Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 giugno 2021, n. 17357

Rapporto di lavoro, Demansionamento, Accertamento,
Risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale

 

Rilevato che

 

1. Con sentenza n.801 depositata il 28/10/2019, la
Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del Tribunale
della medesima sede, ha respinto la domanda proposta da M.C., nei confronti di
I. e A.P. s.r.l. per l’accertamento del demansionamento subito negli anni 2008
e 2009 e per la conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del
danno patrimoniale e non patrimoniale nonché dell’ente previdenziale
all’indennità per malattia professionale.

2. La Corte territoriale, dato atto
dell’inquadramento del lavoratore quale operaio di quinto livello,
“addetto alla rampa” presso lo scalo aeroportuale di Palermo P.R., ha
rilevato, per quel che interessa, che l’assegnazione esclusiva al nastro
bagagli avvenuta “per alcuni mesi, al massimo un anno, collocabili
nell’arco temporale compreso tra il 2007 e il 2009” aveva determinato un
demansionamento, posto che le mansioni esigibili dal Catania potevano essere
solo quelle di conduzione e manovra di mezzi meccanici all’interno
dell’aerostazione; ha aggiunto, peraltro, che il ricorso originario risultava privo
di “allegazione alcuna in ordine alla natura, alle singole voci e alle
caratteristiche degli asseriti pregiudizi lamentati, sicché difettano anche di
indispensabili elementi di valutazione fondanti la prova per presunzione
sollecitata dal ricorrente” ed ha, altresì, sottolineato che le prove
testimoniali acquisite dimostravano le circostanze relative alle concrete
mansioni svolte e non i danni subiti dal demansionamento, che a fronte
dell’irrisorio periodo di demansionamento non era sostenibile una perdita di
capacità professionale in ordine alla conduzione di mezzi meccanici per cui era
richiesta soltanto un’apposita patente, che, infine, la consulenza tecnica
d’ufficio aveva accertato un disturbo dell’emotività risalente al 2006, ossia
circa a due anni prima del dimensionamento e che andava pertanto escluso
qualsiasi nesso di causalità con la patologia acclarata anche a fronte della
testimonianza resa dalla moglie del lavoratore avente carattere di genericità
in ordine al mutamento delle abitudini di vita del marito e in parte
concernente fatti riferiti de relato.

3. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il
Catania, articolato in tre motivi, cui hanno opposto difese la società e l’I.
con distinti controricorsi; la società A.P. s.r.l. ha altresì depositato
memoria;

4. la proposta del relatore è stata comunicata alle
parti, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’articolo 380 bis cod. proc. civ.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce
“omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione” avendo, la Corte
territoriale, valutato in modo non corretto la consulenza tecnica d’ufficio che
avrebbe comunque riscontrato un aggravamento dello stato psicofisico del
lavoratore nell’arco di tempo 2008 – 2010 strettamente correlato
all’adibizione, per quel periodo e senza rotazione, ad un lavoro in ambiente
illuminato esclusivamente da luce artificiale.

2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce
“erronea, falsa, omessa applicazione degli artt.
115 e 116 c.p.c.” avendo, la Corte,
valutato in modo non corretto la consulenza tecnica d’ufficio del dott. G. e
omesso di tenere anche in minima considerazione la documentazione medica
allegata, come evidenziato nelle note critiche del consulente tecnico di parte
che ha sottolineato come il lavoratore ha continuato la terapia medica fino al
2012 con ansiolitici e stabilizzatori del tono dell’umore e come il lavoratore
risultasse affetto da sindrome psicopatologica come accertato dal centro anti
mobbing di Palermo (diagnosi confermata dal centro di salute mentale nel 2015,
2018, gennaio 2019), presentando il Catania sintomi di ansia e tensione fin
dalla fine del 2006, con certificazioni di malattie per sindrome ansioso
depressiva sin dalla metà del 2008, per scompenso dei valori pressori, per
reflusso gastro-esofageo, con conseguente chiara dimostrazione del nesso di
causalità tra demansionamento e patologia da fondare sulla base degli innumerevoli
studi scientifici che correlano stress e malattie psicosomatiche. La Corte,
inoltre, “ha omesso di valutare de plano, e senza adeguatamente motivarne
la ragione, le oculate e prudenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione
esistenti in materia specifica, nonché le oculate conclusioni del giudice di
prime cure”, dovendosi considerare gli orientamenti giurisprudenziali in
materia di danno differenziale e di danno conseguente a demansionamento, ed
essendo privo di veridicità il principio secondo cui danni da dequalificazione
non costituiscono conseguenza automatica della adibizione a mansioni inferiori,
preso comunque atto che il danno è risultato adeguatamente provato
nell’istruttoria svolta che è stata erroneamente interpretata dalla Corte territoriale.

