Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 maggio 2021, n. 15005

Consulente del lavoro, Recesso anticipato del cliente,
Rimborso delle spese sostenute, Versamento del compenso per l’opera già
prestata

 

Ragioni in fatto ed in diritto
della decisione

 

1. Con citazione del 19 novembre 2004 M.G. conveniva
in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la P. A S.p.A. (poi incorporata nella
C.C.A. S.r.l.), affinché fosse condannata, previo accertamento del suo
inadempimento contrattuale, al pagamento della somma di € 65.244,00 ovvero di
quella diversa ritenuta di giustizia, pari all’80% degli onorari dovuti per i
mesi mancanti al compimento del biennio di durata del contratto, oltre
interessi legali.

Deduceva di essere un consulente del lavoro e che la
convenuta gli aveva conferito un incarico di consulenza per l’amministrazione
del personale e relativa assistenza e consulenza in materia di lavoro; tuttavia
in data 22/11/2001 la società aveva comunicato la volontà di recedere dal
rapporto, in conseguenza di un cambiamento dell’assetto societario.

Occorreva, però, considerare che il contratto era
sottoposto alla disciplina di cui all’art. 17 del DM n. 430/1992, per
cui, stante l’illegittimità del recesso unilaterale, aveva diritto al pagamento
di un compenso pari all’80% degli onorari, come appunto previsto dalla detta
norma regolamentare.

Nella resistenza della convenuta, che deduceva di
avere esercitato il proprio diritto di recesso, essendo quindi tenuta a
rimborsare solo le spese sostenute ed a versare il compenso per l’opera già
prestata, stante l’inapplicabilità del richiamato art. 17, il Tribunale, con la
sentenza n. 13050/2008, rigettava la domanda.

A seguito di appello del M., la Corte d’Appello di
Roma, con la sentenza n. 407 del 21 gennaio 2016, in parziale accoglimento
della domanda attorea, condannava la convenuta al pagamento della somma di €
30.000,00 oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

In primo luogo, i giudici di appello reputavano
corretta la soluzione del Tribunale quanto alla pretesa dell’appellante di
vedere applicata la previsione di cui all’art. 17 del DM n. 430/1992.

Infatti, tale norma nel contratto tra le parti era
stata richiamata solo per le modalità del recesso, ma non anche per quanto
concerneva le conseguenze dello stesso.

In tal senso andava precisato che, se le parti si
limitano solo a disciplinare le modalità del recesso, tale pattuizione, in
assenza di più specifiche indicazioni, non può ritenersi idonea a rendere
illegittimo anche il recesso ad nutum.

Inoltre, la peculiare disciplina in tema di
consulenti del lavoro, perché possa configurarsi un rapporto in regime di
abbonamento annuale (che ai sensi dell’art. 17 del DM citato, prevede
un meccanismo di determinazione forfetaria dell’indennizzo in caso di recesso
anticipato) presuppone che le parti abbiano previsto un sistema di retribuzione
forfetario, onnicomprensivo e prefissato ex ante, poiché solo tali condizioni
permettono poi di poter individuare una volontà delle parti di sottoporre il
rapporto alla disciplina di cui all’art. 17.

Nella specie era carente la pattuizione di un
compenso avente tali caratteristiche (posto che la predeterminazione del
compenso riguardava la sola attività di elaborazione delle buste paga e dei
cedolini dei dipendenti, ma non anche le prestazioni di assistenza e consulenza
in materia di lavoro, come espressamente richiamate nell’incarico conferito).

Infatti, per tali diverse attività il compenso era
stato calcolato sulla base di tariffe non concordate ed alla luce del numero di
ore impiegate per lo svolgimento dell’attività.

Ciò implicava che il contratto si ispirava sia alla
disciplina di cui citato DM sia a quella generale di cui all’art. 2237 c.c., sicché la Corte riteneva di poter
applicare la disciplina ritenuta più confacente.

E’ pur vero che la norma di cui all’art. 2237 c.c., circa la recedibilità ad nutum del
committente, può essere oggetto di deroga convenzionale, anche con
l’apposizione di un termine di durata del rapporto, ma nella specie le parti
non avevano però inteso escludere la facoltà di recesso, essendone state
previste le modalità di esercizio, né avevano contemplato un compenso unico.

