Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 maggio 2021, n. 14994

Lavoro, Attività di affittacamere, Iscrizione alla gestione
commercianti, Contribuzione previdenziale, Reddito effettivo

 

Rilevato che

 

con sentenza n. 547 del 2014, la Corte d’appello di
Ancona ha rigettato l’impugnazione proposta da A.S. avverso la sentenza di
primo grado di rigetto della domanda tesa ad ottenere, in via principale, il
riconoscimento nei confronti dell’INPS del diritto all’accreditamento nella
gestione commercianti dei contributi in misura pari al minimale versati per gli
anni 2009 e 2010, nonostante in tali periodi il reddito tratto dall’attività di
affittacamere fosse stato inferiore a quello minimo imponibile; nonché della
domanda subordinata di riconoscimento del diritto al medesimo versamento a
titolo di contribuzione volontaria;

ad avviso della Corte territoriale, l’art. 8 d.l. n. 97 del 1995
conv. con mod. in I. n.203 del 1995, prevedendo
che la contribuzione previdenziale dovuta da chi esercita l’attività di
affittacamere deve rapportarsi all’effettivo reddito percepito qualora lo
stesso sia inferiore al livello minimo imponibile determinato ai sensi dell’art. 1, comma 3, legge n. 233 del
1990, comporta che tali soggetti, ancorché iscritti alla gestione
commercianti, hanno titolo alla copertura contributiva dell’intero anno fiscale
soltanto quando l’importo dei contributi versati risulti almeno pari a quello
calcolato sul minimale del reddito; laddove il reddito prodotto sia inferiore
al detto minimo, la copertura assicurativa sarà ridotta per un numero di mesi
computato in proporzione alla contribuzione versata e tale volontà di legge non
può che ritenersi imperativa e non derogabile; neppure potrebbe ammettersi il
versamento di contribuzione volontaria in coincidenza con i periodi soggetti a
contribuzione obbligatoria, essendo vietato dall’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 184 del
1997;

infine, la Corte d’appello ha disatteso i dubbi di
costituzionalità per disparità di trattamento sollevati dall’appellante in
relazione alla peculiare posizione degli affittacamere rispetto agli altri
iscritti alla gestione commercianti; avverso tale sentenza ricorre per
cassazione A.S. sulla base di sei motivi: 1) violazione e o falsa applicazione
dell’art. 8 d.l. n. 97 del
1995 conv. in I. n. 203 del 1995 che deve
ritenersi norma di favore e non di pregiudizio per la categoria degli
affittacamere con la conseguente opzionalità del versamento corrispondente al
minimo previsto; 2) violazione e o falsa applicazione dell’art. 6 d.lgs. n. 184 del 1997
in quanto il divieto previsto dalla disposizione non potrebbe operare
nell’ipotesi di obbligo contributivo non soggetto al rispetto del minimo
imponibile; 3) violazione o falsa applicazione di entrambe le disposizioni
sopra denunciate in combinato disposto tra loro da interpretarsi in modo
costituzionalmente orientato o, in caso contrario, suscettibili di violare gli artt. 3 e 38 della
Costituzione, essendo irragionevole la giustificazione fornita dalla
sentenza impugnata a tale disparità di trattamento (motivo n. 4) ; 5) nullità
della sentenza per la carenza dell’elemento essenziale della esposizione delle
ragioni in fatto ed in diritto della decisione; 6) omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti,
ravvisato nella impossibilità concreta per il ricorrente di acquisire in tempi
utili un’anzianità contributiva che gli permettesse di ottenere un trattamento
pensionistico;

resiste l’INPS con controricorso:

 

considerato che

 

il quinto motivo, da trattare in via prioritaria
stante l’evidente valenza preliminare, è infondato;

questa Corte di legittimità ha ripetutamente avuto
modo di affermare ( vd. Cass. 29721 del 2019; Cass. n. 920 del 2015) che in
tema di contenuto della sentenza, la concisione della motivazione non può
prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di
fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo
di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso
argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e
alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione; nel caso di specie,
tuttavia, tale grave carenza non può ravvisarsi dal momento che la decisione
impugnata ha chiaramente riferito i tratti essenziali della fattispecie
concreta e da questi ha tratto gli 
argomenti con i quali ha motivato le interpretazioni degli articoli 8 d.l. n. 97 del 1995
e 6 d.lgs. n. 184 del 1997
ritenute preferibili, nonché le ragioni che l’hanno indotta a disattendere i
dubbi di costituzionalità sollevati dalla parte appellante;