4. I motivi presentano plurimi profili di
inammissibilità.

4.1. I motivi appaiono inammissibili in quanto si
sostanziano, anche laddove denunciano la violazione di norme di diritto, in un
vizio di motivazione formulato in modo non coerente allo schema legale del
nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, c.c.,
applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

Come più volte precisato da questa Corte, il vizio
di violazione di legge coincide con l’errore interpretativo, cioè con l’erronea
individuazione della norma regolatrice della fattispecie o con la comprensione
errata della sua portata precettiva; la falsa applicazione di norme di diritto
ricorre quando la disposizione normativa, interpretata correttamente, sia
applicata ad una fattispecie concreta in essa erroneamente sussunta. Al
contrario, l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle
risultanze di causa è esterna all’interpretazione della norma e inerisce alla
tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede
di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 26272 del 2017; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; n. 26307 del 2014). Solo
quest’ultima censura è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di
causa.

In particolare, con riguardo alla consulenza tecnica
d’ufficio, i lamentati errori e lacune della consulenza sono suscettibili di
esame in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di
motivazione della sentenza, quando siano riscontrabili carenze o deficienze
diagnostiche o affermazioni scientificamente errate e non già quando si
prospettino semplici difformità tra la valutazione del consulente circa
l’entità e l’incidenza del dato patologico e la valutazione della parte, e ciò
anche con riguardo alla data di decorrenza della richiesta prestazione (Cass. n. 23990 del 2014, Cass. 1652 del 2012, Cass. n. 569 del 2011).

Inoltre, la censura è prospettata con modalità non
conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione,
secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel
ricorso il contenuto della relazione del consulente medico d’ufficio e dei
documenti medici che si ritengono erroneamente esaminati dal consulente medico
d’ufficio, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne
l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così
ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del
suddetto principio dagli artt. 366, primo comma,
n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.

4.2. Secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, inoltre, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione
impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed
autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico,
l’omessa impugnazione di tutte le “rationes decidendi” rende
inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singole
ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime,
quand’anche fondate, non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta
definitività delle altre non impugnate, all’annullamento della decisione stessa
(ex multis, Cass. S.U. n. 7931/2013; Cass. 18/09/2006, n. 20118).

Nel caso in esame il motivo censura solo una delle
rationes decidendi poste dalla Corte di merito a fondamento del rigetto della
domanda di risarcimento del danno (ossia la carenza di prova) e il motivo non
investe l’affermazione contenuta nella impugnata sentenza secondo cui “non
risulta allegazione alcuna in ordine alla natura, alle singole voci e alle
caratteristiche degli asseriti pregiudizi lamentati, sicché difettano anche gli
indispensabili elementi di valutazione fondanti la prova per presunzioni
sollecitata dalle ricorrenti (pag. 10 della sentenza).

4.3. In tema di risarcimento del danno derivante
dalle mansioni, questa Corte – sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 6572 del 2006 – ha costantemente affermato che
il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno
professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i
casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica
allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un
pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita
diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo
esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni
comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è
sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale,
incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di
fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno
non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. n. 29047 del 2017, Cass. n. 19785 del 2010).

5. In conclusione, il ricorso va dichiarato
inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato
dall’art. 91 c.p.c.

6. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato previsto dal d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il
ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Dchiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento, nei confronti di ciascun controricorrente, delle spese
del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi e
in euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a
norma del comma 1-bis dello stesso art.
13, se dovuto.

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