Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 maggio 2021, n. 13186

Conversione di un contratto di lavoro a termine in uno a tempo
indeterminato, Restituzione di somme corrisposte in esecuzione di una
pronunzia poi riformata, Recupero di somme indebitamente erogate ai propri
dipendenti, al lordo o al netto delle ritenute fiscali previdenziali ed
assistenziali, Rimborso da richiedibile all’Amministrazione finanziaria sia
dal sostituto di imposta” che dal sostituito

 

Rilevato

 

che la Corte di Appello di Firenze, con ordinanza
pronunziata ai sensi dell’art. 348-bis del
codice di rito il 17.10.2017, riportandosi al consolidato orientamento
giurisprudenziale di legittimità e di merito nella materia, ha dichiarato la
inammissibilità del gravame interposto da P.I. S.p.A., nei confronti di G.A.,
avverso la sentenza del Tribunale di Lucca n. 145/2016, resa il 15.3.2016, con
la quale è stato revocato il decreto ingiuntivo emesso in favore di P.I.
S.p.A., nei confronti della medesima A., per la somma lorda di Euro 54.247,30,
a titolo di restituzione di somme corrisposte in esecuzione di una pronunzia
poi riformata dalla Corte di merito – con cui era stata disposta, in favore
della lavoratrice, la conversione di un contratto di lavoro a termine in uno a
tempo indeterminato ed in parziale accoglimento della domanda della società, ha
condannato la A. alla restituzione della somma di Euro 37.500,00, oltre
accessori, corrispondente a quella ai netto delle ritenute fiscali,
previdenziali ed assistenziali, effettivamente riscossa dalla medesima;

che per la cassazione dell’ordinanza emessa ai sensi
dell’art. 348- bis c.p.c. e della sentenza del
Tribunale di Lucca n. 145/2016 (v. pag. 33 del ricorso) P.I. S.p.A. ha proposto
ricorso articolando tre motivi;

che G.A. ha resistito con controricorso;

che sono state comunicate memorie nell’interesse
della società;