i restanti motivi, evidentemente connessi, vanno
trattati congiuntamente e sono infondati;

come è noto, la L. n.
233/1990 ha stabilito, per gli iscritti alle gestioni autonome, il
versamento del contributo determinato in percentuale del reddito annuo
derivante dall’attività che dà titolo all’iscrizione del lavoratore nello
stesso anno di iscrizione nella gestione; il lavoratore è quindi tenuto a
versare ogni tre mesi la contribuzione sul reddito imponibile minimo rivalutato
annualmente sul quale viene applicata l’aliquota di finanziamento vigente ed il
versamento contributivo è dovuto anche se il reddito prodotto nell’anno sia
inferiore;

ratio della disciplina è quella di fornire garanzia
di continuità alla copertura assicurativa del lavoratore autonomo senza che
essa resti soggetta alle concrete contingenze dell’attività svolta dopo
l’abbandono della contribuzione fissa;

la determinazione dell’importo dei contributi dovuti
viene effettuata con riferimento all’ammontare del reddito percepito, in caso
di lavoro autonomo o associato, in quanto ritenuto dalla legge espressione
della base imponibile ai fini previdenziali;

alle scadenze previste per il pagamento delle
imposte sui redditi dovrà essere versata l’eventuale differenza tra il reddito
minimo imponibile ed il reddito effettivo prodotto dall’attività esercitata e
risultante dalla dichiarazione dei redditi mentre, se il reddito prodotto è
inferiore al minimale imponibile, evidentemente, nulla sarà dovuto in sede di
saldo;

su tale disciplina del minimale contributivo
relativa alla generale categoria dei commercianti, si inserisce il disposto
dell’art. 8 d.l. n. 97 del
1995 conv. Con modif. in legge n. 203 del 1995
il quale dispone, per chi svolge l’attività di affittacamere ai sensi del nono
comma dell’articolo 6 della
legge 17 maggio 1983, n. 217, la soggezione a contribuzione previdenziale
in rapporto al reddito effettivamente percepito se inferiore al livello minimo
imponibile, determinato ai sensi dell’articolo 1,
comma 3, della legge 2 agosto 1990, n. 233;

si tratta, dunque, di un regime che in sé
considerato non crea alcuna situazione pregiudizievole per la categoria
interessata in quanto semplicemente esclude l’operatività del meccanismo del
minimo contributivo sopra descritto e ciò sulla base dell’implicito
riconoscimento di una minore capacità contributiva;

questa Corte di legittimità (Cass. n.14498 del
1999), ha già chiarito la natura inderogabile, in un’ottica rovesciata rispetto
a quella sostenuta dal ricorrente, della regola del minimo imponibile
contributivo fissata dall’art. 1
I. n. 233 del 1990, per il suo inequivoco tenore letterale, per cui non è
consentito all’interessato di provare un reddito effettivo inferiore a quello
corrispondente alla presunzione di legge;

si è, altresì, chiarito che la natura inderogabile
del sistema del minimo imponibile non fonda alcun dubbio di legittimità
costituzionale della norma in esame, in riferimento all’art. 3 Cost., assumendo a confronto sia la
posizione  dei lavoratori autonomi con
reddito pari o superiore a quello presunto (perché ai fini pensionistici deve
essere mantenuta una certa correlazione tra contribuzione e prestazioni
previdenziali ed in quanto il minimale contributivo persegue lo scopo di
garantire un corrispondente livello di pensione), che confrontandola con la
posizione dei lavoratori dipendenti (per i quali sussistono minimali
contributivi specifici cfr. art.
1 D.L. n. 338 del 1989, convertito in legge n.
389 del 1989, e di portata generale: cfr. art. 1 D.L. n. 402 del 1981,
convertito in legge n. 537 del 1981);

tali principi, certamente da confermare in questa
sede, seppure guardati specularmente con riferimento alla fattispecie in esame,
inducono a considerare che l’inderogabilità della disciplina peculiare
riservata a chi espleta attività di affittacamere non consente agli interessati
di modulare il criterio scelto dal legislatore secondo la propria convenienza;

rientra infatti nella esclusiva discrezionalità del
legislatore previdenziale disciplinare differenziandoli i diversi regimi delle
diverse categorie di lavoratori anche all’interno della medesima gestione;