Pertanto, una volta esercitato il recesso da parte
del cliente, non poteva farsi riferimento al criterio indennitario di cui all’art. 17, ma il compenso andava
correlato alla peculiarità della prestazione ed al tempo necessario al
professionista per reperire analogo incarico rispetto a quello garantitogli con
la apposizione del termine di durata, potendosi quindi pervenire ad una
liquidazione del complessivo importo di € 30.000,00 (per nove mesi di tempo,
ritenuti necessari per reperire un nuovo incarico similare).

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso
la C.C.A. S.r.l., quale incorporante la P. A. S.p.A., sulla base di sette motivi.

M.G. ha resistito con controricorso, illustrato da
memorie.

2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso,
trattati unitariamente dalla stessa ricorrente, denunciano la violazione degli artt. 2909 c.c. e 329
co. 2 c.p.c., nonché la nullità della sentenza per violazione del giudicato
interno ed omessa motivazione, in relazione alla ritenuta assenza di
preclusione per giudicato interno.

Si deduce che in citazione l’attore aveva chiesto il
risarcimento del danno stante l’illegittimità del recesso da parte della
committente, e che solo in corso di causa, e ben oltre i termini di cui all’art. 183 co. 5 c.p.c., aveva mutato la domanda in
una richiesta di indennizzo, adducendo che in realtà non aveva mai avanzato
richieste risarcitorie.

La convenuta aveva a suo tempo eccepito
l’inammissibilità della domanda nuova.

Deve reputarsi che il Tribunale di Roma abbia
implicitamente riconosciuto l’inammissibilità della domanda nuova, a pag. 3
della sentenza di prime cure, e che pertanto era giunto alla conclusione
secondo cui, avendo rinunciato alla domanda risarcitoria, quella indennitaria
era preclusa e che non poteva accordarsi alcun ristoro ex art. 2237 c.c., per l’assenza di prova.

Tali statuizioni non sono state oggetto di specifica
impugnativa da parte del M. in appello, e si è quindi determinato un giudicato
interno che precludeva alla Corte d’Appello di poter statuire su di una domanda
ritenuta già inammissibile in primo grado.

La tesi della ricorrente non appare condivisibile in
quanto pretende di offrire un’interpretazione del reale contenuto della domanda
inizialmente proposta in citazione avuto riguardo al solo riferimento nelle conclusioni
all’inadempimento della controparte, per ciò solo dedurre che quella ab origine
proposta fosse una domanda di carattere risarcitorio.

Tuttavia, una lettura delle argomentazioni poste a
fondamento dell’atto di citazione, come ricavabili sia dalla lettura della
stessa sentenza gravata (nella parte in cui riporta lo svolgimento dei fatti di
causa), sia dalla lettura del controricorso, consente invece di affermare che
la pretesa.

Di cui si lamentava il mancato adempimento era
correlata dal M. all’obbligazione indennitaria scaturente dall’applicazione
dell’art. 17 del DM. n. 430/1992,
sul presupposto della sua invocabilità nel caso in esame, norma che, pur
consentendo il recesso del committente, prevede tuttavia un obbligo di
indennizzo in favore del professionista, secondo una predeterminazione
quantitativa in misura pari all’80% del compenso previsto per il contratto in
abbonamento annuale.

La asserita tardiva precisazione della domanda, come
riportato dalla stessa ricorrente, in realtà mira solo a ribadire che la
domanda avanzata non aveva carattere risarcitorio, ma era invece volta a
conseguire l’indennizzo previsto dalla norma regolamentare, anche a fronte del
legittimo esercizio del diritto di recesso della committente, aggiungendo
altresì di voler invitare il Tribunale a valutare la possibilità di riconoscere
un ristoro a mente dell’art. 2237 c.c.