che il P.G. non ha formulato richieste

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 602 del
1973; degli artt. 12 e 14 delle Preleggi; degli artt. 2033 e 2041 c.c.;
degli artt. 23 e 64 del d.P.R. n. 600 del 1973; degli
artt. 111 Cost. e 113
c.p.c., ed in particolare, si lamenta che la Corte di merito si sia
limitata a riportare, a fondamento della decisione impugnata, uno stralcio della
sentenza n. 1464/2012 della Suprema Corte, senza un compiuto esame in ordine
alla tassatività delle ipotesi di rimborso delle imposte non dovute ed alla
legittimazione a richiederne la restituzione, come ha, invece, fatto la Corte
di Cassazione che – nello stabilire se il datore di lavoro, quando procede al
recupero di somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, debba effettuarlo
al lordo o al netto delle ritenute fiscali previdenziali ed assistenziali – ha
svolto un’analisi più complessa ed articolata; si deduce, inoltre, che la Corte
di Appello avrebbe del tutto omesso di verificare, una volta accertato che il
datore di lavoro P.I. S.p.A. possa ripetere l’indebito, quale sia la norma che
dia titolo al recupero e se la società Poste, quale sostituto di imposta, possa
ricorrere alla procedura di cui all’art. 38 del d.P.R. 602 del 1973
per ottenere la restituzione delle ritenute a suo tempo operate, anche in
considerazione del fatto che, poiché l’art. 64, primo comma, del d.P.R.
n. 602, citato, definisce il sostituto di imposta come colui che,
<<in forza di disposizione di legge è obbligato al pagamento d’imposte in
luogo di altri…. ed anche a titolo d’acconto>>, lo stesso presuppone
che anche il lavoratore- sostituito debba ritenersi dall’origine, e non solo in
relazione alla fase di riscossione, obbligato solidale di imposta e, quindi,
anch’esso soggetto al potere di accertamento ed a tutti i relativi oneri: con
la conseguenza che, a parere della società ricorrente, <<il datore di
lavoro può pretendere dal lavoratore la restituzione delle somme indebitamente
erogate ai lordo delle ritenute di legge ove, come nel caso di specie, non abbia
già effettuato la richiesta di restituzione dell’imposta non dovuta
all’Amministrazione finanziaria;>; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 602 del
1973; dell’art. 10, comma 1,
lett. D-bis), del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR); dell’art. 23 del d.P.R. n. 600 del 1973;
degli artt. 53 e 111
Cost.; dell’art. 21 del
D.lgs. n. 546 del 1992; degli artt. 112, 113 e 115 c.p.c.;
ed inoltre, la nullità della sentenza per omessa pronunzia sul motivo di
gravame relativo all’art. 10, comma
1, lett. D-bis), del d.P.R. n. 917, cit., e si lamenta, in sostanza, che la
Corte di merito non abbia considerato il fatto che l’art. 10, comma 1, lett. D-bis), del
d.P.R. n. 917, cit., consente al dipendente, nel periodo in cui la somma è
restituita, di poter operare una corrispondente deduzione dal proprio
imponibile pari all’importo lordo di ritenute corrisposto al datore di lavoro;
ed altresì che i giudici di merito avrebbero affermato erroneamente che, anche
a voler ammettere l’assoluta inutilizzabilità dello strumento di cui all’art. 38 del d.P.R. n. 602 del
1973, stante la mancanza di altri rimedi specifici ed in considerazione del
fatto che il diritto alla restituzione è sorto solo in data posteriore a quella
del pagamento dell’imposta, la società avrebbe comunque a disposizione
l’istituto residuale di cui all’art.
21, comma 2, del D.lgs. n. 546 del 1992, che prevede la possibilità di
presentare istanza di rimborso entro due anni dal giorno in cui si è verificato
il presupposto per la restituzione; a parere della società ricorrente, invece,
quest’ultima norma non sarebbe applicabile, poiché, <<in tema di imposte
dirette, e quindi anche di ritenute IRPEF, esistono disposizioni specifiche e,
cioè quella di cui all’art. 38
del d.P.R. n. 602 del 1973, nonché quella dell’art. 10, comma 1 lett. D-bis), del
d.P.R. n. 917 del 1986, che consentono il recupero dell’imposta al
dipendente>>, mentre <<l’art. 21 D.lgs. n. 546 del 1992
non trova, comunque, applicazione relativamente al datore di lavoro, sostituto
d’imposta, che, a seguito di riforma in appello della sentenza di primo grado
con la quale era stato condannato a pagarle, debba chiedere in restituzione le
somme corrisposte>>; 3) in riferimento all’art.
360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., la violazione e falsa applicazione
degli artt. 99, 112,
113, 115, 116, 132, secondo
comma, n. 4; 339, 348-bis
e 348-ter c.p.c. <<con riferimento
all’ordinanza impugnata>>; dell’art. 111
Cost.; < <nullità della sentenza per omessa pronuncia e per difetto
di una qualsivoglia motivazione sulla debenza della ulteriore somma di Euro
1.202,00 corrisposta alla A. di cui al cedolino del mese di aprile 2007>>
ed altresì <<per omessa pronuncia e per difetto di qualsivoglia
motivazione in ordine ai relativi motivi di gravame avverso la pronuncia del
Tribunale di Lucca n. 145/2016>>, poiché <<con l’ordinanza del 17.10.2017
la Corte di Appello, pronunciando ex art. 348-bis
c.p.c. e rifacendosi ai propri precedenti in proposito, ha limitato la
propria decisione solo alla questione se le somme che la A. ha ricevuto in
esecuzione di una sentenza che le aveva riconosciuto il diritto al risarcimento
del danno quale conseguenza della nullità del termine apposto al contratto di
lavoro debbano essere istituite al netto o al lordo delle ritenute fiscali;
mentre, ove il Tribunale e la Corte di Appello avessero tenuto in
considerazione le richieste della società, avrebbero dovuto riconoscere il
diritto della stessa alle somme suddette, in quanto la A., sia nel giudizio di
primo grado che nel giudizio di appello, non ha mai contestato la
documentazione versata in atti>> ;