né può dirsi che l’esclusione dall’applicazione
della regola del minimale contributivo impedisca a priori la realizzazione di
una valida e positiva posizione contributiva, essendo la stessa correlata in
fin dei conti al reddito prodotto dall’interessato in coerenza con il principio
secondo cui, in via tendenziale e salvi i temperamenti derivanti dal
concorrente principio di solidarietà all’interno delle singole categorie, deve
essere mantenuta (Cass. 14498 del 1999 sopra citata) < una certa
correlazione tra contribuzione e prestazioni previdenziali>;

trattandosi poi di obbligazioni pubbliche relative
alla cd. parafiscalità esse sono sottratte alla disponibilità dei privati e
rette, invece, dal principio di inderogabilità; il rapporto contributivo è di
carattere pubblico ed obbligatorio, giustificato da finalità di ordine
costituzionale (art. 38, commi 1 e 2), con
consequenziale indisponibilità dei relativi crediti;

a ben vedere, ciò che lamenta il ricorrente non è
una irragionevole e distopica concezione del rapporto contributivo, che
dovrebbe essere insita nella disposizione contenuta nell’art. 8 cit.; molto più
realisticamente, egli si duole del fatto che non gli sia consentito di
concretizzare, a proprio vantaggio, un certo parametro espressivo del rapporto
tra contributo dovuto e reddito prodotto diverso da quello previsto dalla legge;

su analoghe considerazioni si fonda il giudizio di
infondatezza dell’ulteriore profilo sollevato relativamente al mancato
accoglimento della richiesta di autorizzazione a versare i contributi
volontari, trattandosi anche in questo caso di disciplina che in modo
inderogabile (art. 6 d.lgs. n.
184 del 1997) vieta l’utilizzo di tale strumento per coprire periodi
lavorativi già oggetto di copertura contributiva;

questa Corte di cassazione ( vd. da ultimo Cass. n. 11241 del 2019 ) ha avuto modo di
chiarire che il d.lgs. 30 aprile 1997, n. 184,
adottato in attuazione della delega conferita dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1,
comma 39, in materia di ricongiunzione” di riscatto e di prosecuzione
volontaria ai fini pensionistici, dedica il capo III alle “Disposizioni in
materia di prosecuzione volontaria” ma non disciplina compiutamente la
materia per cui tenuto conto che la norma di chiusura del predetto decreto (d.lgs. n. 184 cit., art. 10)
abroga solo le disposizioni legislative o regolamentari in contrasto o
incompatibili con quelle recate dal decreto, i presupposti di ammissione e
modalità di versamento dei contributi trovano la fonte normativa nel decreto
legislativo (artt. 6 e 8)
mentre la facoltà di prosecuzione volontaria rimane disciplinata dal D.P.R. n. 1432 del 1971;

in tale occasione si è affermato che la
contribuzione volontaria costituisce un’eccezione al principio generale della
corrispondenza della contribuzione all’effettiva attività lavorativa (v., fra
le tante, Cass. 21 agosto 2007, n. 17772), posto che la legge attribuisce al
lavoratore la facoltà di incrementare la posizione assicurativa con periodi
contributivi ulteriori, rispetto a quelli cui si riferisce l’obbligazione
contributiva, consentendo la prosecuzione volontaria dell’assicurazione
obbligatoria, con onere economico esclusivamente a carico dell’assistito, una
volta cessata l’attività soggetta all’obbligo assicurativo;

la contribuzione volontaria inerisce non
all’assistenza sociale bensì alla previdenza (art.
38 Cost., comma 2), nell’ambito della quale il sistema delle assicurazioni
sociali richiede il versamento di contributi quale presupposto del diritto alle
prestazioni, non potendo essere rimesso all’interessato di decidere quando, e
di conseguenza anche quanto versare e ciò in sintonia con i principi
costituzionali delle assicurazioni sociali, nell’ambito della previdenza
sociale, e della funzione del versamento dei contributi quale presupposto del
diritto alle prestazioni (v., in tal senso, Cass. 21 ottobre 1992, n. 11490);

in definitiva, il ricorso va rigettato e le spese
seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità liquidate in complessivi Euro 5000,00
per compensi professionali, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie
nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art.
13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso
art. 13, comma 1 bis, ove
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 maggio 2021, n. 14994
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