/2017; Cass. n. 18715/2016).

7. Il ricorso, con il primo ed il terzo motivo,
sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di norme di legge ( artt. 2104 e 2106
cod. civ .; artt. 115 e 116 cod. proc. civ) e di disposizioni contrattuali
( art. 46 CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto università), in realtà
censura il giudizio di merito espresso dalla Corte territoriale in relazione
all’imputabilità della condotta, alla gravità della stessa ed alla
proporzionalità della sanzione, e sollecita una revisione di quel giudizio non
consentita in sede di legittimità. E’ ius receptum il principio secondo cui il
vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea
ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa
astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della
stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie
concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione
della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui
censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di
motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel
tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto
che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n.
26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo
avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere
specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del
parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile
in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della
concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che
integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta
attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso
piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ( cfr. fra le tante
Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass.
n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie
perché, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di
diritto enunciati da questa Corte in tema di giusta causa e di proporzionalità
della sanzione e gli argomenti sviluppati nel ricorso finiscono tutti per
prospettare una diversa lettura della documentazione medica prodotta e delle
risultanze di causa.

Queste censure non possono trovare ingresso nel
giudizio di legittimità prospettando la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod.
proc. civ., perché la violazione delle norme processuali invocate può
essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a
base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio
al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove
legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza
apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr.
fra le più recenti Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n.
27000/2016).

8. Infine è inammissibile il secondo motivo di
ricorso giacché il vizio tipizzato dall’art. 360,
comma 1, n. 5, cod. proc. civ., nel testo riformulato dal d.l. n. 83/2012, riguarda l’omesso esame di un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un
preciso accadimento o una determinata circostanza in senso
storico-naturalistico, e quindi non può essere ricondotta a detto vizio
l’omessa valutazione di deduzioni difensive o di argomentazioni sviluppate dal
consulente tecnico di parte ( Cass. n. 26305/2018; Cass. n. 22397/2019).

9. In via conclusiva il ricorso deve essere
rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Al riguardo va precisato che ai fini del regolamento
delle spese deve essere valutata l’attività difensiva svolta dall’Università,
perché infondata è l’eccezione di inammissibilità del controricorso, sollevata
dalla difesa del S. nella memoria ex art. 378 cod.
proc. civ..

Questa Corte ha già affermato, ed il principio deve
essere qui ribadito, che la sostituzione della persona fisica titolare
dell’organo munito del potere di rappresentare in giudizio l’ente non è causa
di estinzione dell’efficacia della procura alle liti, la quale continua ad
operare a meno che non sia revocata dal nuovo rappresentante legale (Cass. n. 2183/2019; Cass.
n. 8821/2017; Cass. n. 1373/2016).

Nella fattispecie, pertanto, le dimissioni del
Rettore dell’Università di Catania, seppure rassegnate prima della notifica del
controricorso, non hanno privato di effetti il rilascio della procura, avvenuto
in epoca in cui la persona fisica rivestiva la qualità di organo dell’ente.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n.
4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge
per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per
esborsi ed € 6.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese
generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1- bis, se dovuto

 

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 maggio 2021, n. 12641
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