Il giudice di primo grado, oltre a negare la
ricorrenza dei presupposti applicativi della norma di cui al citato art. 17, ha semplicemente
riportato la deduzione della convenuta di inammissibilità di una pretesa
domanda nuova dell’attore, ma ha comunque deciso nel merito anche la domanda ex
art. 2237 c.c., ritenendola sfornita di prova.

Con l’atto di appello, il M., come si ricava sempre
dalla lettura della sentenza impugnata (pag. 3) ha addotto la violazione sia
dell’art. 17 del DM n. 430/1992
sia dell’art. 2237 c.c.

Inoltre, la stessa sentenza in motivazione, a pag.
4, dopo aver ricostruito i termini del contratto intervenuto tra le parti, ha
rilevato che le parti avevano inteso ispirarsi non solo alla disciplina di cui
all’art. 17 ma anche a quella
generale di cui all’art. 2237 c.c.
“invocata, peraltro, dalla controparte”, specificando quindi che
“il giudicante, rappresentato dalle parti il fatto, può applicare alla
fattispecie la normativa ritenuta più confacente”, opinando quindi nel
senso che i fatti posti a fondamento della domanda originaria comprendessero
anche la richiesta di indennizzo ex art. 2237 c.c.

Reputa il Collegio che, in assenza di un’espressa
declaratoria di inammissibilità della pretesa domanda nuova dell’attore, ed
avendo anzi il Tribunale espressamente deciso sul merito della richiesta di
indennizzo ex art. 2237 c.c., considerato in
ogni caso il tenore dei motivi di appello, deve ritenersi che non si sia
formato alcun giudicato preclusivo della disamina della domanda attorea, come
invece invocato dalla ricorrente, giudicato la cui violazione è posta appunto a
fondamento dei motivi di ricorso in esame.

3. Il terzo ed il quarto motivo, parimenti trattati
in maniera unitaria dalla ricorrente, denunciano la falsa applicazione dell’art. 2237 co. 1 c.c. nonché la nullità della
sentenza per carenza e comunque illogicità e contraddittorietà della
motivazione, quanto alla condanna alla corresponsione di un compenso per
l’esercizio della facoltà di recesso ad nutum, in violazione degli artt. 113 e 132 c.p.c.e 111
co. 6 Cost.

Si deduce che la sentenza di appello, pur
confermando il giudizio del Tribunale, quanto alla impossibilità di invocare la
norma di cui all’art. 17 del Dm
n. 430/1992, ha però fatto sostanziale applicazione dell’art. 2237 c.c., ritenendo che le parti, pur
apponendo un termine al contratto, non avessero inteso derogare alla norma che
consente il recesso ad nutum della committente, ma ha in maniera
incomprensibile accordato un ristoro al M., rapportato al tempo necessario per
reperire un analogo incarico (nove mesi), ristoro che però è del tutto
svincolato dalla previsione di cui all’art. 2237
c.c.

I motivi sono fondati.

Occorre premettere che il D.M. n. 430 del 1992, art. 17, –
contenente il regolamento recante approvazione delle deliberazioni in data 16
maggio 1991 e 10 giugno 1992 del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro
concernenti la tariffa professionale della categoria – dispone testualmente:
“Regime di abbonamento.

1. Il consulente del lavoro può assumere in regime
di abbonamento annuale gli adempimenti connessi all’incarico professionale.

2. L’eventuale disdetta, da parte del cliente, deve
essere comunicata per iscritto almeno sei mesi prima della scadenza; in difetto
l’abbonamento si intende tacitamente rinnovato per un altro anno.

3. In caso di anticipato scioglimento del contratto,
al consulente del lavoro spetta un compenso pari all’80 per cento dei soli
onorari per i mesi mancanti al compimento dell’anno stabilito in abbonamento,
sulla base dell’ultimo periodo di assistenza professionale, fatto salvo il caso
di cessazione di attività aziendale.”