che il terzo motivo, da trattare per primo per
ragioni di logica priorità, non può essere accolto; ed invero, al riguardo, va
sottolineato che le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito (con la
sentenza n. 1914/2016) che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348-ter c.p.c. non è ricorribile per
cassazione, nemmeno ai sensi dell’art. 111, comma
7, Cost., ove si denunci l’omessa pronunzia su un motivo di gravame, attesa
la natura complessiva del giudizio “prognostico” che la caratterizza,
necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza
ed a tutti i motivi di ciascuna di queste, ponendosi, eventualmente, in tale
ipotesi, solo un problema di motivazione; <<essa è ricorribile per
cassazione, ai sensi dell’art. 111, co. 7, Cost.,
limitatamente ai vizi suoi propri, costituenti violazioni della legge
processuale (quali, ad esempio, la inosservanza delle specifiche previsioni di
cui agli artt. 348-bis, co. 2, e 348-ter, co. 1, primo periodo, e co.2, primo periodo,
c.p.c.), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad
essa sotteso. Al contrario, la decisione che pronunci l’inammissibilità
dell’appello per ragioni processuali, ancorché adottata con ordinanza
richiamante l’art. 348-ter c.p.c. ed
eventualmente nel rispetto della relativa procedura, è impugnabile con ricorso
ordinario per cassazione, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di
carattere processuale che, come tale, non contiene alcun giudizio prognostico
negativo circa la fondatezza nel merito del gravame, differendo, così, dalle
ipotesi in cui tale giudizio prognostico venga espresso, anche se,
eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti>>. Ciò premesso, è
da osservare che l’ordinanza impugnata è stata correttamente emanata dalla
Corte di merito (seppur succintamente motivata, ma con esplicito riferimento
alla consolidata giurisprudenza di legittimità nella materia, da cui consegue
che < d’appello non presenta ragionevoli probabilità di essere
accolto>>) entro il suo ambito applicativo, con la conseguente incensurabilità
dell’error in iudicando concernente il presupposto della ragionevole
probabilità di accoglimento; né si riscontrano, nella fattispecie, vizi di
carattere processuale (quali, ad esempio, una impugnazione proposta oltre il
termine normativamente previsto; l’appello privo delle indicazioni di cui all’art. 342 c.p.c.; la omessa integrazione del
contraddittorio nel termine ordinato dal giudice), e neppure <<limiti
esterni di applicazione dell’istituto>>, in quanto <<la
ridiscussione>> della situazione giuridica sostanziale della
controversia, mediante impugnazione della sentenza di primo grado, <<non
toglie al provvedimento de quo il requisito della definitività, da intendersi
come non modificabilità del provvedimento emanato >. Peraltro, se è vero che
l’impugnazione è sempre ammessa per censurare il vizio di motivazione
dell’ordinanza, nei limiti in cui attualmente l’ordinamento processuale ne
consente l’impugnazione, occorre, tuttavia, sottolineare che, alla stregua
della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte, non è possibile instaurare
un giudizio di legittimità per censurare l’omessa pronunzia del giudice su uno
o più motivi di impugnazione, poiché dalla emanazione dell’ordinanza-filtro si
presume la valutazione della manifesta infondatezza di tutti i motivi proposti
e potrà, eventualmente, essere dedotta l’omessa motivazione sul punto, che, nel
caso di specie, non è stata dedotta, poiché il <<vizio di
motivazione>>, come innanzi specificato, riguarda alcuni punti della
sentenza di primo grado asseritamente censurati nell’atto di gravame, in ordine
ai quali si assume che i giudici di appello non si siano pronunciati;

che i primi due motivi – da trattare congiuntamente
per evidenti ragioni di connessione – non sono fondati; al riguardo, è da
premettere che i giudici di merito sono pervenuti alla decisione oggetto del
presente giudizio conformandosi agli ormai consolidati arresti
giurisprudenziali di legittimità – del tutto condivisi da questo Collegio che
non ravvisa ragioni per discostarsene (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 29758/2019;
23519/2019; 15755/2019; 6942/2019; 12933/2018; 12933/2018; 1464/2012) -, alla
stregua dei quali, qualora le ritenute fiscali non siano state versate
direttamente ai lavoratori, il datore di lavoro non può pretenderne la
ripetizione da parte dei dipendenti, perché appunto da questi non percepiti.