La giurisprudenza di questa Corte ha però precisato
che (Cass. n. 11848/2003) in tema di compensi
per le prestazioni professionali dei consulenti del lavoro, affinché sia
configurabile un rapporto in regime di abbonamento annuale – con conseguente
applicabilità della disciplina dettata (fra l’altro, in tema di anticipato
scioglimento del contratto) dall’art.
17 del D.M. 15 luglio 1992, n. 430 -, la cui caratteristica peculiare è da
individuare nella previsione di un sistema di retribuzione forfettario,
onnicomprensivo e prefissato “ex ante”, è necessario accertare che
detto regime abbia formato oggetto di una specifica pattuizione tra cliente e
professionista, che in tal modo abbiano accettato pattiziamente di sottoporre
il rapporto alle disposizioni del citato D.M. n.
430 del 1992, in deroga all’art. 2237 del cod.
civ. (in senso conforme in motivazione Cass. n. 19037/2008).

La sentenza impugnata, conformemente a quanto
ritenuto già dal Tribunale, ha però escluso che fosse possibile invocare l’applicazione
del menzionato art. 17,
difettando (oltre al requisito della durata annuale del contratto in
abbonamento) la predeterminazione forfettaria del compenso per tutte le varie
attività demandate al professionista dalla committente. Inoltre, ha aggiunto
che la sola fissazione di un termine al rapporto contrattuale non deponeva per
la volontà di derogare alla previsione di cui all’art.
2237 c.c., avendo previsto la facoltà di recesso, sebbene con determinate
modalità, opinando quindi nel senso che dovesse comunque trovare applicazione
la norma generale di cui all’art. 2237 c.c.

Tale ricostruzione della volontà contrattuale non
risulta contrastata da parte controricorrente, che conviene con i giudici di
appello circa l’impossibilità di dare applicazione alla norma regolamentare,
sostenendo tuttavia che anche la previsione di cui all’art. 2237 c.c. permetterebbe di accordare un
indennizzo che non sia limitato al solo rimborso delle spese ed al compenso per
l’opera già prestata, ma assicuri anche il conseguimento dei risultati
economici legittimamente attesi dalla piena realizzazione del programma
negoziale.

La soluzione dei giudici di appello è però pervenuta
ad un’erronea applicazione della norma di cui all’art.
2237 c.c.

In relazione alla questione relativa quindi alla
possibilità di recesso della committente, la sentenza gravata ha deciso in
conformità con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 469/2016, la cui massima recita che
in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di
durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso “ad
nutum” previsto, a favore del cliente, dal primo comma dell’art. 2237 c.c., dovendosi accertare in concreto,
in base al contenuto del regolamento negoziale, se le parti abbiano inteso o
meno vincolarsi in modo da escludere la possibilità di scioglimento del
contratto prima della scadenza pattuita.

In motivazione si è chiarito altresì che certamente
è legittima l’apposizione di un termine di durata del contratto, non essendo
vietata da alcuna specifica norma, così come è derogabile pattiziamente la
facoltà di recesso ad nutum del cliente.

Tuttavia, occorre verificare se, in presenza di una
durata convenzionale, il rapporto sia suscettibile di anticipato scioglimento
per effetto del recesso ad nutum da parte del cliente ovvero se la previsione
di un termine di durata integri rinuncia alla facoltà di recesso da parte del
cliente.

Sebbene la previsione della possibilità di recesso
ad nutum del cliente contemplata dall’art. 2237
c.c. non abbia carattere inderogabile, e quindi sia possibile che, per
particolari esigenze delle parti, sia esclusa tale facoltà fino al termine del
rapporto, tuttavia la predeterminazione di un termine di durata del contratto
in tanto può integrare rinuncia da parte del cliente al recesso in quanto dal
complessivo regolamento negoziale possa inequivocabilmente ricavarsi la volontà
delle parti di vincolarsi per la durata del contratto, vietandosi
reciprocamente il recesso prima della scadenza del termine finale (in tal senso
provvedendosi a mitigare l’apparente assolutezza del principio affermato da Cass. n. 22786/2013 e da Cass. n. 27293/2006,
secondo cui doveva ritenersi sufficiente ad escludere la facoltà di recesso di
cui al primo comma dell’art. 2237 c.c., la mera
apposizione di un termine al rapporto di collaborazione professionale, senza
necessità di un patto espresso e specifico).

A tale orientamento ha mostrato poi di adeguarsi
anche la successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 1215/2017; Cass. n.
17679/2017; Cass. n. 21904/2018; Cass. n.
25668/2018; Cass. n. 24350/2019).

A tal fine è stato ribadito che la durata predeterminata
del contratto può implicare rinuncia solo a condizione che dal complesso del
regolamento contrattuale si ricavi in maniera inequivoca la volontà delle parti
di vincolarsi per la durata del contratto, vietandosi quindi reciprocamente la
facoltà di recesso e tale verifica compete al giudice di merito che deve
stabilire se, nella specifica fattispecie al suo esame, la previsione di un
termine di durata valga o meno quale implicita esclusione del diritto di
recesso del committente.

La sentenza impugnata ha escluso che le parti
avessero rinunciato alla facoltà di recesso, in presenza di un contratto avente
una durata predeterminata, ed ha quindi ritenuto di ricondurre la fattispecie
alla previsione di cui all’art. 2237 c.c.,
accordando però un indennizzo che, tenuto conto della “peculiarità della
prestazione” e del “tempo necessario al professionista per reperire
incarico analogo a quello che gli era stato garantito dall’apposizione del
termine di durata”, è commisurato, avuto riguardo ad un periodo di nove
mesi, a quei compensi che sarebbero stati verosimilmente corrisposti al
consulente ove avesse potuto proseguire il proprio rapporto professionale,
appunto per tale periodo temporale.

Questa Corte anche di recente ha ribadito che (Cass.
n. 185/2020) il contratto di prestazione d’opera intellettuale, ai sensi dell’art. 2230 c.c., è disciplinato dalle norme
contenute nel capo secondo del titolo terzo del libro quinto del codice civile,
nonché, se compatibili, da quelle contenute nel capo precedente riguardanti il
contratto d’opera in generale, sicché, posto che la disciplina del recesso
unilaterale dal contratto prevista dall’art. 2237
c.c. dispone che, in caso di recesso del cliente, al prestatore d’opera
spetta il rimborso delle spese sostenute ed il corrispettivo per l’opera
eseguita, mentre quella dettata dall’art. 2227 c.c.
per il contratto d’opera in generale comprende anche il mancato guadagno, vi è
incompatibilità tra le due disposizioni con conseguente prevalenza della norma
speciale, in ragione delle peculiarità che contraddistinguono la prestazione
d’opera intellettuale (conf. Cass. n. 3062/2002).

La somma accordata all’attore non appare correlata
alle due voci (spese sostenute e compensi per opera già prestata)
specificamente prese in esame dalla norma, ma appare frutto di una disciplina
creata ex novo da giudice di appello che, pur ritenendo non applicabile la
disposizione di cui all’art. 17
citato, ha inteso accordare un indennizzo sulla falsariga di tale norma, ma con
dei correttivi privi però di un concreto riferimento nel diritto positivo.

La sentenza impugnata deve quindi essere cassata,
con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di Roma in diversa
composizione.

4. Il quinto ed il sesto motivo che, congiuntamente
illustrati, denunciano la violazione degli art. 112,
113 e 114 c.p.c.
e 1226 c.c., nonché la nullità della sentenza
per vizio di ultrapetizione, nella parte in cui è stato liquidato un indennizzo
al M. facendo applicazione di criteri equitativi al di fuori dei casi previsti
dalla legge, con una sorta di applicazione della regola dell’equità sostituiva,
ed il settimo motivo di ricorso, che denuncia l’insanabile contrasto tra
motivazione e dispositivo quanto alla regolamentazione delle spese di lite
(posto che in motivazione la Corte d’Appello poneva i due terzi delle stesse a
carico dell’appellante, salvo poi in dispositivo prevedere che fosse la
ricorrente a doversi fare carico delle spese del doppio rado in tale
percentuale), restano assorbiti per effetto dell’accoglimento del terzo e del
quarto motivo di ricorso.

5. Il giudice del rinvio, come sopra designato,
provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso,
nei limiti di cui in motivazione, rigetta il primo ed il secondo motivo, ed
assorbiti i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per
le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa
composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 maggio 2021, n. 15005
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