Ed invero, il d.P.R. n. 602 del 1973, all’art.
38, nel testo modificato dal D.lgs. n. 143 del
2005, prevede che <<II soggetto che ha effettuato il versamento
diretto può presentare all’Intendente di Finanza nella cui circoscrizione ha
sede il concessionario presso cui è stato eseguito il versamento, istanza di
rimborso entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del
versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza
totale o parziale dell’obbligo di versamento. … L’istanza di cui al comma 1
può essere presentata anche dal percipiente delle somme assoggettate a ritenuta
entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta
è stata operata>>; e ciò, in quanto (cfr., tra le altre, Cass. nn.
9756/2019; 21699/2011) l’azione di restituzione e riduzione in pristino,
proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il
titolo del pagamento, si collega ad una esigenza di restaurazione della
Situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e, dunque, a prestazioni
eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo
e della provvisorietà dei suoi effetti: e, pertanto, ad un pagamento non
dovuto;

che, fatte queste premesse – ed altresì ribadito che
il rimborso di quanto indebitamente versato può essere richiesto all’Amministrazione
finanziaria sia dal soggetto che ha effettuato il versamento (c.d.
“sostituto di imposta”), sia da colui che ha percepito le somme
assoggettate a ritenuta (c.d. “sostituito”), ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. n. 602 del
1973 (cfr., tra le molte, Cass. nn. 440/2019; 31503/2018; 239/2006) -, si
osserva che, nella fattispecie, è pacifico che le ritenute fiscali non siano
state versate direttamente alla A.; per la qual cosa, la società datrice, a prescindere
da ogni altra considerazione, non avrebbe potuto ripeterle nei confronti della
stessa, perché, appunto, da quest’ultima non percepite;

che, pertanto, P.I. S.p.A. non può pretendere somme
al lordo delle ritenute fiscali, poiché le stesse non sono mai entrate nella
sfera patrimoniale della lavoratrice (cfr., ex multis, Cass. nn. 13530/2019; 19459/2018; 2135/2018; 1464/2012, cit.; negli stessi termini,
v. pure, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1164/2009,
con riguardo al rapporto di pubblico impiego), come condivisibilmente
argomentato dai giudici di merito;

che, inoltre, il principio (cui si è innanzi fatto
riferimento) affermato da questa Suprema Corte (cfr. Cass. n. 82/2014), in base al quale,
<<quando il diritto alla restituzione del versamento sia sorto solo in
data posteriore a quella del pagamento dell’imposta, trova applicazione l’art. 21, comma 2, del D.lgs. n.
546 del 1992, avente carattere residuale e di chiusura del sistema, secondo
il quale l’istanza di rimborso può essere presentata entro due anni dal giorno
in cui si è verificato il presupposto per la restituzione>>, ribadito
dalla sentenza impugnata, non è inconferente nella fattispecie, come sostenuto
dalla società ricorrente, ma è pacificamente estensibile anche al rapporto di
lavoro (del resto, la sentenza n. 1464/2012, cit., che attiene al rapporto tra
datore di lavoro e lavoratore è stata ritenuta applicabile anche ai casi di
indebito pensionistico, sia pubblico che privato);

che, infine, per ciò che più specificamente riguarda
la doglianza contenuta nel secondo mezzo di impugnazione, relativa alla nullità
della sentenza per omessa pronunzia sul motivo di gravame relativo all’art. 10, comma 1, lett. D-bis), del
d.P.R. n. 917, cit., va osservato che la parte ricorrente non ha provato i
suoi assunti, in quanto non ha prodotto (né trascritto, né indicato tra i
documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso) l’atto di gravame, in
violazione del disposto di cui all’art. 366, primo
comma, n. 6, c.p.c. (cfr, ex plurimis, (Cass. nn. 16342/2015; 14541/2014);
pertanto, questa Corte non ha potuto apprezzare la veridicità delle censure
mosse, sul punto, alla sentenza oggetto del presente giudizio dalla società
datrice; che, per le considerazioni innanzi svolte, il ricorso va respinto; che
le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo, infine, alla conclusione del
giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di
cui all’art. 13, comma 1 -quater,
del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13,
ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 maggio 2021, n. 13186
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